Un giorno a Special Olympics

Siamo stati a Biella, all'ultima tappa dei Giochi per atleti con disabilità intellettive.

C’è così tanto amore nell’aria, è che bisogna saperlo ascoltare. La prima a sintonizzarci col mondo è la dottoressa Quadrifoglia. Indossa uno strambo cappellino a fiori viola e azzurrini, e ha uno di quei buffi nasi da clown grande così. «Dove serve un sorriso, beh, noi ci siamo». Poi si bagna l’indice in un minuscolo barattolo di vernice rossa, e come fosse la bacchetta magica di Campanellino ci tocca la punta del naso. «Ecco, ora siete pronti». Non è facile entrare nel mondo di Special Olympics senza scivolare nella retorica. Bisogna trovarcisi in mezzo, bisogna provare ad ascoltare. Per sentire le onde, per avvertire l’energia che è la vita di chi ha un’abilità diversa.

L’ultima tappa dei giochi nazionali è a Biella, e lo vedi subito che c’è qualcosa di frenetico in giro. Le ringhiere delle case sono state fasciate con lunghi lenzuoli color fuoco. Qualcuno si è staccato, i lembi svolazzano di qua e di là quando il vento prova a ribellarsi al sole. Pochissimo, a dire il vero: il caldo è dappertutto. Ma le strade formicolano di gente. Di ragazzini, papà, mamme, volontari, allenatori, insomma di oltre millequattrocento protagonisti dell’evento per gli atleti con disabilità intellettive. Sono venuti da quattordici regioni d’Italia e da sette Paesi per gareggiare in otto discipline diverse (bocce, bowling, equitazione, nuoto, pallavolo, rugby e vela). Per stare insieme. È una festa, ma è anche la tappa finale di un percorso iniziato in Umbria (Terni e Narni) lo scorso maggio, continuato a La Spezia, e arrivato fino a qui, dove Special Olympics era già stata cinque anni fa. Siamo arrivati ospiti di Snaitech, partner della manifestazione con entusiasmo, come dice l’Ad Fabio Schiavolin: «Abbiamo sposato un progetto e con esso il piacere di partecipare a una festa, nella quale gli invitati principali sono dei ragazzi straordinari, decisi a vivere la loro avventura di sport con una gioia pura, pulita e libera».

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Appoggiata al parapetto, Silvana si sbraccia, urla, dài, dài. «Faccio il tifo per tutti. Qui si vince, ma nessuno perde mai». Silvana è la mamma di Federico, 27 anni, loro sono di Nerviano, non lontano dal caos milanese. Federico è un ragazzo con disabilità intellettiva. Un giorno, in vacanza, mamma lo guarda e dice: «Fede, giochiamo a bocce?». Da lì è nato tutto. Il gioco, la nuova complicità familiare, il lavoro sull’autostima, e adesso Federico e Silvana vanno a fare i tornei in giro per l’Italia. Insieme al suo amico Alì, Federico ha pure vinto un oro ai campionati italiani di Arezzo. «Altro che sport per anziani, le bocce sono uno sport come un altro», dice Silvana, «ma in generale lo sport è ciò che aiuta l’integrazione, così i ragazzi comprendono l’importanza della gara e quelli come Federico si sentono alla pari. Perché la disabilità siamo noi, la disabilità è solo un ostacolo mentale». Loro due fanno parte dell’associazione Sesamo di Rho, nata nel 2004 da un gruppo di genitori e che oggi, a distanza di tanti anni, si batte ancora per costruire una società più attenta alle difficoltà. «La vita non è la ricchezza, non sono le cose materiali. E’ tutto quello che si vede qui, è capire come si possono superare certe barriere mentali». Grazie ad associazioni come quella di Rho, il programma Special Olympics è ancora più efficace. Nel mondo sono oltre centosettanta i Paesi che adottano questo programma di allenamento sportivo e competizioni atletiche per le persone (ragazzi e adulti) con disabilità intellettive. Anche l’Italia fa la sua parte. Lo scorso 8 luglio, alla cerimonia d’apertura dei Giochi di Biella, davanti al tripode e alla torcia olimpica disegnata da Giorgio Armani, anche il ministro dello Sport Luca Lotti ha parlato di sport come «sinonimo di speranza».

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Altrettanto efficace è la dottoressa Quadrifoglia (la nostra Campanellino, ricordate?), lei è la presidente dell’associazione “Il Naso in Tasca”, clowndottori di Biella, gente che porta un po’ di buonumore a chi ne ha bisogno. «Perché c’è sempre bisogno di sorridere», dice, «è terapeutico». Le madri abbracciano i figli, sei stato bravo, ti sei divertito, è stata una gara emozionante, sono fiera di te. C’è così tanto amore nell’aria, basta così poco per poterlo afferrare. E lo vedi anche negli occhi di Michela, la mamma di Andrea, 16 anni, autistico ad alto funzionamento. Andrea ha difficoltà ad interagire con le persone, «ma abbiamo iniziato a fargli fare sport da subito, prima lo sci e poi il nuoto. E quando abbiamo scoperto il mondo di Special Olympics è stato tutto ancora più bello. Perché a quel punto lo sport arriva ad altri obiettivi, all’autonomia, i ragazzi viaggiano da soli, senza genitori, e c’è grande umanità. I tecnici danno obiettivi sempre più sfidanti e aiutano i ragazzi a superare gli ostacoli. Andrea, per esempio, non voleva asciugarsi i capelli con il phon, ma quando è andato via ha imparato a farlo».

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Michela sorride continuamente. Ci sediamo al tavolino di un bar, a due passi dalla piscina. Ha un vestito rosso (il rosso è dappertutto), beve un succo al pompelmo, e quando parla si illumina. «È stato terribile quando non sapevo cosa avesse. Vedevo gli altri bambini che progredivano e lui no. Primo figlio, tantissima apprensione. I pediatri mi dicevano di stare tranquilla. No, dico io, non sono tranquilla, e vado da un neuropsichiatra che mi parla di problemi di relazione. Così corro a Siena, dalla massima esperta. Laura Maria Pagliero, si chiama. Ad Andrea ho fatto mettere l’insegnante di sostegno da subito. Io avevo trentatré anni, mi era crollato il mondo addosso. Ma sono una combattiva, e mi sono detta: “Affrontiamo anche questa”. Eccoci qui». Andrea ha quattro fratelli e un sacco di amici. Quelli della Parrocchia di San Paolo e di Cossila San Grato, venuti qui a fare il tifo per lui con gli striscioni e le trombette. E finalmente arriva anche Andrea, che ha appena chiuso la sua gara di nuoto. Ha occhi azzurri, un sorriso che non ci sta tutto. Ride. «Il nuoto è divertente».

 

C’è così tanto amore nell’aria, è che bisogna saperlo riconoscere anche se ha gli occhi un po’ lucidi. Come quelli di Flavio Adalberto. È il papà di Andrea, 38 anni, costretto sulla sedia a rotelle dalla nascita. «Special Olympics fa partecipare i ragazzi a questi eventi», spiega Flavio, «e noi lo facciamo con l’attività equestre, perché il cavallo può essere davvero di grande aiuto. Portavo Andrea a cavallo non appena potevo, quando era piccolo. All’inizio non è stato facile accettare tutto». Al maneggio si canta, hanno messo su un karaoke. Bisogna tirare le cinque, troppo caldo per le gare adesso. «Andrea mi ha sempre detto: “Papà, io sono fortunato ad avere il mio cavallo. Gli altri no”». Oggi Andrea ha un suo blog, compone musica, scrive. Racconta la sua esperienza senza retorica. Nel ’99 ha voluto fondare una onlus, “Aver – Un cavallo per amico”. Per combattere il disagio sociale e attivare un processo di integrazione attraverso l’inserimento della persona nel mondo equestre perché, dicono quelli dell’associazione, «nella vita la vera tragedia non sta nel non raggiungere gli obiettivi, ma nel non averne da raggiungere, e che la vera disgrazia non è morire senza aver realizzato i propri sogni, ma non sognare affatto». Tutto questo è amore, sentimento, passione, volontà. È gioia, e qualche volta ci fa diventare anche un po’ tristi.