Addio 2015

Cosa ci è piaciuto e cosa avremmo evitato di vedere, nell'anno di calcio appena trascorso.

Non è una classifica. È il tentativo di ripercorrere il 2015 calcistico, filtrato attraverso i ricordi, le sensazioni e i pensieri di cinque autori. Capire cosa di bello ci ha lasciato quest’anno, cosa vorremmo rivedere, e cosa invece vorremmo escludere, ripensare, modificare.

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La meraviglia di Pep

Pep Guardiola non è uomo incline a manifestare emozioni forti, in genere resta composto e da fuori, da lontano possiamo solo immaginare le detonazioni dietro e dentro a quello sguardo concentrato e teso, una serie di implosioni di cui solo pochi conoscono intensità e ragioni. Il 22 settembre Robert Lewandowski ha costretto Guardiola a mostrare a tutto il mondo quello stupore che forse solo Messi aveva scatenato, le mani in testa e il sorriso incredulo. Lewandowski è entrato dalla panchina e ha sconquassato, distrutto e ridicolizzato la difesa del Wolfsburg segnando 5 gol in 9 minuti, tutto il repertorio di un fenomeno condensato nello spazio di un sospiro. Abilità, forza, destrezza, un campionario completo che non solo ha sconvolto e divertito Guardiola ma che per pochi istanti ha sospeso il calcio e lo ha riportato alla dimensione di gioco magico, quello in cui se vuoi, se decidi prendi la palla e segni e non c’è possesso, non c’è schema né tensione che tenga. Lewandowski ha fatto il bambino e tutti noi con lui, una boccata d’ossigeno. (Michele Dalai)

Scotland v Poland - UEFA EURO 2016 Qualifier

La catarsi

Gli stadi vuoti, le battaglie coi prefetti, la passione di tante tifoserie che va scemando, tutti pigri davanti alla tv, ma dove andremo a finire? Calma. Parma, stagione 2015/16, dove di diverso, rispetto ai mesi precedenti, non c’è solo il nome della società, modificato a seguito del fallimento. Il nuovo Parma rinasce tra i dilettanti della serie D, rappresentato a ogni livello dai protagonisti della più straordinaria era della squadra gialloblu, capace di lottare per il titolo in Italia e di vincere in Europa: presidente è l’ex tecnico Nevio Scala, allenatore è Apolloni e il suo vecchio compagno di difesa Minotti è responsabile dell’area tecnica. Capitano, sul campo, è ancora Alessandro Lucarelli, sceso dalla serie A alla D per riportare la squadra nelle categorie che le competono. A fine dicembre la squadra è prima, con diversi punti di vantaggio su chi insegue. Ma la vera notizia non è questa, non c’entra con la classifica e i tesserati; riguarda l’entusiasmo che accompagna questa avventura. Oltre diecimila spettatori di media nelle gare casalinghe, cifra nettamente superiore rispetto a quanto si registra in tre stadi di serie A (dove giocano Empoli, Carpi e Frosinone) e molti di serie B. Per rigiocare nella massima serie servirà aspettare qualche anno; per viverne l’atmosfera, è sufficiente darsi appuntamento al Tardini ogni due settimane. (Massimo Zampini)

Miracolo a Stamford Bridge

Alle dieci meno qualcosa mi sono tolto il cappotto. «Cinque minuti, poi vado». Ricordo che per essere marzo faceva abbastanza freddo là fuori, e io ero lì, con il cappotto in mano che avevo indossato pochi istanti prima, prima che Cavani colpisse il palo interno. La palla aveva preso poi un effetto topspin, ed era finita sul fondo, superando anche il palo opposto. Il Psg stava giocando in dieci a Stamford Bridge, dopo che Ibrahimovic era stato espulso per un’entrata su Oscar alla mezzora. L’occasione di Cavani, probabilmente, era stato il classico ultimo treno. Mi pareva un adeguato antefatto a quello che sarebbe stato il finale più scontato: Chelsea avanti, Mou avanti. Alle dieci dovevo esser fuori. Avevo preso l’impegno immemore – o forse incurante, non saprei dire – del fatto che quella sera si giocava Chelsea-Paris Saint-Germain, ritorno degli ottavi di Champions League. La partita di andata, a dirla tutta, non mi aveva entusiasmato: era terminata 1-1, il Psg aveva pareggiato nel secondo tempo, nel complesso il Chelsea mi era sembrato più sul pezzo. Quantomeno, mi era sembrato più squadra. Però, dopo quella palla gol di Cavani, quei cinque minuti divennero venti, e poi trenta. Il modo in cui il Psg stava giocando mi incantava: spavaldo, ma equilibrato. Dover recuperare con l’uomo in meno, ma senza scoprirsi contro una squadra letale negli spazi, e riuscirci splendidamente. Vedevo personalità e collaborazione, vedevo la capacità di una squadra di non darsi per vinta quando le contingenze ti suggerivano il contrario. Anche quando, a dieci dalla fine, Cahill portava in vantaggio il Chelsea. Anche quando, nei supplementari, Thiago Silva regalava il rigore del sorpasso ad Hazard. (Francesco Paolo Giordano)

120 minuti di battaglia tra Chelsea e Psg.

Ebola Soccer Survivors

Si prova un senso di benessere a vedere che il calcio sia ancora capace di rappresentare una sorta di gioia primitiva e semplice; scevra da tutte le sovrastrutture, i marchi, i brand e le conferenze stampa. Svestito di ogni ornamento, il calcio, può rivestirsi di abiti puri, su campi crudi e terreni frangibili. Quando si sopravvive all’accanimento della terra, il piacere di correre rapidi su pietre che si incastrano sotto le scarpe, fuggendo leggeri dalla marcatura di un avversario, deve assumere i connotati di una precipitosa rincorsa verso la vita. Lasciarsi alle spalle lo spettro della perdita attraverso un colpo secco del collo piede che, preciso, indirizza la sfera verso un futuro rilucente. Nel lasso di tempo che intercorre tra il calcio della sfera e il suo arrivo a destinazione, lentamente si cancellano le diapositive cupe dei mesi trascorsi in isolamento, lontano dall’aria pulita che respiri tra un granello di polvere e l’altro. In conclusione non ci sarà vittoria sul campo magari, tanto quella è già arrivata molto tempo prima. (Oscar Cini)

Ebola Soccer Survivors, il documentario del New York Times.

Le cinque fatiche di Lewandowski

Ho provato a ripercorrerne un po’, però a tutti mancava il “wow” per dire che questo è il momento top del 2015. E allora ho pensato a cosa mi ha semplicemente fatto pensare: «Ma davvero è possibile?». Alla fine di tutto questo processo mi è rimasto lo stupore fanciullesco dei cinque gol di Robert Lewandowski segnati in nove minuti contro il Wolfsburg, in campionato. Non ho nemmeno visto la partita, ma quando mi sono reso conto di cosa stesse accadendo ho voluto sapere tutto, rivedere le azioni, immaginare cosa possa essere un’impresa tale, quanto dev’essere bello vederla di persona, quando vorresti poi passare il post partita al pub con uno che ha appena segnato cinque gol in nove minuti. Che cosa racconterebbe uno che entra a inizio ripresa, con la sua squadra che perde, e segna al sesto, al settimo, al decimo, al dodicesimo e al quindicesimo, il primo di rapina, il secondo di forza, il terzo di tenacia, il quarto di mestiere e il quinto (perché poi le imprese vanno sublimate con il momento bellissimo) in sforbiciata, al volo, poco dentro l’area, in uno spazio così ridotto tra sé e il pallone da rendere difficile la coordinazione. E invece no. Gol. Perché certi movimenti sono difficili per gli altri, non per chi segna cinque gol in nove minuti. Lo stesso tempo che molti di noi impiegano per scrivere senza sbagliare L-e-w-a-n-d-o-w-s-k-y. (Fulvio Paglialunga)

I cinque gol in nove minuti di Robert Lewandowski.

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Blackout all’Olimpico

Dev’essere uno di quei momenti che mi hanno resto triste e allora, soprattutto per vicinanza temporale, non ho molti dubbi: c’è stata una domenica in cui ho visto degli spazi vuoti e dei numeri senza senso, in direzione contraria al calcio come fenomeno popolare, alle partite di puro coinvolgimento, al campanile, alla passione, al colore e al calore. Una di quelle cose che non ti aspetteresti mai, una di quelle partite di cui sei tifoso proprio in quanto partita e non di una delle due squadre in campo. Quei numeri e quegli spazi vuoi mi hanno fatto sentire tradito: Roma-Lazio dello scorso novembre è stato un momento demoralizzante: 35.253 spettatori (11.663 paganti), peraltro virtuali perché nel conto c’erano anche i (molti) abbonati che hanno deciso lo stesso di non andare allo stadio, per protesta, per stanchezza o per noia. O per le voci insensate di ultrà pronti a chissà cosa, addirittura arrivati dall’estero, per entrare in uno stadio complicato sin dai tornelli, con i settori divisi e la gente stufa e nemmeno due squadre messe benissimo. Ma quello delle squadre è il problema minore: ci sono stati tempi così, dal punto di vista delle aspettative di Roma e Lazio. Forse anche peggiori. Ma mai c’era stata così poca partita in un derby. E il calcio spento mi mette tristezza. Tanta. (Fulvio Paglialunga)

AS Roma v SS Lazio - Serie A

Addio alle armi

Antonio Cassano nel 2015 non ha mai segnato. Credo che per un attaccante sia abbastanza triste ripensare al tempo passato dall’ultimo gol, che nel suo caso è datato 25 ottobre 2014 (Parma-Sassuolo 1-3). Come un orologio che a un certo punto si rompe, e le lancette si cristallizzano al punto che, a guardarle e riguardarle, puoi specchiarti nell’immobilità, mentre, intorno a te, la vita scorre uguale e frenetica come prima. A Cassano non era mai successo, da quando debuttò in Serie A nel 1999, di restare a secco per un intero anno solare, nemmeno in certi periodi apatici che pure ha vissuto. È vero che Fantantonio è rimasto più di metà anno senza scendere in campo, dopo aver rescisso il contratto con il Parma a gennaio. Ma il punto, forse, è ancora un altro. Il ritorno alla Sampdoria è stato troppo banale per uno come Cassano. Quasi sdolcinato, o quantomeno molto noioso. E perciò, finora, non riuscito: ha sperato per mesi nella chiamata della Samp, pur consapevole delle perplessità in società. E lui nulla, anziché ribellarsi a questo stillicidio, non ha fatto una piega, continuando ad aspettare, docilmente, buffamente. Così si è abituato all’attesa, un’attesa straniante, nuova, indecifrabile. Ha mandato giù i bocconi amari in silenzio e ha cercato di farsi trovare pronto una volta in campo. Uno che fa le cose per bene. Uno che obbedisce e riga dritto. Uno che si improvvisa soldatino, un termine che una volta utilizzò proprio lui. Uno che non si comporta da Antonio Cassano. Uno noioso, insomma, che non segna nemmeno più. (Francesco Paolo Giordano)

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Tormento Milan

Ultimamente mi capita spesso di riflettere sul concetto di felicità. Per molto tempo – almeno negli anni della giovinezza – felicità era sapere che la squadra della mia città aveva vinto, magari con me allo stadio e la radio attaccata alle orecchie per scoprire i risultati di un’altra squadra che amavo. Anche se distante centinai di chilometri.
Da ragazzino la mia passione per il Milan era assimilabile ad un agente patogeno capace di creare in me malattie variabili a seconda dell’entità dei risultati ottenuti dai rossoneri. Anche se questa patologia intrinseca con il tempo si è mitigata come una malattia autoimmune, continuare a seguire il Milan nel 2015 rappresenta motivo di afflizione. Filippo Inzaghi è stato scelto per il suo essere stato simbolo di un Milan vincente, “il più vincente”, annettendo alla sua immagine quei claim eccesivi ed autoreferenziali che per anni hanno fatto da cornice al mondo milanista. Inzaghi era “il Milan ai milanisti” ancora una volta, l’allenatore rampante a cui è affidato il futuro della propria vecchia, decaduta, famiglia. Il Milan di Inzaghi ha funzionato male, nessuna buona intuizione, nessuna reale novità tattica: si è preso un allenatore appena uscito da qualche buon passaggio con la Primavera nel tentativo di creare una figura salvifica, lo Yĕhošūa’ che ogni male risolve. Preso atto del fallimento, si è chiuso il rapporto come fatto precedentemente con un’altra bandiera rossonera (Seedorf), un grazie e arrivederci senza troppi rimpianti. Come un amore che finisce perché logoro e sfilacciato nei rapporti quotidiani.

Il 2015 del Milan si chiude con una vittoria a Frosinone.

La scelta di Mihajlovic ad inizio anno ha rappresentato una scelte in controtendenza rispetto al recente passato. Come valutiamo da milanisti oggettivi l’esperienza di Miha fino a questo punto? Possiamo dirci soddisfatti del Milan che stiamo vedendo quest’anno? Personalmente non provo godimento a guardare questa squadra, oggi. Credo soltanto che almeno ci sia un’intensità superiore e una maggiore predisposizione al sacrificio rispetto al Milan di Inzaghi. Una squadra piena di calciatori spesso indolenti e costruita secondo criteri di pura casualità sembra comunque poter rientrare in Europa; certo quella meno prestigiosa dell’Europa League, ma rispetto alle ultime annate sarebbe già oro. Se i numeri dicono che Inzaghi e Mihajlovic stanno procedendo con percorsi pericolosamente simili, cosa dovrebbe aspettarsi dal 2016 un milanista? Magari soltanto un minimo di pianificazione, una spesa meno compulsiva quando sul piatto tornano ad esserci dei soldi importanti, vedere il mondo ricominciare a girare nel verso giusto. Intanto il 2015 si è chiuso. Visto com’è andato, c’è da esserne felici. (Oscar Cini)

AC Milan v Hellas Verona FC - Serie A

Abbandono

È sufficiente avere disputato il più amatoriale dei tornei di calcetto o addirittura di fantacalcio per sapere che non c’è nulla di più desolante e demotivante dell’insistito rischio di abbandono di una società partecipante a stagione in corso, con conseguente incertezza circa la regolare prosecuzione della competizione. Il flop del 2015 prende forma nel campionato di calcio di serie A. Torniamo a Parma: a metà stagione 2014/15 c’è una società che settimanalmente non sa nemmeno se disputerà o meno l’incontro successivo. Come è possibile? Semplice: basta mettere centinaia di giocatori sotto contratto, non pagare parte dell’Irpef dovuto, farsi prima negare la licenza Uefa e poi penalizzare in classifica, vendere la società a soggetti credibili come i migliori personaggi di Totò, alla fine regalarla per 1 euro a un signore che ogni giorno garantisce che i bonifici necessari al pagamento delle spese stanno per arrivare: sono semplicemente bloccati da problemi burocratici, un po’ di pazienza… La pazienza dura fin troppo, ma non abbastanza per evitare il fallimento, nel giugno 2015, dopo alcuni mesi di straordinaria dignità in campo (il Parma semifallito e senza stipendi blocca Roma, Napoli, Inter e Juve) e vergognosi comportamenti fuori. Tra un rimpallo di responsabilità e l’altro, controllori che evidentemente controllano troppo poco, il vecchio proprietario che si autoassolve in toto e il suo successore che sta ancora aspettando lo sblocco dei bonifici dalla Slovenia, si chiude una delle pagine più indecenti della storia del campionato italiano di calcio. Nella mia lega di Fantacalcio, tra controlli incrociati e vigilanza reciproca, non sarebbe stato possibile. (Massimo Zampini)

Una delle poche gioie dell’ultimo Parma in A, la vittoria sulla Juve.

Ai piani alti

Non un momento particolare ma tutte le volte che Tavecchio si è impadronito di un microfono e ha messo a nudo la spaventosa inadeguatezza di un’intera classe dirigenziale, la limitatezza e l’arroganza di un pensiero debole e ahimè unico. Il calcio deve cambiare e faticherà a farlo con una Federazione gestita come tavolo di affari e clientele personali e private. Ma c’è dell’altro, perché il flop non è tanto di Tavecchio e di quelli come lui, che per la conclamata mediocrità che mettono in scena hanno ottenuto un risultato eccezionale e mai desisterebbero, quanto di quelle forze (ma esisteranno?), nuove, del rinnovamento che non ha volto né interpreti. Un 2015 spaventoso. (Michele Dalai)

Nell’immagine in evidenza, Ashley Smith del Chesham United durante il match di FA Cup contro il Bradford City. Laurence Griffiths/Getty Images