Il sistema è un limite?

Ripetitività e ordine collettivo sono vantaggiosi per il singolo? Alcuni casi per capire la relazione tra crescita individuale e partecipazione al sistema.

Con sistema si vuole intendere un’organizzazione di gioco complessiva che evidenzi nella sua applicazione tre caratteristiche specifiche: ripetitività, ordine e condivisione. Dove il termine ripetitività è associato ai movimenti (con e senza palla), e dove la condivisione deve sussistere tra i giocatori che del sistema fanno parte. Si tratta in ogni caso di un discorso, quello sul concetto di sistema, più difficile a dirsi che a farsi. Oggi che l’approccio proattivo delle singole squadre è sempre più diffuso rispetto a quello reattivo sono in molti gli allenatori che tentano di creare sistemi di gioco: il Napoli di Sarri, la Sampdoria di Giampaolo, ma anche il Manchester City con Guardiola, il Liverpool di Klopp e l’Atlético di Simeone sono soltanto alcuni esempi. Squadre diverse fra loro ma accomunate dalla ricerca di un calcio che non perda di efficacia nella sua ripetitività.

Sostenere che chiunque possa far parte di un sistema di gioco nell’accezione in cui lo abbiamo presentato è errato, e la storia di Guardiola ce lo insegna. Ciò che serve tener presente, comunque, è l’utilità che il collettivo trae dal funzionamento di ogni singolo meccanismo del sistema. È la premessa fondamentale che dobbiamo porci quando ci chiediamo un’altra cosa, ovvero: siamo sicuri che ripetere una serie ridotta di meccanismi, tendenzialmente allo sfinimento, sia davvero costruttivo per il giocatore nella sua dimensione individuale? La risposta è chiaramente ambigua, e dipende innanzitutto dal punto di vista da cui si sceglie di approcciarsi al tema. Uno dei casi più interessanti da prendere in analisi a questo proposito è quello di Insigne, comparsa sventurata del fallimento della Nazionale di pochi giorni fa. La sua prima identità da professionista è emersa sotto la guida di Zeman: Insigne ha dato un senso alle proprie qualità in un sistema di gioco basato sullo sbilanciamento del peso offensivo e sulla libertà d’azione nella metà campo avversaria, segnando quasi un gol ogni due partite da ala sinistra nella stagione al Pescara. Poi è tornato a Napoli, e ha vissuto tre annate in chiaroscuro in attesa di qualcuno in grado di valorizzarlo come aveva fatto Zeman tempo addietro. Quindi è arrivato Sarri. C’è stato un periodo di indecisione, un 4-3-1-2 che non funzionava, dopodiché il passaggio al 4-3-3 che è di fatto identico a quello di oggi. Un modulo ed un insieme di giocatori che ha dato luogo al sistema di gioco più brillante d’Italia, in cui Insigne è tutt’oggi calato alla perfezione. Non ha impegni difensivi gravosi, si trova al fianco di giocatori abili tecnicamente, da cui sa cosa poter esigere e che sanno cosa potersi aspettare da lui. Nelle ultime tre stagioni (15/16, 16/17 e la prima parte di quella in corso) ha giocato 109 partite, di cui 104 nella posizione di ala sinistra; le cinque che avanzano sono state spese intorno alla trequarti nei mesi di agosto e settembre 2015, oltre due anni fa.

SSC Napoli v Benevento Calcio - Serie A

La panoramica sul suo recente passato ci consegna un giocatore indubbiamente valorizzato nei punti di forza: ha segnato tanto, e in generale ha offerto prestazioni tali da poter considerarlo il miglior giocatore italiano. Coltivando le sue attitudini, Sarri ha ottenuto svariati elementi di vantaggio (la conquista della superiorità numerica su tutti) e il Napoli dell’ultimo biennio è cresciuto esponenzialmente anche grazie alle qualità di Insigne. Che però, oggi, è un giocatore estremamente limitato. A 26 anni non ha mai sperimentato con successo una posizione sul campo diversa da quella abituale, e da qui tutte le conseguenze del caso: usa pochissimo il piede debole, sa essere pericoloso solo rientrando dentro al campo, e così via. Il fatto è che ha raggiunto un’identità tecnico-tattica conclusiva troppo presto, ed oggi si ha la sensazione che i suoi margini di miglioramento siano estremamente risicati. Certo, se dovesse restare a Napoli per tutto il corso della sua carriera in pochi si accorgerebbero di questo deficit. Potrebbe continuare a mettere in fila doppie doppie tra gol ed assist per ancora diversi anni; ma basta affacciarsi a un’altra realtà – quella della Nazionale – per rendersi conto di come sia difficile collocarlo. Il suo caso può essere portato ad esempio di come per alcuni un sistema troppo restrittivo possa risultare compromettente nell’economia del processo di crescita individuale.

Un contro-esempio lampante, invece, è quello di Dani Alves, per anni colonna del Barcellona di Guardiola e tutt’altro che smarrito al momento in cui si è dovuto calare in un altro contesto. Ciò che differenzia il suo percorso dal caso di Insigne è l’esistenza di una dimensione precedente. Se Insigne ha trovato nel Napoli di Sarri il proprio habitat naturale, il primo vero ambiente ideale, il brasiliano si è forgiato altrove prima di entrare a far parte di un organizzazione di gioco sistematica. Un fattore che esercita grande influenza in questo senso è la sfera temporale. Insigne non ha vissuto, o ha comunque vissuto in modo marginale, il tramite che gli avrebbe consentito di poter contare su una base di certezze a prescindere dal sistema di Sarri. Se avesse vissuto un altro percorso di crescita avrebbe acquisito competenze differenti, sarebbe stato più completo, più adattabile.

FBL-FRA-LIGUE1-PARIS-TOULOUSE

Un esempio per certi versi similare a quello di Insigne riguarda un giocatore che come lui ha beneficiato del sistema di gioco di Sarri: Mirko Valdifiori. In tre anni di Empoli il suo ex allenatore ne ha fatto prima il regista della promozione, poi quello della conferma in A e allo stesso tempo uno dei più apprezzati d’Italia – tanto che proprio in quell’anno, il 2015, Conte lo fece esordire in Nazionale. Il ruolo di Valdifiori, nel 4-3-1-2 che all’epoca era considerato il marchio di fabbrica di Sarri, era centrale non solo formalmente, ma anche e soprattutto nella sostanza: nella stagione 2014/15 saltò soltanto due partite (entrambe le volte per squalifica), mise a referto sette assist e la media di 2,5 passaggi chiave a partita. Dell’anno seguente è il passaggio al Napoli a braccetto con il mentore, poi il resto è storia nota: la fatica nella comprensione del cambiamento, nel cambio di ritmo e nel dialogo con i compagni lo hanno ridotto a un oggetto indesiderato ed è stato costretto a trasferirsi ancora una volta. Il fatto che anche a Torino le cose non siano andate bene ci suggerisce come la ripetitività dei movimenti e degli schemi – che avevano fatto la sua fortuna – lo avevano silenziosamente limitato a quel tipo di gioco.

Rimanendo in casa Napoli, un giocatore che ha tratto vantaggio in tutti i sensi dall’inserimento in un sistema rigido è Zielinski. Quello che è il classico giocatore offensivo atipico, un po’ mezzapunta e un po’ trequartista, viene impostato come mezzala da Sarri prima e da Giampaolo poi. Cresce fisicamente ed atleticamente, coltiva il culto dell’inserimento partendo da quindici, venti metri più indietro, studia e comprende le intenzioni dei centrocampisti avversari. Tutto questo grazie alla limitazione del suo istinto anarchico, che va lentamente assopendosi, e alla concentrazione che deve necessariamente mettere nella partita per risultare efficace. Oggi non abbiamo controprove, ma difficilmente Zielinski troverà difficoltà nell’inserirsi in un nuovo contesto quando si trasferirà da Napoli. In lui la ripetitività del sistema chiuso e l’applicazione dei suoi princìpi hanno agito positivamente perché sono state in grado di trasformarlo, di sgrezzarlo. Se quello di Insigne è stato un semplice lavoro di miglioramento nei fondamentali e di crescita del livello di esperienza, per Zielinski è più corretto parlare di metamorfosi. Una crescita piatta, la prima, contrapposta a una ondulata e più ricca.

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Aprendo le frontiere e guardando all’estero, uno dei casi più interessanti è quello di Jakub Błaszczykowski. Un giocatore ordinario, privo di doti eccezionali o comunque particolarmente rilevanti, ma che in sette anni con Klopp al Borussia Dortmund ha giocato oltre 200 partite (tra cui una finale di Champions). Il sistema di gioco di Klopp è fondato sulla ricerca ossessiva della pressione, dell’aggressione del campo verticalmente sia in fase difensiva che in fase offensiva. Nella sua filosofia non esistono giocatori che non sono in grado di tenere un certo tipo di ritmo. Błaszczykowski, non a caso, è uno di quelli che con Klopp andava più d’accordo: è un giocatore atleticamente ben messo, con buone qualità aerobiche. Ma quando dal Borussia passa alla Fiorentina di Sousa – che gioca un calcio molto meno speculativo, più propositivo, e si schiera con il 3-4-2-1 – gli bastano poche settimane per andare in crisi. Per la prima volta in carriera si trova a dover coprire per intero la fascia di competenza, senza un terzino come Piszczek alle spalle; non trova i tempi di inserimento, è di fatto un corpo estraneo. Fuori dal sistema in cui di fatto era calcisticamente cresciuto, sistema che non gli chiedeva altro che la ripetitività di certi movimenti (tagli verticali, smarcamenti pro-cross), quello che sembrava uno degli esterni più affidabili in campo europeo si era tramutato in un problema. E a Wolfsburg le cose non sono andate particolarmente meglio.

La serie di casi presentati è utile a entrare nell’ottica della questione, ma non può rispondervi in maniera del tutto soddisfacente. Quelli di Insigne, Valdifiori o Błaszczykowski ammettono che le necessità del sistema, volte a renderlo efficace, penalizzano il singolo nella sua crescita generale. Viceversa, testimonianze come quella di Alves – e potenzialmente Zielinski – dicono che con una certa intelligenza calcistica o un certo tipo di trasformazione sia possibile trascorrere del tempo all’interno di un sistema senza risultarne limitati. E anzi, traendone vantaggio. Il tutto senza dimenticare la dimensione del quando: entrare nei meccanismi di un sistema non significa automaticamente subirne il contraccolpo, se alle spalle si hanno certezze acquisite negli anni precedenti. La doppia faccia del concetto di sistema si presenta come uno dei temi di attualità più interessanti, ed è probabile che in futuro la sempre più diffusa presenza di allenatori sistematici contribuirà ad alimentare questo interesse. Oggi i casi di giocatori che subiscono questo genere di limitazione non sono molti, e si tende a osservare il sistema in base ai risultati sportivi della squadra. Ma se ci chiediamo quanto effettivamente sia vantaggioso, per il singolo, starci dentro troppo a lungo, la risposta non è affatto scontata. Anche se il sistema è vincente.

 

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