I giorni di grazia di Arthur Ashe

La vita luminosa e tragica del primo grande tennista afroamericano, che morì di Aids a 49 anni.

È il 25 luglio 1979, al secondo turno del torneo di Kitzbühel Arthur Ashe perde in tre set contro il semisconosciuto francese Christophe Freyss. Come altre volte in quella stessa stagione, Ashe è contrariato per il suo gioco e per il risultato, ma non può sapere che la sconfitta contro Freyss sarebbe stata la sua ultima partita nel tennis professionistico. Qualche giorno dopo, a New York, viene colto per la prima volta da un infarto. Un altro infarto lo colpisce nel 1983. Entrambe le volte subisce un intervento di bypass. Scopre solo alla fine degli anni Ottanta che in una di queste occasioni gli viene trasfuso sangue infetto: Ashe diventa sieropositivo e nel 1992, prima che il quotidiano Usa Today possa comunicare lo scoop a modo suo, annuncia con una conferenza stampa di essere malato di Aids. Muore il 6 febbraio 1993, all’età di 49 anni.

Arthur Ashe è stato numero uno del mondo, vincitore di 33 titoli di singolare, tra cui un Australian Open, uno Us Open  e un indimenticabile Wimbledon. Un palmares di tutto rispetto anche se forse non all’altezza dei più grandi, ma i palmares hanno sempre avuto il difetto di dire soltanto una parte della verità su uno sportivo. «Forse ero più contento del modo in cui avevo giocato che dei risultati raggiunti», sono parole sue. Ashe era quello che si dice un giocatore con stile. Laureato in Scienze della finanza. Amante della letteratura. Non di rado capitava di vederlo leggere a bordo campo e persino sul campo, tra un cambio e l’altro. Nelle città in cui si recava per giocare, appena aveva un attimo libero, andava alla ricerca di un museo con i dipinti di Rembrandt, il suo pittore preferito. Aveva dalla sua una grande forza mentale. Nervi saldi. Eleganza. Grazia. Altri hanno vinto più di lui, ma il Centrale di Flushing Meadows, teatro degli Us Open, è intitolato al suo nome.

Artista misurato, gentile. Al punto da apparire distaccato. «Abitudini come il vezzo di portare occhiali scuri anche in interni», scrive il premio Pulizter John McPhee nel suo Levels Of The Game, «aiutano a capire il suo rapporto con gli altri. Sono tutte tecniche per tenere il mondo a una certa distanza». Poche pagine prima, McPhee riporta le parole di Charles Pasarell che, a proposito dell’amico, collega e compagno di squadra dice: «Arthur si è costruito una specie di armatura. Non si lascia toccare da niente e da nessuno, sul piano emotivo. Prende le cose come vengono. Lo considero il mio migliore amico, e penso che la cosa sia reciproca, ma se mi presentassi da lui e gli dicessi: sai credo di avere una pallottola nello stomaco, probabilmente mi risponderebbe: Certo, altre novità?».

Arthur Ashe

Una corazza che il ragazzo di Richmond ha iniziato a costruire dopo la prematura perdita della madre, quando aveva appena sette anni, e a rinforzare sin da giovanissimo per proteggersi dal razzismo che lo accompagnava a scuola, per strada, sui rettangoli da gioco. La stessa corazza che, da capitano non giocatore di Coppa Davis, ha attirato critiche su Ashe, giudicato poco partecipe, troppo compassato, soprattutto se confrontato con i campioni che schierava in campo: tennisti esuberanti come John McEnroe o Jimmy Connors non potevano pensare di non far sobbalzare dalla sedia il capitano con i propri prodigi. Senza considerare che sull’essere compassato e imperturbabile Ashe aveva costruito le fortune della sua carriera.

Il senso della misura gli è stato instillato da papà Arthur Senior che, dopo la morte di sua moglie, ha cresciuto eroicamente Arthur e suo fratello minore. «Com’è possibile», gli ha chiesto un giorno una giornalista, «che non abbia mai sentito parlare male di lei? Com’è possibile che non abbia mai insultato un arbitro, preso a pugni un avversario o che non si sia mai ubriacato in modo molesto? Per quale motivo è così un bravo ragazzo?». «Se non mi sono mai comportato male», ha risposto Ashe, «è perché ho troppa paura che se facessi una qualsiasi di quelle cose mio padre verrebbe a cercarmi direttamente dalla Virginia e mi prenderebbe a calci nel culo».

Molti campioni dello sport – e del tennis in particolare – danno l’impressione di potersi permettere qualsiasi gesto, ogni volgarità e ogni eccesso, nel completo disinteresse per l’opinione altrui. La principale lezione che Ashe riceve da suo padre è invece che la reputazione sia il valore più importante da coltivare: «Mi riferisco alla reputazione meritata e non all’immagine costruita per il pubblico a dispetto dei fatti». È grazie a una solida reputazione che uno smilzo ragazzino del sud è diventato il primo giocatore di colore a vincere un torneo del Grande Slam, il primo a rappresentare gli Stati Uniti in Coppa Davis, il fondatore e il presidente del sindacato dei tennisti.

I gesti che hanno segnato la carriera di Arthur Ashe sono quelli che gli hanno permesso di vincere tre prove del Grande Slam su quattro, su tutte il singolare maschile di Wimbledon del 1975, sconfiggendo in finale Jimmy Connors. All’epoca Connors appariva imbattibile e anche i più affezionati fra i sostenitori di Ashe non riconoscevano al proprio idolo molte più chance di quelle di una vittima sacrificale. Connors aveva ventidue anni, dieci meno di Ashe, e aveva già vinto più titoli del Grande Slam di lui. L’anno prima aveva mancato soltanto il Roland Garros aggiudicandosi le altre tre prove e, in totale, aveva vinto 99 partite sulle 103 disputate. Ashe era nella fase discendente della carriera, da molti era dato per finito, ma la sera prima della finale andò a dormire sereno, ridimensionando mentalmente l’importanza del momento, dimenticando strategie e tattiche sulle quali aveva ragionato fino al pomeriggio.

Sabato 5 luglio 1975 fece la storia. Strapazzò Connors nei primi due set, che si conclusero entrambi con il punteggio di 6-1, giocando palle lente, liftate, inducendo l’avversario all’errore. Connors non era tipo da arrendersi facilmente ed ebbe un moto d’orgoglio che gli fece vincere il terzo set per 7-5 e lo vide portarsi avanti per 3-0 nel quarto. Lì il desiderio di Ashe tornò a prendere il sopravvento. Era il momento che aspettava da una vita e non poteva mollare sul più bello. «Darei una mano pur di riuscire a vincere», aveva dichiarato solo poche ore prima. Nei tre precedenti contro Connors, tutti persi, Ashe aveva cercato di rispondere all’aggressività dell’avversario con la stessa arma. Sotto per 3-0 nel quarto set della finale del più importante torneo del mondo ebbe la forza di non cedere a quella tentazione e ritrovò il suo gioco glaciale, le palle tagliate, velenose. Vinse 6-4 il quarto set e Wimbledon cadde ai suoi piedi.

Ancora più importanti sono, però, i gesti che il tennista ha compiuto per i diritti civili, soprattutto l’impegno con cui si è speso per far luce sull’apartheid che ancora regnava in Sudafrica. Per tre anni consecutivi cercò invano di partecipare al torneo di Johannesburg ma il governo del Paese non gli concesse mai il visto per via del colore della pelle. La ebbe vinta nel 1973, destando un certo scalpore, anche perché Ashe in quell’occasione arrivò alla finale del torneo di singolare e vinse il torneo di doppio.

Nel 1980 convinse la famiglia McEnroe a rinunciare a una sponsorizzatissima amichevole contro Björn Borg che si sarebbe dovuta tenere in Sudafrica alla fine di un anno in cui i due tennisti si erano sfidati nella finale di Wimbledon e in quella degli Us Open, entrambe finite al quinto set, la prima vinta da Borg, la seconda da McEnroe. L’esibizione sudafricana voleva idealmente stabilire chi fosse il miglior giocatore dell’anno, garantendo a ognuno dei due un compenso stellare di 600.000 dollari. Ashe fece ricorso alla sua miglior retorica per convincere John e il padre, John Senior, che non fosse conveniente alla loro immagine compromettersi con un Paese in cui si vedevano, ancora negli anni Ottanta, gli spaventosi cartelli “Whites Only” e “Nowhites Only”, e l’incontro non fu mai disputato.

Divenne amico di Nelson Mandela, un uomo a cui doveva molto, soprattutto per avergli insegnato, attraverso il suo esempio, il bisogno di resistere all’oppressione. «Ringrazio Dio per aver vissuto abbastanza a lungo da vedere Nelson Mandela venire negli Stati Uniti ed essere accolto da una parata in suo onore a New York», scrive Ashe, «di rado sono stato così fiero dell’America e dei miei compatrioti come quando ho assistito all’accoglienza da eroe che gli riservammo».

Si batté per l’istruzione dei tennisti, per le condizioni degli immigrati haitiani e, naturalmente, per i malati di Aids. «Volevo realizzare qualcosa di più importante di quello che avevo compiuto sul campo da tennis», ricorda. «Ero stato un atleta professionista e in pochi prendevano sul serio questa categoria… Eravamo degli intrattenitori, cui venivano assegnati ruoli essenzialmente clowneschi, per cui venivamo pagati molto bene». Giorni di grazia è il racconto di questo tentativo: togliersi di dosso gli abiti da clown. e portare nel mondo edulcorato dello sport una forma di resistenza, di protesta e infine di consapevolezza del tutto nuova. Al più grande intellettuale mai prestato al mondo della racchetta, tale tentativo non poteva che riuscire alla perfezione.