Riquelme e altri diez

A un anno dal ritiro, qual è stato il posto di Juan Román nel calcio, sulla scia di Maradona e dei post-maradoniani.

L’Argentina del pallone ha conosciuto un arco cronologico, una “zona grigia” della durata di un decennio o poco più, in cui c’è stato spazio per riconoscimenti individuali riservati ad atleti il cui numero di maglia era persino diverso dal dieci. Non parliamo comunque dei centravanti, sempre concepiti come banali macchine da gol a fronte dei più fantasiosi colleghi della trequarti (da Kempes, a Batistuta e Higuaín, il passo è breve in fin dei conti): ci si riferisce, per esempio, al peso “culturale” che è stato riconosciuto al Verón dell’Estudiantes, o alla longevità, divenuta proverbiale, di Javier Zanetti.

Diego Armando Maradona ct dell’ albiceleste e lo sguardo attento di Veròn

 

Il dato preso in esame non implica però che, nell’interregno in questione, la diez abbia cessato di essere oggetto di culto: solo è stato, come è ovvio, molto difficile per chiunque fare le veci della leggenda in persona, prima che un’altra leggenda si imponesse con decisione sul resto del panorama calcistico mondiale. Tra l’ex suocero di Agüero e la Pulce, ormai innominabili per esteso, si è cercato, pur con alterne fortune, di limitare i danni, assegnando la famigerata maglietta ad atleti che fossero, di volta in volta, i più adatti all’arduo compito. Il parametro negativo è diventato, senza possibilità di smentita, la carriera di Ariel Ortega, terminus post quem della nostra cronologia e vittima sacrificale di un accostamento del tutto ingeneroso. In parallelo si è assistito, nel periodo incriminato, allo sbocciare di almeno quattro atleti dal talento cristallino, tutti potenziali “dieci” dell’albiceleste e tutti, a loro modo, parte integrante della recente storia del calcio. Tre dei quali, in particolare, meritano una menzione congiunta poiché legano, di fatto, i propri esordi al River Plate:

Marcelo Gallardo (“El Muñeco”), classe 1976, riesce nell’ardua impresa di militare nel River per tredici stagioni, superando di due annate il bottino messo insieme da Ortega. Con quest’ultimo condivide la vittoria dei Panamericani del 1995, la Libertadores e l’argento di Atlanta del 1996. In Europa brilla nel Principato di Monaco, ma con il procedere delle stagioni scende in campo e segna sempre meno, complice un rapporto non facile con mister Deschamps. Al Paris Saint-Germain, tra 2007 e 2008, mette insieme una trentina di presenze prima di chiudere tra States (D.C. United), River (l’ultima parentesi) e Nacional de Montevideo, del quale diventa allenatore appena dopo il ritiro. Allo stato attuale, Gallardo sta aspettando il sette di febbraio, data in cui, sempre alla guida del River, ospiterà il Quilmes per il rinnovato inizio delle ostilità. Si noti che, nell’ultimo biennio in panchina, ha conquistato una Copa Sudamericana, una Recopa Sudamericana e una Libertadores.

Marcelo Gallardo esulta con la maglia del River Plate

 

Pablo Aimar (altresì noto come “El Payaso” o “El Mago”), classe 1979, è in squadra con Gallardo quando, nel 1995, l’Argentina vince il Mondiale Under-20. E pure quando, nel 1996, i biancorossi di Baires portano a casa la Libertadores di cui sopra, per quanto fosse – e basti vedere chi aveva davanti – appena un gregario. Non stupisce dunque che la sua carriera, che proprio al River ha avuto inizio (83 presenze e 21 reti in cinque anni e mezzo, ma nei primi due colleziona appena un’apparizione) si sia chiusa in maglia River con una presenza simbolica il 31 maggio 2015, in cui subentra a partita in corso contro il Rosario Central. A differenza dei suoi colleghi e pariruolo, Aimar milita in Europa per tredici anni, in cui riesce puntualmente a diventare il beniamino delle tifoserie di Valencia, Saragozza e Benfica. Dove, per inciso, incanta tutti fin quando il fisico glielo permette, segnando con moderazione ma smistando assist a profusione. E giocando, praticamente ogni anno, la Champions o l’Europa League. Merita un’amnistia per il triste passaggio in Malesia, al tempo quasi obbligato, al Johor Darul Takzim, dove comunque conquista il campionato del 2014.

Pablo Aimar durante un match di Coppa Uefa in maglia Valencia

 

Andrés D’Alessandro (“El Cabezón”), nato nel 1981, è l’unico del quartetto a essere ancora in attività. Ai Millonarios milita dal 2000 al 2003, vincendo tre volte la Clausura e il Mondiale under-20 del 2001. Tra 2003 e 2008 attraversa una sorta di dramma, non incantando (e dunque deludendo) in Germania (Wolfsburg), Inghilterra (Portsmouth) e Spagna (Saragozza, 2006-2008, con Aimar). A 27 anni, dopo un passaggio piuttosto insignificante al San Lorenzo, rinasce e zittisce tutti i detrattori in Brasile, contestualmente diventando emblema dell’Internacional. A Porto Alegre entra nella storia, conquistando quattro coppe e altrettanti campionati. E salvandosi, cosa più importante, dalla riduzione della sua carriera a una finta funambolica, la “Boba”, ed evitare di cadere nella risma dei Denilson o dei Kerlon “Foquinha”.

Andres D’Alessandro esulta dopo la rete realizzata ai Tigres in maglia Internacional

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Il quarto dei quattro arriva per direttissima dal regno dell’irrazionale, tale è il suo valore nell’immaginario collettivo. Ad un anno dal suo ritiro ufficiale, tanto è passato dalla sua ultima con la maglia del Boca, Juan Román Riquelme (1978) ci obbliga, ancora, a riflettere sul senso profondo del venire al mondo argentini e fantasisti. Che sia “El Torero”, “Topo Gigio” o “JR”, Riquelme dà uno schiaffo alla retorica dei facili paragoni e sancisce l’inopportunità degli accostamenti, essendo riuscito a spostare l’attenzione dalla maledizione della diez alle molte singolarità di un atleta unico nel suo genere. Perché è di “culto” che ha senso parlare per ciò che è stato innescato dalla parabola (d’obbligo il ricorso alla terminologia biblica) di Román. E nel pianeta dei normali, quello a cavallo tra le due ere, non si tratta, per una volta, di un talento sprecato, né di un grande potenziale inespresso, né tantomeno di un 10 che ha patito i confronti. Si parla piuttosto di un fuoriclasse che ha rivendicato la propria autonomia in modo non soltanto romantico, ma a tutti gli effetti compiuto. Si tratta di un corso avanzato di epica sportiva.

L’inizio della carriera di Riquelme è, del resto, la cosa più maradoniana che possa venire in mente. Prima Argentinos Jr.  – sia pure solo nel vivaio. Quindi Boca Juniors, Carlos Bianchi, con lo stesso numero del Pibe. Quindi Barcellona, a ventiquattro anni circa, nel 2002/03. Ma le analogie si arrestano qui, per fortuna. Anche perché i suoi 182 centimetri lo pongono già, in automatico, su un piano diverso rispetto agli altri illustri colleghi, dotandolo di una visione di gioco per forza di cose differente.

Riquelme ai tempi del Barcellona in un derby con l’Espanyol

 

Il Barça di Riquelme è un capitolo a sé, trattandosi di una delle peggiori annate nell’ultimo trentennio dei blaugrana. Dei tre allenatori Van Gaal, De La Cruz (ad interim) ed Antić, si sente per lo più l’impronta del primo, tanti sono i residui del glorioso Ajax Campione d’Europa a spese del Milan di Capello: Reiziger, Frank De Boer, Overmars, Cocu, Kluivert. Gli spagnoli sono un mix di quel che è stato (Luis Enrique) e di quello che verrà (Victor Vadés, Puyol, Xavi, Iniesta), non senza giocatori consegnati alla mitologia, quali Mendieta o Dani. Thiago Motta è ancora brasiliano, così come Geovanni e Rochemback, che lo rimarranno. Gli argentini, con Riquelme, sono Saviola, il portiere Bonano e Sorín, della cui presenza Riquelme potrà avvalersi anche negli anni successivi, ma in altri contesti. Si è sostanzialmente in attesa di Rijkaard e Ronaldinho, l’arrivo dei quali dovrà coincidere con il prestito del Torero al Villareal.

Non meno singolare è il periodo di Riquelme con la maglia amarilla del Villarreal, dove rimane per tre anni e mezzo (dal 2003 al gennaio 2007) indossando il numero otto. Gli ottimi numeri (103 e 45 in totale) non rendono giustizia a molti aspetti extra-numerici: delle caterve di passaggi, vincenti o semplicemente magnifici, consegnati ai compagni; del terzo posto di squadra nel 2005; della semifinale di Champions League del 2006. Impietosa è anche la riduzione della memoria di massa a un dettaglio che è più baggesco che maradoniano: è la retorica dell’errore (su rigore in semifinale), dell’eroe “umano troppo umano”, di un bacio al pallone che sancisce l’assoluta normalità di una squadra di normali, come il Villarreal di Manuel Pellegrini. E normalissimi sono i vari José Mari, Arruabarrena e il suo gol all’Inter, Josemi e Tacchinardi; un po’ meno, ma ora è facile pensarlo, Marcos Senna, Santi Cazorla e Diego Forlán. Anche perché, in finale, avrebbero incontrato proprio Ronaldinho, Eto’o e Rijkaard, e con buone probabilità sarebbe andata allo stesso modo in cui è finita per Henry, Sol Campbell e Wenger (per quanto, tra un’ipotetica e l’altra, sia lecito supporre anche altri scenari).

Il bacio al pallone, la parata di Lehmann

Ma è di “culto” che si parla, e non per caso. Riquelme non ha bisogno di vincere l’impossibile, né col club né in Nazionale: incarna la potenza di una tradizione orale che è molto più dell’aneddotica, rafforzata come è da testimonianze tanto illustri, quanto note. Per credere, si confrontino le affermazioni attribuite a Zidane, Iniesta, Valdano, Aragonés e al giornalista Pagani: è dunque in questi termini che Riquelme fa ritorno al Boca, nella consapevolezza di avere, a ventotto anni, raggiunto e superato il proprio apice fisico. L’esperienza europea è giunta al capolinea, ma la carriera del giocatore riserva ancora qualche momento di assoluto splendore. Nel 2007 sfiora la Copa América, trofeo che nemmeno Maradona e Messi riescono ad annoverare nei rispettivi palmarés. La sconfitta in finale è resa più amara dal secco 3-0 con cui il Brasile di Robinho si consacra campione, nonché da una media realizzativa (9 reti in altrettante partite nel corso dell’anno solare) del tutto inimmaginabile per Roman. Che si consola però con la terza Libertadores della carriera (2007), con la Recopa del 2008 e con le due Aperturas di 2008 e 2011. La bibliografia di settore è già al tempo vastissima, e raggiunge due culmini tra 2012 e 2014. Il primo apice consiste nel momento in cui il giocatore resta svincolato, salvo poi rifirmare con il Boca nel 2013; il secondo coincide con il passaggio, nel 2014, dal Boca all’Argentinos Juniors, con cui chiude il cerchio e totalizza cinque reti in diciotto gettoni. Posto che non è, nemmeno allora, una mera questione di numeri o titoli. Con buona pace dei Millonarios, di Ortega, Gallardo, Aimar e D’Alessandro.

Nell’anniversario del suo ritiro, il ricordo del Riquelme calciatore è ancora freschissimo, senza lasciare spazio, per il momento, ad alcun tipo di immaginazione. Se non a patto di un piccolo sforzo: si potrebbe pensare a un’ipotetica Iglesia Riquelmiana, che celebrerebbe le unioni per mano di un officiante in maglia gialloblu. Il compito degli sposi sarebbe quello di andare a passo di lumaca per alcuni, simbolici metri, prima di fare un tunnel a una sagoma di Mario Yépes in cartone. Solo allora, sulla linea del fallo laterale, i due potrebbero dirsi davvero marito e moglie.

 

Nell’immagine in evidenza, Juan Riquelme durante Argentina-Olanda, match valevole per le Olimpiadi del 2008. Photogamma/Getty Images