Estetica balcanica

La storia del grande campione jugoslavo Dragan Stojković: giocate sublimi, un rapido declino e una finale di Coppa Campioni giocata dalla parte sbagliata.

Ho visto un marziano atterrare nell’astronave giusta, il San Nicola di Bari, ma con la tuta sbagliata. Come se durante la guerra fredda un sovietico avesse tentato di issare maldestramente la bandiera degli Stati Uniti sulla Luna. Quel marziano si chiamava Dragan Stojković, al secolo Piksi, soprannome affibbiatogli da bambino per via di un topolino, protagonista dei cartoon di Hanna & Barbera. Una pulce ante-litteram, meno atomica e più lunatica, come il carattere balcanico impone. Di quella generazione straordinaria di talenti, Piksi Stojković era il leader, la stella cometa. Guardando il derby tra tra Partizan e Stella Rossa, quella che un tempo era la partita tra la squadra degli jugoslavi e quella dei serbi, non ho potuto fare a meno di ricordare la sua grandezza calcistica. Lui che della vecchia Jugo è stato il simbolo più controverso. Quello che ad un certo punto sparisce dalla bandiera, proprio come la stella sul tricolore della Jugoslavia, dopo la guerra. La sua storia così controversa, fatta di giocate sublimi e cadute. Una vita tra est e ovest, socialismo e capitale, tra rigori sbagliati o mai tirati, c’è chi dice per paura, chi per rispetto.

Sono nato e cresciuto a Bari, e quando racconto che dalle mie parti si è disputata una finale di Coppa dei Campioni la gente stenta a crederci. Se non sei barese fai anche fatica a ricordarti qual è la partita in questione, anche perché dal punto di vista della copertura mediatica (e dello spettacolo) non siamo stati particolarmente fortunati. Quella sfida così atipica, tra francesi e jugoslavi, andò in onda senza telecronaca, per uno sciopero dei commentatori della Rai. Ricordo la scritta in sovraimpressione e la difficoltà a tenere gli occhi aperti; una delle finali più noiose della storia. Ma il rumore delle due tifoserie più calde d’Europa si sente benissimo. Nel pomeriggio conosciamo alcuni tifosi della Stella Rossa. Con loro ci ritroviamo a condividere l’asfalto e il Super Santos nello spiazzo di un supermercato, prima di scambiarci sciarpe e magliette. Non parliamo la stessa lingua, ma per capirci basta aggiungere i suffisso –vic alla fine delle parole. Le più usate sono Jugovic, Mihajilovic e Stojković. E quando parli di Dragan scende un silenzio rispettoso. Gioca dall’altra parte, ma non è un avversario, è un ambasciatore. Per molti di quei ragazzi si tratta del primo viaggio in Italia, per altri sarebbe stato l’ultimo, visto che solo un anno più tardi sarebbe scoppiata la guerra dei Balcani e la maggior parte dei combattenti arruolati sarebbero stati scelti nelle curve di Belgrado, Zagabria e Sarajevo.

La formazione della Stella Rossa al San Nicola, subito prima dell'inizio della finale. Jacques Demarthon, Patrick Hertzog/AFP/Getty Images)
La formazione della Stella Rossa al San Nicola, subito prima dell’inizio della finale. (Jacques Demarthon, Patrick Hertzog/Afp/Getty Images)

Forse per una questione di vicinanza, o di colori, molti baresi, quella notte, si schierano con la Stella. Certo, fa uno strano effetto vedere nelle file del Marsiglia quel ragazzo basso di statura e con una maglia larghissima, visibilmente spaesato e a disagio a comunicare in francese. Dragan se ne sta seduto in panchina, quasi non vuole farsi notare dal suo allenatore fiammingo che, ad otto minuti dalla fine, gli fa un cenno con il capo: «Tocca a te». Il leader entra in punta di piedi, ma viene accolto da un’ovazione. Quella dei suoi tifosi. Che però, a Bari, sono gli avversari. Gioca gli otto minuti finali dei supplementari intento a rincorrere il suo passato con lo spettro reale di un possibile rigore da calciare contro il suo vecchio amico Stojanović. Alla fine dei tempi supplementari, il serbo si avvicina al tecnico Goethals comunicandogli la volontà di non fare parte dei cinque rigoristi. Troppa pressione, la coppa andrà alla Stella e lui sarà costretto a guardare il suo popolo in festa, con al collo la medaglia dei perdenti.

Dragan, uno dei più grandi calciatori serbi di sempre, uno che costrinse Dejan Savicevic a giocare con la 9, sia nel club che nella Nazionale della Jugoslavia, perché il 10 era suo. Andò via da Belgrado proprio mentre la sua Stella si apprestava a vincere. Scelse il Marsiglia, la squadra che Tapie aveva costruito per dominare in Europa e prese la maglia che sarebbe dovuta essere di Maradona. Ferlaino non volle cederlo, nonostante un patto fatto prima di una semifinale contro il Bayern Monaco, dallo stesso Diego: «Io ti faccio vincere la Coppa Uefa, e tu mi lasci andare a Marsiglia». Perché a Marsiglia, in quegli anni, c’erano i soldi dell’Adidas e le prime avvisaglie di un calcio capitalistico in mano ad impavidi imprenditori, anche se sembrava incredibile che ci fosse qualcuno disposto a contendere i numeri 10 internazionali al campionato più bello del mondo. Tapie fu uno dei primi a rompere l’egemonia dei presidenti italiani, quelli che potevano permettersi di soffiare David Platt all’Aston Villa per portarlo a Bari, o Gallego al Real Madrid per affidargli la 10 dell’Udinese.

ITALY-FBL-BELGRADE-MARSEILLE

Non fu un caso che, per completare una squadra già fortissima dove dominavano la scena Papin e Chris Waddle, Tapie scelse Stojković, l’uomo che poteva cambiare il corso del calcio europeo e del Milan. Se non ci fosse stata la nebbia, quella notte a Belgrado, Arrigo Sacchi starebbe raccontando un’altra carriera. E la storia di un sistema difensivo perfetto mandato all’aria da un fantasista con le cosce da mediano e i piedi da divo. Ottavi di finale della Coppa dei Campioni, edizione 1988-1989. Il Milan non sa ancora di essere il Milan, lo scoprirà ad aprile a spese del Real Madrid a San Siro in una partita che dalle parti del Santiago Bernabeu non va nemmeno nominata. Ma ad ottobre la squadra destinata a dominare il mondo e a farci puntare la sveglia alle 4 di notte per le finali intercontinentali con il Medellin e l’Asunción è ancora un’idea, uno schema sulla lavagna, una visione di Berlusconi. Van Basten ha appena eliminato i bulgari del Levski Sofia e quella contro i campioni di Jugoslavia sembra poco più di una formalità. Anzi, al sorteggio si esulta per aver evitato il Real Madrid e gli scomodissimi belgi del Malines. A scaldare le gradinate di San Siro ci pensano i tifosi della Crvena Zvezda. Federico Buffa, in una delle sue meravigliose trasmissioni dedicate alla famiglia Maldini, racconterà che in mezzo a loro c’è anche un tizio con la faccia cattiva e poco predisposto al dialogo. Un tale Zelijko Raznatovic, al secolo la tigre Arkan.

C’è un solo modo, e non vale solo per gli slavi, per eludere lo schema difensivo di Sacchi, che prevede di mettere in fuorigioco tutto ciò che transita dalle parti di Franco Baresi. Ci vuole un giocatore che abbia piedi, cervello, muscoli e rabbia sufficienti a reggere novanta minuti di pressing. Dragan Stojković è quel giocatore, ed è stupefacente vederlo giocare. Vederlo duettare con i compagni, che almeno in quanto a tecnica parlano la sua stessa lingua (fuori dal campo no, la Stella un crogiolo di religioni, lingue e passaporti) e lo dimostreranno negli anni a venire. Conosce la logica profonda del campo da calcio. A volte sembra pigro e lezioso, tiene la palla per troppo tempo, ma sta semplicemente aspettando l’attimo in cui i giocatori in campo si allineino al suo disegno di gioco. Per scrivere traiettorie che appaiono logiche solo una volta tracciate.

L’1-1 di San Siro tra Milan e Stella Rossa

Dopo l’1-1 di San Siro, la partita di ritorno si gioca in due atti. Il primo ha due protagonisti: Dejan Savićević, che con un pallonetto mostra a Giovanni Galli un saggio di una carriera che toccherà il suo culmine ad Atene, dieci anni dopo, con un’altra parabola, e il nebbione biblico che scende sul Belgrado a modificare gli almanacchi degli anni a venire. I rossoneri sono in dieci e continuano a soffrire le idee e la forza di Piksi. L’arbitro decide che basta così; si gioca il giorno dopo. Il vantaggio è di Van Basten, poi ci pensa ancora Stojković. Si va ai calci di rigore, e qui il fato decide che nell’anno della caduta del Muro di Berlino non si può spianare la strada ad una finale tra romeni e slavi. Giovanni Galli para i tiri di Savićević e Mrkela. Il Milan è infallibile e passa il turno. Ma resta indelebile la doppia prestazione di Dragan, la cui consacrazione può arrivare ai Mondiali italiani.

A 25 anni, Stojkovic si trova al culmine della sua carriera calcistica. La Jugoslavia si è qualificata con grande autorità e la squadra è praticamente la stessa che ha vinto il Mondiale giovanile in Cile tre anni prima: ci sono Darko Pancev, Davor Suker e Robert Prosinecki, oltre ad un giovane Savićević, che Osim non vede. Nel girone la Jugo le prende di santa ragione dalla Germania, ma poi approda agli ottavi superando nel girone gli Emirati Arabi e la Colombia. Agli ottavi trova la Spagna, la partita si gioca al Bentegodi, in un altro stadio del destino. Quando tutti si aspettano El Buitre ecco che arriva Piksi, che segna due reti indimenticabili: nella prima guarda la palla scendere e finta il tiro con la compostezza controllata di un tennista al servizio. Solo quando si è assicurato che il difensore spagnolo è disteso a terra accompagna la palla in rete, con un tocco di piatto, tra il piede del portiere e quello del difensore in scivolata. La seconda arriva su punizione durante i tempi supplementari: la parabola supera la barriera e lascia di stucco Zubizarreta.

Il primo gol di Stojkovic contro la Spagna ai Mondiali 1990

Il rivale nei quarti è l’Argentina di Maradona, che ha eliminato in una partita con i contorni del giallo (si parla addirittura di lassativi nelle bottigliette d’acqua) i nemici storici del Brasile. Contro la Jugoslavia, all’Artemio Franchi di Firenze, fu una partita apatica, senza grandi occasioni. È l’ultima partita della selezione jugoslava a un Mondiale, uno degli ultimi momenti della sua magnificenza tecnica. Si arriva ancora ai calci di rigore, una costante nella carriera di Dragan. Spesso capita che a sbagliare quello decisivo è il giocatore più tecnico. Stojković sbaglierà il suo, il primo. Arrivato sul dischetto scioglie i piedi con tre palleggi, poi la piazza e tira cercando l’incrocio. La palla prende la traversa e torna a centrocampo, Piksi si nasconde la faccia dentro la maglia. È l’ultimo rimpianto di una Nazionale che non vedrà mai più una competizione internazionale. Federico Goddi, autore del blog Crampi sportivi e appassionato di calcio slavo, afferma che «se la storia avesse un minimo di gusto estetico quel Mondiale l’avrebbe vinto la Jugoslavia. Stojković e Savićević avrebbero sancito l’incidente storico che li ha messi insieme su un campo da calcio, nell’evento più grande, al livello zenitale del loro gioco». Ma così non andò e anzi l’Argentina, brutta sporca e cattiva, andò vicinissima a vincerlo. Fu per questo motivo che ci parve giusto il rigore più ingiusto della storia: quello con cui Brehme fece piangere Maradona e rimise a posto l’equilibrio sociopolitico portando nella Germania unita la Coppa del Mondo.

Nel 1996, con la sua Nazionale. (Ben Radford/Allsport)
Nel 1996, con la sua Nazionale. (Ben Radford/Allsport)

Nel frattempo Piksi gioca un anno a Marsiglia, giusto il tempo, appunto, di veder trionfare la sua Stella Rossa, a Bari, con addosso la medaglia degli sconfitti, e di iniziare un calvario per un infortunio al ginocchio che lo trasformerà in breve tempo in un giocatore normale. Quando nell’estate del 1991 il giovane presidente del Verona Mazzi decide di fare un regalo ai tifosi scaligeri (non all’esperto Fascetti che sente subito puzza di bruciato e insiste per farsi prendere un argentino che in patria sta segnando tanto e di nome fa Gabriel Omar) sganciando ben 10 miliardi di lire e portando in Veneto il fantasista, sono in molti a dubitare che quel giocatore sia ancora il leader visto al Bentegodi contro la Spagna. Dragan gioca poco e non incanta, ha l’occasione di sbloccarsi calciando i rigori ma riesce a sbagliarne due su due confermando il suo rapporto tormentato con gli undici metri. Alla fine segna un gol, a stagione praticamente compromessa, contro l’Ascoli. Il Verona retrocederà e per Stojković si profilerà un ritorno in Francia prima dell’ultimo viaggio calcistico in Giappone, dove si fermerà anche ad allenare insegnando a stoppare palloni al volo con i mocassini lucidi e segnare direttamente dalla panchina. Sempre con il pensiero di quella finale giocata con la maglia sbagliata e di una Nazionale che avrebbe dovuto insegnare per un decennio estetica del calcio. Con Piksi nel ruolo di docente.

 

Nell’immagine in evidenza, Dragan Stojkovic esulta dopo il suo gol alla Germania nei Mondiali 1998. (Shaun Botterill/Allsport)