Come difenderemo nel futuro

Il difensore tecnico e proattivo al centro dell'attenzione contemporanea è sempre esistito, perché da sempre il difensore è il regista di una squadra.

«Con gli allenatori della vecchia scuola, il 60/70% per cento del lavoro sul campo di allenamento era di tipo difensivo. Dove dovrebbe essere il tuo piede, la posizione dei tuoi fianchi, quanto spesso dovresti girare la testa per evitare di guardare troppo il pallone. Lo paragono a un musicista che spoglia una canzone di nuovo ai suoi elementi. Io ho cominciato con una base difensiva importante. I giocatori ora cominciano prima con la tecnica e apprendono la difesa soltanto più tardi». Se avete pensato alle dichiarazioni di Giorgio Chiellini di qualche settimana fa, non avete fatto un grande errore, ma sono parole di Gary Neville e vengono da un articolo scritto per il Telegraphnel 2014. L’ex United però, non esprime un giudizio negativo sul cambiamento del ruolo, come commentatore televisivo, dice, vedere le cose con un approccio passatista sarebbe la morte della propria carriera.

L’arte del difendere con classe

Ma Neville continua sviscerando una serie di sessioni di allenamento in cui lavorando due o tre volte a settimana per 40 minuti, si trovava regolarmente a cercare un miglioramento continuo su alcuni fondamentali che forse, oggi, sono stati persi di vista. Uno spunto interessante della sua idea è che, con ogni probabilità, si sta assistendo a un ritorno della “filosofia” propria degli anni ’40 e ’50, un calcio d’attacco e audace, pregno di sperimentalismi che con gli anni ’70, ’80 e ’90 era andato perso. Normale che il discorso di Gary Neville sia circoscritto principalmente al terreno della Premier League, ma la ricerca teorica intorno al ruolo del centrale difensivo è propria tanto del calcio inglese come del resto di quello europeo. «Guardo alcune squadre e penso: non sanno come difendere. Non allenano i calci piazzati, non sanno come lavorare nell’uno contro uno. Hanno una scarsa comprensione del gioco», scrive.

Molto è dovuto anche al contemporaneo cambiamento delle mansioni degli attaccanti, al cambiamento del gioco in sé. E se cambia il gioco, necessariamente vengono a modificarsi le tecniche di base richieste ai suoi interpreti. Spesso assistiamo a gare dal livello qualitativo superiore, a intere stagioni in cui la qualità del gioco si innalza e coincide con una perdita di qualità dal punto di vista difensivo, in fatto di errori individuali e di reparto. Potrebbe essere, e a volte lo è, un semplice problema di attenzione, di resilienza, ma c’entra forse, in parte, un pizzico di nostalgia con cui continuiamo a guardare i difensori del passato: l’arte del tackle di Maldini ha ancora oggi un fascino inesprimibile, ma la costruzione del difensore centrale moderno passa necessariamente dal metticiarsi di caratteristiche che vanno oltre il semplice compito di marcatura. Se la perdita della ruvidezza dell’intervento difensivo è un pretesto per parlare dei “bei vecchi tempi”, la capacità di influenzare direttamente e indirettamente il gioco, è invece un’attitudine di cui è impossibile fare a meno. Non stiamo assistendo alla perdita di un tassello importante come la capacità di difendere, piuttosto siamo al cospetto di una generazione di difensori che ha fatto dell’eleganza, della qualità tecnica e della volontà di essere centrali nel gioco non più solo un semplice dettaglio ma una necessità. Chi verrà dopo, quindi, proseguendo sulla stessa strada, potrebbe compiere un’ulteriore scatto evolutivo, abbattendo il concetto per cui è il guardiolismo ad aver modificato il ruolo del centrale. È il difensore stesso che ha preteso di diventare qualcosa di nuovo, democratizzandosi, dando a molti qualità che erano di pochi.

TOPSHOT - Paris Saint-Germain's Brazilian defender Thiago Silva (up) vies for the ball with Monaco's Colombian forward Radamel Falcao (L) during the French L1 football match between Monaco and Paris Saint-Germain (PSG) at the Louis II stadium, in Monaco, on November 26, 2017. / AFP PHOTO / ANNE-CHRISTINE POUJOULAT (Photo credit should read ANNE-CHRISTINE POUJOULAT/AFP/Getty Images)

Il difensore-del-futuro, definizione a cui ci si appella spesso negli ultimi tempi, deve poter garantire in egual misura: la capacità di impostazione e la visione di gioco, ma anche la lettura delle situazioni e la capacità d’intervento. Con la necessità sempre più crescente di limitare contatti fisici eccessivamente aggressivi. Vincere la sfida con l’attaccante, farlo con la contemporanea comprensione di tempo e spazio d’intervento, tenendo il tackle presente non come possibile variabile, ma come extrema ratio di un compito che è delicato, difficile, scarsamente invidiabile. Giocando da difensore centrale da quando avevo 6 anni, ho imparato che difendere è fare il lavoro del cane quando il gregge si muove insicuro: da dietro cominci a urlare le indicazioni, provi ad avere una ricezione visiva d’insieme che magari ti restituirà poco in termini di gloria, ma devi essere sempre in azione, non puoi permetterti pause o distrazioni. Mi è sempre piaciuto unire gli interventi decisi sulla terra battuta, quelli che lasciano il sangue aggrumarsi quando entra a contatto con la polvere, con una certa qualità nel gioco dei piedi – cosa poi andata persa, negli anni, ahimè. Questo per dire che, più che una questione di sistema, il racconto che sta dietro ai cambiamenti dell’approccio difensivo potrebbe essere più un fatto di attitudine personale che d’imprinting imposto dall’alto.

E allora forse, è per questo che guardo ai difensori e mi lascio trascinare dall’eleganza catartica e insieme efficace di Hummels, dalla sua bravura nell’aprirsi per ricevere ma anche nell’occhio unico con cui individua come poter tagliare il campo con un passaggio che ha per i compagni, il sapore dolce di un pacco regalo. Può essere diretto in avanti o conservativo, ma il lavoro di Hummels con il pallone tra i piedi sfiora i limiti della perfezione. Oggi forse l’approccio aggressivo è superfluo: aiutati dal contesto, i migliori centrali al mondo dominano con la mente e non con il corpo– e questo ovviamente mi fa invidia per la soggettiva incapacità di preconizzare come loro luogo e attimo dell’intervento. Il contesto che è fatto dalle caratteristiche tecniche della lega di provenienza, della tipologia di compagni di reparto su cui si può contare, sulla tipologia di gioco a cui la propria squadra fa affidamento. È anche una questione culturale, di cui hanno parlato alcuni commentatori, che viene dal retroterra in cui il difensore viene a formarsi. La proattività e la voglia di difendere in avanti, ad esempio, che è caratteristica principale di un giocatore com David Luiz, assume una valenza positiva o negativa in rapporto alla sua influenza nel contesto di gioco in cui tende ad agire.

I migliori difensori del 2017

Ogni teoria nasce, cresce e passa all’interno di un’era calcistica. Ci siamo appassionati e abbiamo amato tipologie diverse di interpreti: dal folle accorrere in avanti di un centrale come Lucio, alla dominante bellezza dei Maldini e degli Hummels, fino all’impeto pieno di grinta di un centrale come Puyol. Amiamo il cambiamento perché ci mostra lati del gioco che non potevamo ancora conoscere, ne mostra la variabilità a seconda dei tempi, in un dialogo costante tra passato e futuro. Se ogni 4 anni ci troviamo ad analizzare i movimenti e le variazioni proprie di un ruolo piuttosto che di un altro, forse ci serve soltanto fare pace con il fatto che non esiste una tipologia di centrale, di giocatore arretrato, di organizzazione difensiva che possa essere considerata totalizzante e migliore di altre. È per questo che la rivoluzione guardiolista è solo una variabile del cambiamento del ruolo del centrale difensivo. Difendere quella filosofia significa difendere la possibilità di aggiornamento, che, il più delle volte, non è altro che una minuscola mutazione di qualcosa già esistente.