Ottanta minuti

L'Italia debutta nel Mondiale di rugby contro la Francia: non è nel suo momento migliore, ma se c'è una squadra che può ridare linfa vitale al movimento, è questa.

Va così: all’Italia bisogna volere bene anche quando le cose vanno a rotoli. Soprattutto quando le cose vanno a rotoli. Negli ultimi due anni di rugby, tutti i passi avanti lentamente mossi dall’ormai lontanissimo ingresso nel Sei Nazioni, sembrano essere diventati materiale da libri di storia. Leggende di sport da insegnare ai ragazzini delle giovanili, nulla di più. Lungi da me parlare di recessione, ma sicuramente i miglioramenti che nei primi tempi si potevano apprezzare torneo dopo torneo, ora si sono trasformati in un esercizio terribilmente lento e difficile. Il rugby è cambiato, è cresciuto e si è affermato a livello internazionale dal mondiale del 2007 più di quanto abbia fatto nei due decenni precedenti. Ha affinato la tecnica, si è trasformato in un gioco veloce, più facile da seguire e più adrenalinico. Tanto per chi lo pratica, quanto per chi lo segue. Non c’è da stupirsi se, con il mondiale del Regno Unito, la febbre da palla ovale stia tornando a farsi sentire un po’ dappertutto. La nazionale italiana, invece… Be’, bisogna volerle bene, soprattutto quando le cose vanno a rotoli.

La difficoltà più grande per Jacques Brunel — il tecnico francese che per un paio di stagioni è sembrato sempre sul punto di gettare la spugna sotto i colpi delle, più o meno cocenti, delusioni — sembra quella di trovare un quindici decentemente ispirato. Ci ha provato aggrappandosi alle vecchie glorie e non ha funzionato. Ci ha provato cambiando gran parte della formazione, introducendo quelli che nello scorso Sei Nazioni sono stati definiti, in un richiamo di ardore antico, i “Ragazzi del ‘90” e non ha funzionato. Questa volta sembra voler tornare sui suoi passi, in un miscuglio di tradizione e innovazione che, se non altro per averle tentate tutte fin qui, potrebbe rischiare di dare i suoi frutti. Dopotutto, l’Italia del rugby non è soltanto un manipolo di scampati che insegue un’impresa impossibile, ma anche un tesoro nazionale frutto di un lampo di genio. Se c’è una squadra che più farcela a ridare linfa vitale al movimento, è questa. Altre, non ce ne sono concesse.

Wales v Italy - International Match

Le premesse, mi tocca dirlo, non sono buone: la formazione è simile a quella vista in campo durante la scorsa stagione e i test match finora non hanno dato speranze. Se uno degli obbiettivi per questa fine estate così importante era di non cadere sotto la Scozia, passata da vecchia avversaria a nuova imprevedibile bestia nera, a Torino non è andata bene.

Il girone che ci è toccato (D), vista la nostra posizione, è di quelli che gli inglesi definiscono challenging. Francia, Irlanda, Romania e Canada. Procedendo per semplificazione, l’Irlanda rappresenta l’avversario più temibile. Non è più la squadra travolgente di un paio di stagioni fa, è stata costretta a parecchi ripensamenti e arrangiamenti più o meno forzati, ma è comunque il conglomerato di ferocia e determinazione che si è aggiudicato l’ultimo Sei Nazioni, scaricandoci addosso ventisei punti a Roma e risparmiandoci il cappotto solo grazie a un calcio centrato. Anche la Francia non è in forma smagliante, ma non c’è da stare tranquilli. Sarà la partita d’esordio, il 19 settembre nel tempio di Twickenham e, come di consueto, sarà anche la cartina tornasole che determinerà l’umore per le restanti settimane di torneo. Al Sei Nazioni è andata pessimamente — per noi, 0-29, sempre a Roma — ma i francesi non hanno brillato, avendone portate a casa solo un paio, la seconda contro la Scozia, e finendo al quarto posto.

La verità, però, non la toccheremo con mano fino all’11 ottobre, quando saremo chiamati a disputare l’ultima del girone a Exter, contro la Romania. Difficile dire come andrà. I rumeni hanno tanto da giocarsi e nel ranking mondiale sono a un passo dal morderci i polpacci. Non sono una squadra disciplinata, ordinata né prevedibile. Ma sono competitivi, molti di loro giocano in Francia e quasi tutti si sono formati a un rugby fisico al limite del distruttivo. Sono cattivi, come si dice, e noi saremo anche i buoni ma non per questo siamo destinati a vincere. Le statistiche parlano chiaro: mentre l’Italia perde posizioni, la Romania rimane stabile. Tanto basta per alimentare la preoccupazione, soprattutto quando — a patto di liquidare il Canada, che comunque con il suo diciottesimo posto non è così lontano e date per conosciute Irlanda e Francia — in un incontro si concentra tutta la speranza.

La partita decisiva sarà probabilmente contro la Romania, a patto di liquidare il Canada.

E la speranza di Brunel, che in altri momenti è venuta dalle giovanili, oggi si aggrappa al fervore della tradizione. La rosa è nota. Le prime linee sono solide, consolidate e riconosciute: al pilone sinistro si alternano Michele Rizzo e Matias Aguero, mentre a reggere il peso a destra sono il solito Martin Castrogiovanni e Lorenzo Cittadini. Al tallonatore Leonardo Ghilardini, Andrea Manici e Davide Giazzon. Queste sono le note positive e, anche se i vecchi volti di Ghilardini, Castrogiovanni e Aguero si fanno paonazzi sempre prima, i rincalzi sono di tutto rispetto.

In seconda linea, il sudafricano naturalizzato Quintin Geldenhuys è un marinaio di lungo corso, una colonna portante. Accanto a lui c’è una delle promesse migliori che la nazionale abbia partorito negli ultimi tempi, Joshua Furno. E poi basta, qui sta il problema. L’esperienza di Geldenhuys e la mobilità di Furno non sono sufficienti ad assicurare una difesa adeguata e un’incisività costante sui punti di incontro. Certo, ci sono i rincalzi, ma Valerio Bernabò viene da una stagione struggente a Treviso e di Marco Fuser quasi non si è sentito parlare. Siamo abituati a sperare nelle sorprese, speriamo di non esagerare con la fiducia.

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Parlando di vecchi: pare che Sergio Parisse sia insostituibile, ma non si può sempre contare su un suo guizzo geniale per portare la palla oltre la linea di meta dopo diversi lunghissimi minuti di sofferenza in cui lo stesso capitano è irreperibile perché impegnato in un lavoro di copertura che nessun altro sembra in grado di garantire. Al suo fianco ci sono Francesco Minto e Alessandro Zanni. Non un reparto male assortito, malgrado la mancanza di Simone Favaro e la strana scelta di utilizzare come riserva Mauro Bergamasco — ormai un pezzo di storia, più che un pezzo da museo. Oltretutto, il numero otto di origine figiana Samuela Vunisa non si è comportato per niente male, né con la franchigia delle Zebre, né durante i suoi precedenti impegni internazionali. Fine delle sviolinate comunque, cominciano i tempi duri.

La mediana è un territorio disastrato. A parte Edoardo “Ugo” Gori, che di erba sotto i piedi se ne è vista già passare a sufficienza, siamo ancorati alla nostalgia. Ci manca Alessandro Troncon e cosa non daremmo per riavere indietro Diego Dominguez. Il rugby ha una regola spietata: se non funzionano i mediani, non funziona niente. La stiamo provando sulla pelle da troppo tempo. Così eccoci con Guglielmo Palazzani, trequarti tuttofare la cui abilità principale non è ancora ben chiara, e il misteriosissimo Marcello Violi. Tommaso Allan, scozzese naturalizzato figlio di una lunga contesa che gli ha procurato un posto fisso in nazionale, parte all’apertura e si fa scortare dall’ancor più misterioso Carlo Canna — MVP nel campionato di eccellenza, certo, ma senza esperienza in azzurro e frutto di una serie di toppe raffazzonate messe a tappare l’abbandono di Luciano Orquera e all’infortunio di Kelly Haimona (che pagheremo. Ah, se lo pagheremo).

Il rugby ha una regola spietata: se non funzionano i mediani, non funziona niente. La stiamo provando sulla pelle da troppo tempo.

Tra i trequarti la situazione è confusa. Luca Morisi è un buon secondo centro, disciplinato e incisivo in attacco come in difesa, ma si gioca la posizione con Michele Campagnaro, che con una sola meta nel Sei Nazioni si è guadagnato il rispetto della stampa. Forse il problema al centro sta proprio nella mancanza di esperienza, risolto solo in parte dalla presenza di Gonzalo Garcia — che oltretutto potrebbe intervenire al piede — ed eluso dal recupero di Tommaso Benvenuti, in forze al Perpignan e che se non altro ha un mondiale alle spalle. Alle ali ci sono Giovanbattista Venditti e Leonardo Sarto. All’estremo Luke McLean, che speriamo di trovare in stato, se non di grazia, almeno di lucidità.

Per molto tempo la forza degli azzurri è stata nella mischia, nel gioco statico, nei punti di incontro. Alcune delle mete più belle sono frutto dell’impegno rombante di tre, quattro, otto uomini assieme. Poi, all’improvviso, gli dèi del rugby hanno deciso che tutti i giocatori sarebbero diventati uguali. Piloni veloci come centri e ali pesanti come seconde linee. Scatti, rincorse, tuffi e l’annullamento delle fasi statiche. L’annichilimento della forza bruta in favore di una potenza esplosiva che divora erba, campo e avversari in una passata sola. Falcate, gioco veloce, spettacolo. L’Italia, fa male dirlo per quanto impegno le va riconosciuto, non è ancora pronta a tutto questo. Però, da italiani, abbiamo imparato che la fiducia si costruisce nei momenti peggiori. Bassi come questo non ce ne sono mai stati. Per cui va bene tutto, i ragazzi sono in forma e hanno voglia di giocare. Si divertano.

 

Nell’immagine in evidenza, un momento del match dell’Italia contro il Galles dello scorso 5 settembre. Stu Forster/Getty Images