Il bootleg delle finali NBA 2015

Partita dopo partita, traccia dopo traccia, una immaginaria colonna sonora della sfida che ha incoronato i Golden State Warriors campioni NBA

Carlos Santana ha suonato a Woodstock alla fine degli anni Sessanta, nell’evento simbolo della controcultura americana. Ha duettato e collaborato con artisti di tutti i tipi, da Michael Jackson a Shakira, da Eric Clapton a Lauryn Hill. Ha mixato generi musicali e stili diversi — dal rock classico alla salsa, dal blues al fusion — conquistando tutti con l’inconfondibile suono della sua chitarra.

Carlos Santana, poi, ha anche suonato l’inno nazionale sul parquet della Oracle Arena prima del via di gara-2.

Scelta azzeccata, perché proprio come la carriera dell’artista messicano è stata varia ed eclettica, così la serie di finale NBA tra Golden State Warriors e Cleveland Cavaliers ha avuto mille anime e altrettanti personaggi e storie che sono saliti giorno dopo giorno alla ribalta. Eccoli — come fossero tracce di un album appena registrato.

Track 1: LeBron James

A un certo punto della serie, precisamente dopo gara-5, ai microfoni della conferenza stampa LeBron James pronuncia una frase di un certo peso: «Sono il miglior giocatore del mondo», afferma. Lo è, e non ci sono neppure tanti dubbi. Quest’anno è Steph Curry — il suo avversario nella serie che assegna il titolo NBA — ad aver vinto il premio di MVP, most valuable player, assegnato al miglior giocatore NBA della stagione. E James non ha più neppure in pugno lo scettro di campione NBA, appartenutogli nel 2012 e nel 2013 ma strappatogli dai San Antonio Spurs la scorsa stagione. Eppure, se lui è in campo — che sia una singola partita o una qualsiasi serie di playoff — LeBron James è la storia, “the talk of the town”. Non fanno eccezioni queste finali NBA e, fin dal primo episodio, il 23 dei Cavs si prende il palcoscenico. In gara-1 segna 44 punti, il suo massimo di sempre per una gara di finale, ma nel tempo supplementare assiste impotente alla frattura al ginocchio che mette fuori gioco per tutte le finali Kyrie Irving, l’altro All-Star rimasto al suo fianco, dopo che a inizio playoff anche Kevin Love aveva dovuto chiudere in anticipo la stagione per un infortunio alla spalla. In gara-2 mette a segno una tripla doppia (39 punti, 16 rimbalzi, 11 assist), che replica in gara-5 (40, 14 e 11) e sfiora sia in gara-3 (40, 12, 8) che in gara-6 (32, 18, 9 assist). A fine serie, sconfitto come inevitabile da una squadra migliore e incredibilmente più profonda, sfiora la leggenda. Oltreoceano raramente si rende omaggio agli sconfitti, preferendo la celebrazione dei vincenti. Così, in tutta la storia NBA, solo una volta un giocatore — Jerry West, dei Lakers, nel lontano 1969 — è stato votato miglior giocatore delle finali pur avendole perse (contro gli imbattibili Celtics dell’epoca). Nelle votazioni di quest’anno, a LeBron vanno 4 degli 11 voti disponibili. L’impresa di Jerry West rimane impareggiata (nonostante James abbia cifre migliori, se comparate) ma il concetto è chiaro: è sempre lui “il miglior giocatore del mondo”.

I 40 punti, i 14 rimbalzi e gli 11 assist di LeBron in gara 5

Track 2: Matthew Dellavedova

L’infortunio a Kyrie Irving accende i riflettori sul playmaker di riserva dei Cleveland Cavaliers, un improbabile australiano i cui nonni sono partiti da Tirano per down under che di colpo si ritrova dall’essere giocatore marginale a titolare obbligato, per di più col compito impossibile di marcare la superstar avversaria, Steph Curry. E invece Dellavedova se la cava egregiamente, tenendolo a 0/8 al tiro e forzandolo a perdere 4 palloni. Di colpo, baciato dalla principessa, il ranocchio diventa principe, e inizia la favola di “Delly”. Se si dà ai media USA un’occasione del genere, impossibile che se la lascino scappare. Quando in gara-3 il grintoso australiano confeziona una prestazione oltre ogni (suo) limite — è solo la seconda volta nella storia NBA che un giocatore con meno di 5 punti di media durante l’anno ne arriva a segnare 20 in una gara di finale — scoppia la “Delly-Mania”, che improvvisamente diventa l’argomento d’apertura di tutti i talk show sportivi. «A great player», tuonano diverse menti illuminate del gran carrozzone NBA, ubriacate da un’eccitazione quantomeno esagerata. Commovente per impegno, gran lottatore, giocatore di infinito cuore che incarna alla perfezione il termine anglosassone di overachiever, Dellavedova great player proprio non lo è e non lo sarà mai, limitato da limiti fisici e tecnici che non a caso lo hanno sempre confinato a palcoscenici minori. Ma la sua storia incanta, in parte anche giustamente, tutta America — e non è difficile capire il perché. Proprio in maglia Warriors, qui sulla Baia di San Francisco, hanno visto evoluire Wilt Chamberlain, il gigante dei giganti NBA, per cui il suo allenatore Alex Hannum una volta coniò la celebre frase: «Nessuno fa il tifo per Golia». Dellavedova ha Matthew come nome di battesimo, ma Davide sarebbe stato certamente più appropriato.

Difesa, attacco, difesa, attacco, difesa, attacco

Track 3: David Lee

Dell’eroe di gara-3 — vinta da Cleveland, a sorpresa in vantaggio 2-1 nella serie — avete già letto sopra. Ma l’ultimo quarto della partita segna il risveglio di Golden State (che infatti segna 36 punti). Il merito è di un ragazzotto con la faccia da american boy di nome David Lee. Un Lee che — con abbondanti dosi di energia e intelligenza — fa intravedere che un mondo diverso è possibile, che Golden State cioè può far male a Cleveland restando fedele al proprio stile di pallacanestro. È lo stesso Lee, però, che fino a quel punto non ha giocato un singolo minuto di finale NBA (e poco anche durante l’anno). Eppure è stato due volte All-Star NBA (nel 2010 in maglia Knicks e poi ancora solo due anni fa, nel 2013 con gli Warriors). Eppure a New York nel 2010 segnava più di 20 punti di media con quasi 12 rimbalzi a uscita. Eppure le stesse cifre le ha ripetute anche in California, per almeno un biennio. “Sacrificio” è la parola d’ordine, e l’allenatore degli Warriors Steve Kerr non si stanca mai di ripeterla per tutte le due settimane di queste finali. Il segreto della sua squadra sta anche — proprio? — in quei giocatori capaci di accettare ruoli e palcoscenici minori. David Lee è uno di loro. Ma non certo l’unico [no spoiler].

David Lee showing the way

Outro: Draymond Green

«Patetico». Ecco in che modo ha giocato fino a questo momento le sue prime finali NBA Draymon Green, muscolare & muscoloso enforcer dei californiani, l’uomo con la bocca larga almeno quanto le sue spalle. Non siamo certo noi a dirlo — non ne avremmo minimamente il coraggio — ma è la sua onesta ammissione dopo gara-3. E così — con Golden State in svantaggio 1-2 — decide di alzare la voce: «Il mio allenatore al college mi ha insegnato che un leader deve saper prendersi responsabilità e colpe. Come posso dire ai miei compagni che non stanno lottando abbastanza se sono io il primo a non farlo?». Il messaggio, che è quello che conta, arriva forte e chiaro. Se i suoi Warriors vogliono rovesciare la serie devono passare da aggrediti ad aggressori. Tutti, dal primo all’ultimo. Green compreso, che difatti chiude la serie con una tripla doppia da incorniciare: 16 punti, 11 rimbalzi, 10 assist. Altro che “patetico”.

Povero Dellavedova

Track 4: Steve Kerr (feat. Nick URen)

C’è qualcosa di diverso quando Golden State e Cleveland entrano in campo per la quarta sfida della serie. Il quintetto dei californiani è cambiato: fuori il centro Andrew Bogut (l’altro australiano della serie, its a global game!), dentro Andre Iguodala. È una decisione difficile, delicata, e coach Steve Kerr ammette che a suggerirgliela è stato il più giovane dei suoi assistenti, lo sconosciuto 28enne Nick U’Ren. Come? Con un sms, alle tre di notte. Andiamo avanti così: appena placatasi l’eccitazione collettiva per Dellavedova, ecco il nuovo eroe venuto fuori dal nulla. Il vero protagonista, però, è un altro — e risponde proprio al nome di Steve Kerr, il primo allenatore dai tempi di Pat Riley (1982) a condurre al titolo la sua squadra al primo anno in panchina. Esordiente in panchina, esordiente ovviamente anche a livello di finale NBA. Ma non del tutto, a dire il vero. Perché Kerr, prima di diventare il coach di questi Warriors, è stato stella al college (ad Arizona), giocatore NBA (principalmente a Chicago e San Antonio), commentatore televisivo e general manager (a Phoenix). E nelle sue apparizioni NBA in canotta e calzoncini ha ricevuto da Michael Jordan prima un cazzotto in faccia in allenamento (e quando MJ ti prende a pugni vuol dire che ti sei meritato attenzione e rispetto) e poi l’assist per scoccare il tiro decisivo — quello di gara-6 contro i Jazz nel 1997 — per uno dei titoli NBA targati Bulls (Kerr di anelli da giocatore ne ha in bacheca 5). L’allenatore di Golden State ha alle spalle una storia allo stesso tempo dolorosa e stupenda. L’assassinio del padre, presidente dell’università americana a Beirut nel 1984, portò Ronald Reagan a scrivere già allora una lettera aperta per mettere in guardia tutta America dal pericolo del terrorismo. Quella tragedia, seguita poi dai suoi successi sportivi, ha forgiato una mente aperta e brillante, dove convivono alti ideali e grande pragmatismo, uniti a uno humor sempre piacevole e alla saggezza di chi sa che c’è decisamente qualcosa di più importante di un grosso pallone arancione che entra o esce da un canestro. Trattasi del ritratto perfetto per far innamorare il nuovo presidente dei Knicks ed ex-santone delle panchine NBA Phil Jackson aka Coach Zen, che difatti lo voleva a New York per affidargli la guida della sua squadra. Kerr ha rifiutato, principalmente per restare vicino alla figlia che studia al college a Berkeley; e oggi, neppure un anno dopo, si ritrova campione NBA.

Track 5: Steph Curry

Le prime quattro partite di finale NBA di Steph Curry sono discrete-barra-buone ma non eccezionali — e dall’MVP NBA ci si aspettano pirotecnici fuochi d’artificio, non un banale falò sulla spiaggia. Nella giornata che precede gara-5 gli viene chiesto se prima della fine della serie pensa di riuscire a piazzare la zampata decisiva, la giocata-manifesto del suo talento, buona per il primo posto nella top-10 di Sportscenter, quel singolo highlight da mandare a rimandare in loop quando ci sarà da raccontare il trionfo dei Golden State Warriors nelle finali NBA 2015. Detto, fatto. Arriva sul finire della partita, nei momenti che la decidono: cambio di direzione, palleggio ubriacante, palla dietro la schiena, poi passo laterale e tiro da tre punti in faccia a Matthew Dellavedova (chi altri…). È un canestro che vale per 3 dei 17 punti del suo ultimo quarto, di una incredibile prestazione chiusa a quota 37, la migliore della sua serie, quella che porta gli Warriors a una vittoria dal sogno.

Steph Curry mette la freccia

Track 6: Andre Iguodala

“Sacrificio”, ve la ricordate? La parola d’ordine predicata da Steve Kerr. Andre Iguodala — come il suo allenatore stella universitaria ad Arizona — arriva alle sue prime finali NBA dopo 11 stagioni nella Lega, durante le quali è sempre stato titolare, in ogni singola partita disputata, prima a lungo a Philadelphia, poi un anno a Denver (squadre di cui era la superstar principale) e le ultime due stagioni a Golden State. È un veterano rispettato da tutti. è stato un All-Star nel 2012, anno nel quale ha anche vinto una medaglia d’oro olimpica con la nazionale USA a Londra (bissando quella ai Mondiale di due anni prima). A inizio stagione, prima del via del campionato, Steve Kerr chiama da parte proprio lui, per fargli un discorso difficile da ascoltare. Vuole promuovere in quintetto, nel suo ruolo, il giovane Harrison Barnes, per permettergli di crescere e far sbocciare quel talento evidente a tutti ma ancora non pienamente realizzato. A Iguodala — l’All-Star, il campione olimpico — chiede di uscire dalla panchina, di diventare una riserva, di guidare con tutta la sua esperienza quella che nella NBA viene chiamata “the second unit”. Per molto meno, nella NBA, saltano per aria equilibri e rapporti personali ben più consolidati. Lui, invece, accetta. «Non è stato facile — dirà con grande onestà —, non tanto perché dentro di me pensassi di meritarmi di essere in campo coi titolari, ma perché uscendo dalla panchina cambia completamente il tuo modo di giocare. Devi aggredire la partita, non puoi permetterti di entrare in ritmo con calma, devi produrre tutto e subito». La scelta di gara-4 di promuoverlo nuovamente titolare (non al posto di Barnes ma del centro Bogut, abbassando così il lineup degli Warriors) è la mossa che fa girare la serie. Con “Iggy” in quintetto Golden State non perde più (tre vittorie su tre) e lui — a cui è affidato il compito sostanzialmente impossibile di marcare LeBron James — chiude le ultime tre gare con anche più di 20 punti e 7 rimbalzi a sera, regalando 12 assist complessivi a fronte di una sola palla persa. Risultato? Niente meno che il premio di miglior giocatore delle finali NBA, per la prima volta assegnato a un giocatore che non ha disputato da titolare tutte le partite della serie. “Sacrificio”. E ricompensa.

Gara 4, Iguodala c’è

Bonus Track: Shaun Livingston

«Ho avuto due carriere, ho avuto due vite», dice guardando nel vuoto Shaun Livingston in conferenza stampa appena terminata gara-6, fresco campione NBA. Questa riprende quella brutalmente interrotta nel 2007 da un infortunio al ginocchio che ancora oggi viene considerato una delle scene più raccapriccianti mai viste su un parquet NBA (immagini che lo stesso Livingston si è sempre rifiutato di rivedere). Perché allora, in quel lontano 2007, Livingston era considerato uno dei talenti più promettenti del basket USA, tanto da essere approdato nella NBA (con la chiamata n°4 al Draft) direttamente dal liceo. Oltre due metri di statura ma trattamento di palla e doti di lettura irreali, per gli inevitabili paragoni si scomodava il nome una leggenda come Magic Johnson. Poi, come detto, l’infortunio, così grave che i medici in un primo momento non sono certi che Livingston possa tornare a camminare, mica a giocare a basket (e figurarsi farlo nella NBA). Invece lui non molla — e inizia la sua seconda vita. «Una vita che mi ha visto a lungo lontano dalla NBA — racconta ai microfoni —, poi in D-League [la lega di sviluppo collegata alla NBA, ndr], quindi alle prese con contratti da 10 giorni elemosinati in giro o breve apparizioni in mille squadre [Miami, Oklahoma City, Washington due volte, Charlotte e poi Milwaukee, proprio Cleveland e poi Brooklyn, ndr]. E oggi sono qui. Sono un campione NBA. Non trovo neppure le parole per poterlo descrivere».

Loss for words

 

Nell’immagine in evidenza, Draymond Green, David Lee e Andrew Bogut festeggiano il titolo NBA. Ezra Shaw/Getty Images