Tonya Harding con la faccia da bulla, Tonya violenta, Tonya white trash, Tonya che si dà al pugilato. Chi ha capito davvero la pattinatrice protagonista di "I, Tonya"?
Quando la carriera di un atleta professionista finisce per un infortunio o per vecchiaia, non c’è niente da capire. Il decadimento del corpo è prevedibile, e la malattia suscita qualcosa a metà tra il pudore e l’imbarazzo (ho scoperto che Batistuta fatica a camminare solo qualche sera fa, per caso, di certe cose non si parla). Quando una carriera sportiva finisce per un crimine, invece, può capitare che dopo trent’anni ci siano ancora domande, e che in tutto questo tempo non si siano trovate risposte giuste o sufficienti. È quello che è successo all’ex pattinatrice sul ghiaccio Tonya Harding: dopo dozzine di documentari, talk show, apparizioni improbabili e persino una canzone di Sufjan Stevens, non la capiamo ancora così bene.
La prima volta che non ho capito Tonya Harding avevo circa dieci anni: il 6 gennaio del 1994, la pattinatrice Nancy Kerrigan era stata colpita alla coscia destra da un manganello durante i Campionati nazionali a Detroit, vinti proprio da Harding, ma il titolo le è stato ritirato quando si è scoperto che è stato il suo ex marito a ordire l’attacco. Da quel momento ho seguito il caso in ogni forma possibile, tanto da trasformarlo in un’ossessione. Com’era possibile che detestasse una rivale al punto da volerle sfasciare i legamenti? Di crimini e misfatti sportivi ero completamente vergine all’epoca. Non sapevo, per esempio, che il 16 giugno del 1983 Louis Resto aveva sfidato Billy Collins Jr. al Madison Square Garden in uno degli incontri di pugilato più cruenti della storia. Louis Resto era un pugile portoricano poco elegante ma solido, allenato da una figura di dubbia moralità, tale Panama Lewis, mentre Billy Collins Jr. era imbattuto, più giovane, e sul ring veniva assistito dal padre. È stato proprio il padre di Collins a rendersi conto che l’incontro era truccato: Resto ha maciullato la faccia dell’avversario con un paio di guantoni quasi privi di imbottitura e le fasciature pietrificate dal gesso. A Lewis è stata revocata la licenza, mentre Resto è stato espulso dalle gare e dopo qualche anno di carcere ha iniziato a vivere accanto alla sua vecchia palestra. Una mia amica è andata a intervistarlo qualche anno fa nel Bronx, ha detto che lui voleva solo mostrare i muscoli ancora allenati. Pochissimi cenni a quell’incontro o alla vita angusta che conduceva. «Parlava solo di pugilato. Ha fatto il nome di Collins a malapena». Louis Resto è la prima persona a cui penso dopo aver visto I, Tonya, il film basato su interviste rilasciate da Harding e i suoi familiari nel corso del tempo. Penso al modo in cui l’attrice che la interpreta, Margot Robbie, se ne sta appesantita in cucina dopo essere stata bandita dal pattinaggio per sempre. Alla fine appare una didascalia in cui c’è scritto «Tonya Harding ci tiene a far sapere che oggi è una buona madre». Resto mi viene in mente perché quando è stato intervistato dalla mia amica in una palestra malmessa, dei suoi figli non ha voluto parlare e non ha fatto molto per riabilitare la sua immagine. Tonya Price invece specifica che non dice tante parolacce come Robbi nel film e non ha mai insultato i giudici durante una gara e parla spesso della sua nuova famiglia, quella «buona».
«Sapevi niente del match tra Resto e Collins?», mi ha chiesto la mia amica, e io ho scosso la testa. I ragazzi si picchiano, il pugilato è uno sport intrinsecamente violento, le scommesse sono truccate, cosa c’era mai da stupirsi in un episodio del genere, ammesso ne avessi sentito parlare da qualcuno? Ma il ginocchio quasi spaccato di Kerrigan alla vigilia delle Olimpiadi, quello sì che attirava la mia attenzione: il sangue si nota di più se versato sul ghiaccio. Per facilitare le chance di Harding ai giochi di Lillehammer, l’ex marito Jeff Gilloy – lo stesso che ha venduto un sex tape di loro due ai tabloid per pagare le spese processuali e che la picchiava – e la sua guardia del corpo assoldarono degli scagnozzi per mettere Kerrigan fuori gioco. Durante gli interrogatori con l’Fbi, Gilloy ha messo in chiaro che Tonya sapeva quanto stava per accadere, salvo poi ritrattare e ammettere di averle rovinato la carriera. A dieci anni, di questa gang di criminali improbabili mi interessava poco. La mia attenzione era tutta su Tonya La Bionda e Nancy La Bruna.
La stampa con Tonya Harding e Nancy Kerrigan ha creato una storyline di inimicizia fra di loro ben prima dell’incidente, tanto per aumentare la tensioneE questo è il secondo errore che ho commesso nel capire Tonya Harding: non solo pensavo fosse una poco di buono, ma credevo anche che le venisse così facile odiare un’altra ragazza solo perché era più carina e amata. (Non più brava: c’erano poche cose sul ghiaccio che qualcuno poteva fare meglio di Tonya, lo dicevano pure i telecronisti a cui stava antipatica). E così, invece di concentrarmi sugli uomini che avevano organizzato il complotto, ho fatto finta che quell’incidente fosse come una rissa durante la ricreazione. Magari si erano dette qualcosa di brutto prima di una gara nei corridoi – come quella volta che una ragazza con le lentiggini aveva offeso mia madre e io le avevo spezzato gli occhiali a metà – o forse Tonya era invidiosa perché il padre di Nancy non se n’era andato e sua madre non la picchiava. Le lacrime di Tonya Harding davanti a tutti in conferenza stampa mi erano sembrate un’ammissione di colpa, ed era finita lì. La verità è che all’epoca ero davvero convinta non potessero esserci vittime innocenti tra ragazze, c’erano troppe slealtà parallele. È la stessa cosa che ha fatto la stampa con Tonya Harding e Nancy Kerrigan, creando una storyline di inimicizia fra di loro ben prima dell’incidente, tanto per aumentare la tensione. Invece di trattarle da due atlete in competizione per qualcosa, le ha ridotte in simboli di una certa società americana. Almeno questo errore di interpretazione non l’ho fatto da sola.
Nonostante quello che canta Sufjan Stevens in “Tonya Harding”, questa ragazza di Portland non poteva apparirmi come una shining American star, anche se era la prima donna americana a infilare un triplo axel durante una gara, anche se il suo sorriso dopo esserci riuscita ai Campionati nazionali del 1991 era da fracassare il cuore. Harding aveva i capelli frisé, il trucco pesante e i lineamenti da bulla. Nancy Kerrigan, dal canto suo, somigliava all’amica di Barbie dai capelli castani, aveva lo stesso piglio di una maestra di sostegno capace di improvvise isterie. Per solidarietà di classe avrei dovuto stare dalla parte di Harding, ma neanche Kerrigan era ricca, nonostante i giornali cercassero di sostenere il contrario (effettivamente, aveva dei lineamenti da privilegiata): suo padre doveva fare tre lavori per pagarle gli allenamenti, così come la madre di Tonya Harding aveva sempre fatto la cameriera per finanziare le lezioni. Quel che la stampa voleva dire era che Kerrigan era ricca perché la sua povertà era addomesticata e accettabile: a casa sua non c’erano alcol, abusi fisici e psicologici, Tonya sapeva usare il fucile e truccare i motori; spesso gareggiava con i lividi.
A un certo punto Tonya e Nancy sono state quasi amiche, hanno condiviso la stanza durante le gare di qualificazione, ma non c’erano tanti motivi per legare. Forse l’unica cosa che avevano in comune era un’intima ribellione alle regole del pattinaggio artistico. Del motivo per cui la Federazione non poteva sopportare Tonya Harding sono piene le cronache dell’epoca. «Non ti possiamo dare dei voti più alti per via dei tuoi costumi», le dicono dei giudici a un certo punto, già irritati dall’uso delle sue musiche tra cui un giorno spiccherà la colonna sonora di Jurassic Park, al che Tonya risponde: «Datemi 5000 dollari e avrete i vostri costumi». Dal canto suo, Kerrigan non ha fatto bene la parte della vittima, da cui ci si aspetta almeno il sorriso dopo un moto di solidarietà nazionale. Dopo le Olimpiadi, durante una parata promozionale a Disney World, qualcuno intercetta Kerrigan mentre dice a Topolino: «Che cazzata, non ho mai fatto niente di più patetico in vita mia», e il commento va in onda. Da quel momento la stampa si ritrova con una colpevole che non è interamente colpevole come Tonya e una vittima antipatica come Nancy, e la storia si sgonfia.
Quando ai famosi Campionati nazionali del 1991 Harding infila un triple axel jump in una mossa gloriosa che spacca ancora lo schermo, il telecronista non dice «beautiful» come si fa di solito, dice «good girl»Quando ai famosi Campionati nazionali del 1991 Harding infila un triple axel jump in una mossa gloriosa che spacca ancora lo schermo, il telecronista non dice «beautiful» come si fa di solito, dice «good girl». Riguardo il video, e quel «good girl» mi colpisce ogni volta, come se Tonya ne avesse fatta una giusta finalmente. Il commentatore non invoca la bellezza che si dispensa così facilmente sul ghiaccio ma un criterio di bontà e conformazione alle regole, quando in quel preciso momento Harding sta violando ogni legge fisica e corporea possibile. È come quando Jenny in Sembrava una felicità dice di voler essere un «mostro d’arte»: Tonya Harding è stata un mostro del ghiaccio, nel senso più viscerale, forte e commovente possibile. Raramente i cronisti dicono che è bella o aggraziata. Dicono che è potente, veloce, atletica. In qualche modo fanno capire che Tonya è feroce, un commento a cui tenniste come Serena Williams o ballerine come Misty Copeland sono abituate: tutto nel corpo di un’atleta nera incoraggia l’inno alla potenza, la muscolarità viene sempre prima della bellezza. Ma nel caso di una pattinatrice artistica bianca sul ghiaccio? Allora quella ferocia, se non pertiene alla razza, deve appartenere alla classe. Mentre si è allenata, ha surclassato le avversarie, è stata squalificata e si è riciclata come boxeur per dare al pubblico il sangue che le aveva richiesto, Tonya Harding è diventata molte cose, quasi tutte legate alla sua classe sociale.
La principessa dei trailer park. L’imbarazzo white trash d’America. Una feminist warrior che sapeva prendere il marito a pallettoni o una feminist chauvinist pig – per dirla alla Ariel Levy – che ha incorporato i codici del patriarcato, l’estetica porno e l’ostilità verso il suo stesso sesso. Tra tutte queste definizione ne manca una: quella di legittima avversaria. Dopo tanti errori di interpretazione, dopo tutta la mia incapacità di capirla bene, è di questo che dovremmo parlare. «Non può contare solo quello che avviene sul ghiaccio?», chiede Tonya ai giudici di gara che si ostinano a non darle i punteggi più alti per colpa della sua immagine. Sarebbe bello se una domanda del genere potesse scatenare una nuova gara in un incantesimo di alt-history.
Giochi invernali di Lillehammer, 1994: Tonya Harding e Nancy Kerrigan sono in competizione per la medaglia d’oro, a microfoni spenti. In una performance muta, nessuno ci dice chi è la principessa, nessuno ci dice chi è la ragazza cresciuta in miseria, alla prima non si rovinano i lacci, alla seconda non fa male la coscia destra. Non sappiamo se non si sopportano, se si sono dette cattiverie nei giorni scorsi, e anche se lo hanno fatto, possiamo apprezzare la soddisfazione di una violenza e brama di vittoria che è solo loro. Le vediamo pattinare e basta. Quando guardiamo Tonya Harding fare uno dei suoi salti, non pensiamo a quello che la scrittrice Dorothy Allison ha detto del trash. E cioè che «la forma del trash è attraente, ma il suo contenuto non lo è. Agli americani piace la forma senza il contenuto». Non pensiamo alla frase di James Baldwin che Allison ha messo in epigrafe al suo romanzo più famoso, La bastarda della Carolina (minimum fax, 2018), con cui la vita di Tonya Harding ha davvero qualcosa in comune: «Le persone pagano un prezzo per quello che fanno, e ancora di più per quello che hanno concesso a se stesse di diventare. E il prezzo, molto semplicemente, è la vita che conducono». Non ci pensiamo anche se il senso di Tonya Harding, ora Tonya Price, sta tutto qui: nell’audacia di quello che ha concesso a se stessa di diventare. A proposito di prezzo, invece: di sei incontri di boxe da semi-professionista, Tonya ne ha vinti tre e persi altrettanti. Durante gli incontri il pubblico la fischiava sempre, arrivando a sputarle addosso. Stranamente pacata per la sua personalità combattiva, a volte abbassava la testa come se lo meritasse. Il suo soprannome era ancora BAD GIRL.