Come il City è diventato padrone di Manchester

Guardiola ha conquistato il terzo titolo in cinque stagioni e ora giocherà la finale di Champions, lo United non vince la Premier dal 2013. Come siamo arrivati a questo sorpasso?

Nel 1340, Edoardo III – il sovrano che avrebbe regnato sull’Inghilterra per mezzo secolo, trasformandola in un’inedita potenza militare – armonizza in un solo stemma l’emblema inglese (il campo rosso coi tre leoni d’oro) e quello francese (il campo azzurro coi gigli, sempre d’oro) come a esprimere simbolicamente un’unità – una sottomissione francese – impossibile nei fatti. Un secolo dopo, alla fine della Guerra dei Cent’Anni (con l’indipendenza definitiva della Francia), quei due emblemi si separeranno per sempre, a parte qualche riemersione isolata, come il rosso-blu delle cravatte e dei blazer di Eton. E secoli dopo ancora, quella contrapposizione araldico-cromatica si riprodurrà nella Manchester calcistica, dove il rosso-fuoco dello United dominerà a lungo e spietatamente sull’azzurro-cielo del City.

Una contrapposizione quasi manichea, col rosso-United fuso dal 1965 all’icona diabolica, mutuata quell’anno dai rugbisti di Salford, sull’altra sponda dell’Irwell; un demone da Malebolge dantesco, spesso presente tra le maschere della curva. Perché è vero che l’“azzurro-cielo” adottato dal City subisce a sua volta, nell’Inghilterra moderna, un tentativo di riconversione demoniaca, quando i commercianti-tintori del rosso – messi in crisi dall’importazione del più economico indaco delle Americhe e dalla delegittimazione ideologica del loro colore, associato proprio a Lucifero – arrivano a commissionare affreschi infernali con fiamme e demoni azzurri per screditare i competitors. Il risultato però, sarà fiacco, e di quel tentativo resterà più che altro un’espressione idiomatica («I have the Blue Devils», dove “blue” abbraccia lo stesso ampio spettro dell’indaco) per indicare uno stato di malinconia profonda e paralizzante, la stessa dei tifosi Citizens nella descrizione di Colin Shindler in un libro leggendario (La mia vita rovinata dal Manchester United). Echeggiato anche nell’inno del club (Blue Moon), quell’umore malinconico è dovuto in primo luogo proprio alla soggezione-frustrazione rispetto ai Red Devils; a una storia e a un’identità sintetizzate da Shindler in istantanee come quelle delle desolate case a schiera proliferate intorno a Maine Road (il vecchio, adorato stadio City) o dei Fenners, tramutati nel tempo da luogo di partitelle con lo smoking a bunker di spacciatori.

Negli ultimi anni – o meglio dal passaggio proprietario del club, nel 2009, all’Abu Dhabi United Group del principe Mansur – quella soggezione sembra non solo terminata, ma addirittura rovesciata di segno, invertita. Il tutto è avvenuto in due sequenze progressive. Nella prima – coincidente col sovrapporsi tra il lento congedo di Sir Alex Ferguson e i primi effetti dell’ingresso degli Emirati – i Citizens esercitano un break agonistico, dato che l’ultima Premier di Sir Alex (2012/13) è stretta nella morsa tra quella vinta da Mancini all’ultimo nanometro proprio sullo United e quella vinta da Pellegrini. Nella seconda – segnata in profondità dal brand tecnico-estetico di Guardiola – il break e la soggezione diventano culturali: per la prima volta nella parabola del calcio inglese, non è iperbolico identificare “la” squadra di Manchester col City; e il rovesciamento sarebbe stato ancora più marcato se Pep avesse vinto – oltre alle due Premier-monstre contro il Liverpool di Klopp e a un infinito corredo di “coppette” autoctone – l’agognata terza Champions, obiettivo in teoria ancora possibile in questa e nelle prossime due stagioni. Per quanto Shindler e altri puristi/idealisti celesti eccepiscano – come dei Granata che trovassero inconciliabile rovesciare le gerarchie con la Juve soprattutto grazie a un assetto proprietario e finanziario turbocapitalistico, quindi impoetico – l’ascesa del City è il principale fattore di incidenza nell’attuale crisi dei Red Devils post-Ferguson. Il principale, ma non l’unico, in un quadro causale più sfumato, innanzitutto lungo la linea temporale.

Nella sua storia, lo United ha avuto diverse fasi di blackout, a volte sprofondando persino in qualche blackhole. Dopo il lungo quarto di secolo segnato dal magistero tecnico-manageriale del suo moderno Padre Fondatore, lo scozzese Matt Busby, in sinergia col fedele McGuinness – culminato, anche a livello simbolico, nella Coppa Campioni del ’68, quella che oscura il secondo titolo nazionale dei Citizens – la società entra in una lunga eclisse. Tra l’ultima Premier dell’era-Busby (1966/67) e la prima dell’era-Ferguson, guarda caso un altro scozzese (1992/93), corre giusto un altro quarto di secolo, in cui lo United prima flette il rendimento, poi deraglia e sprofonda, con la retrocessione in Second Division (’74), oltretutto grazie all’epico gol di tacco dell’ex Denis Law, passato ai Citizens dopo essere stato parte della Trimurti rossa con Charlton e Best; per i veri azzurri, un cult superiore a ogni possibile vendetta-catarsi, da qui alla fine dei tempi.

È un quadro – un diagramma a montagne russe – che rende imparagonabile lo United ai team dell’establishment europeo cui sembra assomigliare a primo impatto: Real, Juve o Bayern (il crash della Juve in B, com’è noto, è dovuto a fattori extra-tecnici). Del resto, a ben guardare – per la contendibilità della leadership, per una politica sportiva e una classe arbitrale comunque più trasparenti che sul continente – una vera squadra dell’establishment in Inghilterra non c’è; anche il Liverpool, l’unica vera alternativa allo United, è infatti tutto fuorché una squadra “di palazzo” o, almeno, di egemonia ininterrotta, come dimostra il digiuno trentennale in First Division-Premier, appena sanato.

Il Manchester United ha vinto l’ultimo dei suoi 20 titoli nazionali nella stagione 2012/13, l’ultima da allenatore di Sir Alex Ferguson (Alex Livesey/Getty Images)

Per diversi aspetti – e con buona pace di Shindler – i Devils hanno anzi una storia più da Toro che da Juve: vedi il bombardamento di Old Trafford durante la guerra, che li costringerà a un lungo condominio coatto coi Citizens proprio in Maine Road; e vedi soprattutto – evento simmetrico a Superga per i Granata – la tragedia di Monaco di Baviera (3 febbraio ’58), quando l’aereo dello United si schianta al terzo tentativo di decollo su una pista resa impossibile dal cumulo di neve e fango, uccidendo 23 dei 44 passeggeri. Tra le vittime: 8 “Busby Babes” (i giocatori del team), 3 membri dello staff e 7 giornalisti, uno dei quali – Frank Swift di News of the World – è anche allenatore dei portieri della Nazionale e del City. Tra i sopravvissuti: Busby stesso e il giocatore-simbolo Bobby Charlton.

Una volta sporto lo sguardo su questo “dark side” (sulla discontinuità di risultati e la memoria tragica del club) è più facile collocare la crisi in corso su processi di lunga durata, con qualche ricorsività e qualche indicazione. Sul fatto, per esempio, che il terzo “quarto di secolo” (abbondante) dei Red Devils – i 27 anni della monarchia di Fergie – non comincino in modo incoraggiante. Arrivato col credito dei tanti successi ottenuti con l’Aberdeen (tra cui spicca una Coppa delle Coppe con vittoria in finale sul Real Madrid), Sir Alex parte in sordina, vincendo il primo trofeo (una Coppa d’Inghilterra) al quarto anno, il primo campionato al settimo, la Champions al tredicesimo. La presidenza e la società gli concedono il tempo e l’agio di un work in progress paziente, persino laborioso, molto più di quello concesso a Klopp nel Liverpool attuale, giustamente additato a canone di costruzione sistemica. Solo così Fergie può strutturare i suoi cangianti United sulla griglia di un 4-4-2 eclettico, magari non rivoluzionario ma inconfondibile per il dinamismo, la prossimità di pressing & forcing, le distensioni sui binari laterali: di tutti, il più “ventoso” ed esaltante resta forse quello coi due Neville esterni bassi, Keane e Scholes a contrastare/ irradiare, Beckham e Giggs ad aprire il compasso, i dioscuri neri Cole e Yorke a stoccare.

Qui sta il nodo. Una volta lasciata la panchina, Sir Alex – in qualità di direttore/supervisore ovvero plenipotenziario – non concede ai suoi eredi lo stesso agio di cui ha goduto lui. Il primo a essere immolato è il 50enne outsider David Moyes, che arriva dall’Everton con forti credenziali etno-culturali: pedigree scozzese (è di Glasgow come Fergie); ottimo trend di risultati (quattro qualifiche europee); e soprattutto il brand di certi tratti del gioco offensivo, specie sulle fasce, con rapidi cambi di fronte per attaccare il lato debole avversario (allenati nel training con ossessivi e creativi 2vs1 o 3vs2). Tutto evaporerà in dieci mesi, con la mancata qualificazione Champions e Giggs reclutato a rimpiazzarlo ad interim, in un precoce naufragio determinato da errori di mercato, uno spogliatoio sfuggito al controllo persino in quei giocatori-cardine lanciati da lui (Rooney) e un gioco via via più involuto alla base di una catena non più sopportabile di sconfitte. La lettera dignitosa e disperata del coach ai tifosi (sorta di supplica dolente) ne ratifica insieme l’onestà e l’impotenza. La seconda vittima di quella ricerca nevrotica di continuità è, al contrario, un top-coach – diciamo pure una leggenda – come Van Gaal.

 

Nella stagione 2018/19, il Manchester City è diventata la prima squadra inglese della storia a compeltar il Treble domestico, vincendo Premier League, FA Cup e Coppa di Lega (Laurence Griffiths/Getty Images)

Anche in questo caso, più e prima della filosofia di gioco e della tattica, lo snodo è il controllo: allentato con Moyes, qui, all’opposto, eccessivo. Acuendo e ulteriormente incupendo, con l’anzianità, certi tratti sadici del suo carattere. Van Gaal trasforma l’AON di Carrington in Forte Terrore di Game of Thrones (GoT), il seggio di Casa Bolton. Il passaggio-chiave è la doppia reazione alla rivolta collettiva contro i suoi brutali, umilianti rimproveri del singolo davanti alla gogna della squadra: prima il tecnico converte quei momenti in e-mail individuali, altrettanto spietate; poi, quando si accorge che molti giocatori le cancellano senza aprirle, fa implementare un programma in grado di verificarne la ricezione e la lettura. Di fatto impossibile, in quel clima orwelliano, sviluppare il gioco e arrivare ai risultati; il primo (pur lontano dall’iper-catenaccio valso al tecnico il 3° posto al Mondiale 2014) resta sfocato, con lacerti o segmenti “ajacidi” (grazie soprattutto al coach in campo, Blind jr.) diluiti in un tessuto opaco; quanto ai secondi, di fatto tutto si riduce a un’ennesima FA Cup, ultimo trofeo di Van Gaal e partitura inevitabile del suo Requiem di tecnico.

Il terzo tentativo spinge Sir Alex nel 2016 a ricorrere addirittura, in un crescendo bellico, al “parricida” di Van Gaal, José Mourinho (il riferimento è all’esecuzione con cui l’ex allievo al Barça giustizia il Maestro nella finale-Champions 2010, Inter-Bayern 2-0). Una risposta “simmetrica” alla scelta del City su Guardiola, vista da molti come un’inversione dei poli. In effetti, a parte l’identità demoniaca che lo oppone a quella “cristica” di Pep («il serpente della genesi» versus il «fottuto Messia», secondo i dixit di Condò e Noel Gallagher), JM avrebbe diversi tratti da Citizen: la coerenza “cromatica” (ha allenato per lo più squadre azzurro-blu come Porto, Inter, Chelsea) e soprattutto l’attrazione da underdog per club da rilanciare (il titolo al Chelsea dopo 50 anni, la Champions all’Inter dopo 45), con le finanze di ricchi e/o arricchiti. Così come, a rovescio, in molti (Cantona in testa) vedrebbero Pep meglio sulla sponda United, specie per l’adesione a un credo filosofico più estetico che risultatista.

In realtà, la “sliding door” dei destini che si biforcano non è mai davvero aperta. Se l’arrivo di JM allo United è il prodotto di un’astuta auto-promozione e del peso di un agente come Mendes, quello di Pep al City è tenacemente programmato da tempo, con l’ingresso progressivo della colonia catalana (Soriano, Beguiristain, più tardi anche Estiarte) ad aprirgli la strada, e un “assaggio” propedeutico-visionario per i tifosi Citizens in una serata e un match precisi all’Etihad: 2 ottobre 2013, City-Bayern 1-3, match in cui i tedeschi di Pep si muovono come un super-organismo plastico esfuggente,acme–tra 65’e69’–i 3minutie27 secondi con 94 passaggi consecutivi a disegnare un gigantesco, interminabile rondo. Una programmazione, per inciso, opposta alla logica prevalentemente “galactica” (le star prima del gioco) dei cugini qatarioti al PSG.

 

Sergio Agüero e Pep Guardiola sono le due anime dell’era mdoerna del City: con 258 gol dal 2011 a oggi, il centravanti argentino è il recordman di gol in partite ufficiali; Pep, invece, è il manager che ha conquistato più trofei in assoluto, dieci (Laurence Griffiths/Getty Images)

Che JM sia il “wrong man” appare chiaro subito, al primo derby settembrino (United-City 1-2), col mandala fluido di Pep che si distende sul prato di Old Trafford e Sir Alex in tribuna che – pur avendo sempre esaltato l’agonismo del portoghese – scuote la testa, sconsolato. Già lì si intravede come il redde rationem annunciato tra i due coach (nella stessa città, dopo il braccio di ferro spagnolo) devierà in altra narrazione. Da una parte, infatti Mourinho otterrà buoni risultati (su tutti, un’Europa League incappottando l’Ajax emergente di Bosz, poi fatto fiorire da Ten Hag) e ritroverà a tratti le sue transizioni-laser, la sua “arte e scienza della ripartenza”. Ma Pep, dall’altra, vincerà le due Premier storiche (100 e 98 punti) contro il “vero” avversario subentrato, il Liverpool di Klopp; quanto al gioco, affinerà la ricerca cominciata al Barça e proseguita al Bayern, plasmando un team tenace e duttile come il grafene (il rivoluzionario cyber-materiale scoperto proprio in un ateneo di Manchester), sempre più inconfondibile non solo per il fraseggio (con “legati” da archi dei Berliner) ma persino per il “tocco” (il “suono” di un Benedetti Michelangeli). L’esito di quella radiance – e dello spostarsi dello scontro di vertice verso Citizens-Reds – relegherà lo United ai margini: passando da GoT a Tolkien, sotto il cono d’ombra di Mordor.

Niente di più naturale, quindi, per Sir Alex, che resettare e ripartire con un ragazzo della Contea (uno dei suoi “fedelissimi”) come Solskjaer. Tornare al rosso-United senza allusioni demoniache, come colore delle origini, scelto dai ferrovieri-fondatori in mimesi-sintonia (più che con la coeva Internazionale socialista, riferimento peraltro gradito al laburista Ferguson) con le bandierine indicanti “pericolo” nelle stazioni; e in quanto tale “avvertimento” agonistico per l’avversario. E se al momento anche il ragazzo della Contea trova grandi difficoltà – in un apprendistato che sta scontando oltretutto mercati fallimentari, con pochi acquisti di peso e tante perdite di talenti – alla proprietà dei Glazer converrà tornare alle cadenze delle pianificazioni pazienti. Lo suggerisce, tra l’altro, anche il realismo imposto dall’impasse pandemico.

Certo, è pesante sostenere la schizofrenia tra la permanenza nell’élite economico-finanziaria del calcio (lo United resta il terzo club al mondo dopo Barça e Real) e lo “status” attuale, di momentanea opacità. Non è detto, cioè, che il nuovo blackout debba durare per forza un quarto di secolo; né che per spezzarlo ci voglia di nuovo uno scozzese, in panchina come al vertice del board. Anche la tirannia illuminata di Sir Alex – alla lunga – si consegnerà alla Storia, come il regno di Edoardo III.

Da Undici n° 36