Le radici del sarrismo

Viaggio nei luoghi in cui Maurizio Sarri ha iniziato ad allenare.

Nell’estate del 1990, Maurizio Sarri macinava chilometri per raggiungere il campo di Stia, nell’aretino, ad oltre un’ora di distanza da casa. Era il precampionato di una seconda categoria per cui quei chilometri valevano ancora la pena, anche per un promoter di banca che al campo non poteva arrivarci se non vestito di tutto punto. I quasi cinquecento metri di altitudine hanno soffocato il campo di Stia in uno spazio ristretto, costringendolo alle leggi della montagna.

Uno dei due lati si affaccia sullo Staggia, il torrente che attraversa la parte bassa del paese per poi tuffarsi nell’Arno, mentre il secondo si appoggia a un terreno spiovente: è lì, dove la strada continua nella sua salita, che Vanni Bergamaschi ci raggiunge in tenuta da lavoro. A differenza di Sarri, che li compirà fra poche settimane, lui ai sessanta è già arrivato, e oggi, dopo una vita spesa sul campo con il dieci sulle spalle e la fascia al braccio, fa il falegname giù in paese. A Stia non passa inosservato per due ragioni su tutte. Prima di tutto Vanni non ha mai indossato una maglia al di fuori di quella della squadra del paese, dai venti ai quaranta: è una di quelle bandiere oggi in via di estinzione. Poi perché è stato il vero, grande amico di Maurizio Sarri, nonché quello che, da compagno di squadra, lo ha spinto ad accettare la prima panchina della sua carriera.

Sarri? «Fisicamente buono, ma tecnicamente non buono», ricorda Vanni insistendo col sorriso sulla negazione. «Era un periodo, novembre-dicembre, in cui le cose non andavano, serviva un altro allenatore. Allora io gli dicevo, prova te, prova te… perché già in campo era un perfezionista, mi ricordo che andava a farsi la pre-preparazione, a correre da solo». Il 1990 sta chiudendo i battenti e con la fine dell’anno solare la squadra (di cui Bergamaschi è il capitano) passa nelle mani di Sarri. «Eravamo una seconda categoria scarsotta ma con Maurizio cambiò tutto, e fu un successo, perché lui quel cambiamento lo aveva dentro di sé. I più giovani se ne innamorarono». In aderenza al metodo, fondato sulla ricerca incessante del perfezionamento, Sarri adottò a Stia tre innovazioni che per l’epoca e il livello ebbero una certa risonanza: introdusse la rifinitura del sabato, premette su palle inattive e ricerca del possesso e arruolò un ragazzo che di settimana in settimana spediva in giro per la Toscana a visionare gli avversari della domenica successiva. Quel ragazzo era Graziano Sereni, più giovane di lui di sei anni e già membro dello staff nei mesi precedenti. Ha ripercorso quegli anni con una telefonata: «Maurizio mi chiese la disponibilità e io gli dissi di sì, che si poteva fare. Gli facevo queste relazioni sugli avversari, che però insomma… non erano cose da cinque parole, lui voleva un lavoro completo, informazioni a tutte le voci: come giocavano, se il difensore era grosso o veloce, se la punta era brava di testa, eccetera».

A trentadue anni compiuti il Sarri scrupoloso e maniacale era più visibile del Sarri dei dogmatismi, eppure le sue convinzioni erano già radicate in profondità. «Con la parola era un mago, ti dava spiegazioni così convincenti che anche se qualcuno era duro a capire lui le faceva intendere comunque», racconta Vanni. «Ne era proprio convinto, si vedeva: le sue idee sono le sue idee». La capacità di penetrare le menti dei giocatori è uno dei temi più ricorrenti nei racconti di chi ha conosciuto Sarri a cavallo tra i due secoli. Alla fine della prima (e unica) stagione alla guida dello Stia il suo carisma aveva attecchito a tal punto che uno dei suoi, un ragazzo che veniva da Pistoia, disse alla società che avrebbe firmato in bianco se avessero trattenuto anche Sarri, pur di continuare a lavorare con lui. Ma ad essere speciale era soprattutto il rapporto con Vanni, che Sarri non ha mai smesso di descrivere con affetto come «il miglior dieci che abbia mai avuto». E lui di contro lo ha sempre sostenuto: «Nel 1985 ero a Bruxelles, sono uno dei reduci dell’Heysel, uno juventino vero. Però quando Maurizio si giocava il campionato con il Napoli ho tifato per lui».

Per trovare stabilità in una onesta Serie B, a Empoli, a Sarri è servito oltre un ventennio. Fa un certo effetto ricordarlo oggi, se si pensa che fin dal principio si era mostrato concettualmente avanti agli altri. Secondo Bergamaschi – e non è l’unico a pensarla così – a influire è stata la sua cocciutaggine. «Ha dovuto raggiungere un compromesso, ma non tanto con gli altri, semmai con se stesso». È stato costretto a sedersi e a parlarsi, a mettere sul piatto della bilancia ambizioni e ossessioni, e per farlo ci ha messo qualche anno in più.

La panchina dello Stia è stata la prima su cui Sarri si è seduto da allenatore, 28 anni fa

Tra l’annata di Stia e la prima esperienza in B, la gavetta di Sarri è fatta di Promozione, Eccellenza e qualche Serie C. In alcuni luoghi, come Faella, Cavriglia e Antella, ha transitato per un biennio. Poi Valdema, e poi ancora, quasi per caso, Tegoleto. Le distanze variano relativamente, la zona è più o meno la stessa: Valdarno, Casentino, Firenze Sud. La parte orientale della Toscana che Sarri lascerà soltanto al momento del salto. Proprio l’ultima, Tegoleto, è una tappa significativa per la sua carriera, perché è lì che conosce Francesco Calzona, lo storico secondo che ha portato con sé fino a Napoli. L’anno è il 1999 e il contesto piuttosto simile all’autunno di Stia di dieci anni prima: a Tegoleto le cose non stanno andando per il meglio, Calzona è allenatore in prima e in bilico. Così il presidente Dino Bonci scorre l’elenco dei tecnici liberi – in realtà piuttosto esiguo – e decide di chiamare Sarri mantenendo Calzona come suo vice. Oggi Dino è un uomo di 83 anni in piena salute e malgrado l’età non ha rinunciato alla carica di primo tifoso del Tegoleto. «Qui penso ancora a tutto io, ormai in Federazione mi conoscono». Ci accoglie cordialmente nella sua casa, dove custodisce un ritaglio di giornale che ritrae Sarri al centro del Tegoleto 99/00. «Il Sarri mi era simpatico per un fatto. Ci sono molti allenatori che dopo la partita si fiondano negli spogliatoi e sbraitano, abbaiano, criticano, ma lui no. Lui prendeva, giubbino in spalla, sigaretta in bocca, e salutava. I panni sporchi li lavava sempre al martedì, così aveva il tempo per riflettere su cosa non aveva funzionato». In merito a pacatezza e riflessività Dino aggiunge altro: «Non alzava mai la voce, neanche in allenamento», ricorda. «A volte mi dava quasi l’impressione di non essere interessato a quello che faceva». Sulle ragioni che possono aver rallentato la scalata di Sarri, poi, Dino ha idee piuttosto precise: «Il fatto è che a volte in una società la parola in più può dare fastidio, e lui quella parola la aveva sempre».

A Tegoleto vivono persino meno persone che a Stia, circa duemila, eppure i campi da calcio sono due. Il primo, quello comunale, è stato ristrutturato di recente e dista un centinaio di metri dalla casa di Dino, mentre il secondo, a cinque minuti d’auto, è di proprietà della Usd Tegoleto. In segreteria a prendersi cura della scuola calcio c’è Giorgio Borgogni, che nel 2000 faceva il custode e si occupava della manutenzione del campo, due compiti che non richiederebbero poi un impegno così gravoso se non si incrociassero con Maurizio Sarri e il suo perfezionismo. «Lo voleva preciso il campo, e io preciso glielo facevo», racconta Giorgio. «Quando era giorno d’allenamento lui passava da questa porta e mi gridava: “oh Borgogni, ma che bel campo che m’hai fatto!”. Poi se ne stava chiuso fino alle 22.30 nello spogliatoio a discutere di calcio con Calzona… si era imparato a memoria nome e ruolo di tutti i giocatori della Toscana, di tutte le categorie. Li aveva schedati tutti!».

La sede del Tegoleto Calcio, dove Sarri ha trascorso la stagione 1999/00

Il primo salto di qualità di Sarri coincide con il triennio alla Sansovino, tra il 2000 e il 2003. È lì che si trasferisce dopo la stagione a Tegoleto ed è lì che vince il primo (e a ora unico) trofeo della carriera: la Coppa Italia di Serie D del 2003. Dopo quella vittoria riceve la deroga ad allenare in C2 e dalla Sansovino passa alla Sangiovannese, nel Valdarno. Nel biennio che trascorre a San Giovanni ha in rosa giocatori di ottimo livello per la categoria: Baiano, Moro (che ritroverà a Empoli), Moscardelli. «Al suo arrivo qui trovò una base ottima, eravamo un gruppo di soldatini», racconta Simone Calori, già biancoazzurro all’epoca e oggi capitano della Sangio. «Ci rendemmo subito conto che era un maniacale, e in più aveva regole molto ferree. Una ad esempio era quella degli scarpini: per lui dovevano essere tutti neri. Se qualcuno li portava di un colore diverso prendeva e glieli riverniciava di nero». Ma che allenatore era? «Un genio. Applicava alla C metodologie di allenamento che iniziavano a diffondersi solo nelle leghe superiori, e già con noi si serviva di strumenti, il drone ad esempio, ancora praticamente sconosciuti». Simone sottolinea anche un altro aspetto: i test. Oggi percorrendo il corridoio centrale dello stadio di San Giovanni saltano all’occhio le tabelle con gli obiettivi stagionali dei singoli giocatori, frutto dei test e dei confronti tra staff e allenatore. Sarri però ci era arrivato almeno tre lustri prima. «Lui ce ne faceva fare un sacco, quasi tutti i giorni, e non solo per i parametri fisici ma anche per misurare il livello della nostra concentrazione. Sapeva tutto di tutti, ricordo che prima di iniziare le partite andava da ciascuno e dava indicazioni individuali, ma precise, dettagliate, non tanto per fare. Le prime volte ci lasciava a bocca aperta».

Accanto a Simone, a bordocampo, c’è anche un altro ex di quella Sangiovannese. Cristiano Caleri, oggi ds, ne era il capitano: Sarri si fidava di lui a tal punto che nel 2012 fu a un passo dal seguirlo a Empoli come allenatore in seconda. «Ero un giocatore, non avevo esperienza, ma lui è fatto così», esordisce Cristiano. «I collaboratori se li sceglie dalla provincia, lo fa per un senso di orgoglio personale, perché lui è venuto da lì, sa che le cose sono anche più complicate di quando sei a livelli più alti». In effetti è sufficiente scorrere in modo sommario la sezione dedicata del sito del Chelsea: Marco Ianni, Massimo Nenci e Gianni Picchioni, tutti al suo seguito a Londra, hanno speso carriere intere tra i dilettanti. Ma perché uno come lui ci ha messo così tanto per arrivare dov’è oggi? «Perché era uno spigoloso, e perché metteva se stesso al centro. Quando si intestardiva su una cosa non c’era verso di smuoverlo. Mi ricordo ad esempio che non gli piaceva Pirlo, diceva che faceva troppi tocchi. Però quando arrivi a certi livelli Pirlo è Pirlo e te puoi farci poco». Simone annuisce: «Il suo gioco è più importante di tutto il resto». Poi continua: «Il fatto è che se entri nei suoi meccanismi lui ti fa correre la metà degli altri, però se non ti vede sei finito. È un suo difetto e se lo è portato dietro: individua quei 13/14 giocatori che fanno al caso suo e gli altri non esistono. A livello gestionale è una cosa che paghi, lui lo ha sempre fatto». Nell’album dei ricordi di Cristiano c’è una storia che ricorda sempre volentieri: «All’inizio del primo anno si fece una scommessa: se fossimo saliti lui avrebbe dovuto girare per il campo con una maglietta rosa». Alla fine dell’anno, puntualmente, arrivarono nell’ordine promozione e sfilata. «Si mise quella maglietta, sigaretta in bocca, e uscì in campo, ma molto sereno eh, con grande nonchalance».

Nel 2006 sulla panchina dell’Arezzo siede Antonio Conte, alla prima stagione da allenatore in prima. Dopo nove partite gli amaranto hanno messo insieme appena cinque punti e sono ancora a digiuno di vittorie, quindi il ds Ermanno Pieroni si fa promotore di un cambio in panchina ormai improrogabile. «In Toscana Sarri si era già affermato, aveva già un certo nome», racconta Pieroni durante una telefonata. «Personalmente ho conosciuto un uomo che si faceva benvolere, con cui si poteva fare squadra». Nonostante gli attestati di stima, e nonostante soprattutto gli storici punti strappati a Torino contro la Juventus e a Napoli, il rapporto con Sarri e l’Arezzo non decollerà mai definitivamente. «Conte voleva tornare, il presidente Mancini subì delle pressioni dopo la sconfitta di Trieste. L’esonero fu una storia particolare, non lo avrebbe meritato. Era un uomo tutto d’un pezzo, un professionista maniacale. Ogni giorno faceva due sedute e le partitelle erano rarissime… ricordo un periodo in cui Floro Flores veniva da me un giorno sì e l’altro pure, e mi faceva: “direttò, ma con questo non giochiamo mai!”». Però, aggiunge Pieroni, se preso fuori dal campo Sarri era anche uno «spassosissimo».

Ottobre 2006, Sarri subentra a Conte alla guida dell’Arezzo. Al suo fianco il presidente Mancini e il dg Peroni

Oggi nella rosa dell’Arezzo figurano due tra i giocatori che hanno conosciuto Sarri negli anni a seguire. Il primo è Aniello “Nello” Cutolo. A dispetto di numeri discreti (7 reti in 35 presenze da punta esterna), la stagione di Nello con Sarri non fu idilliaca: «Ci teneva sul campo fino allo sfinimento, ma soprattutto in allenamento non gli sfuggiva nulla: se ti distraevi un attimo lui se ne accorgeva subito». Poi tira fuori un tema che in molti, nel ricordare Sarri, hanno già sollevato: «Conosceva a memoria gli altri giocatori, tutti, dal primo all’ultimo! Per noi era preziosissimo perché sapevamo sempre chi andavamo ad affrontare». Con Nello ad Arezzo c’è poi Alberto Pelagotti, portiere di professione nonché prodotto del vivaio dell’Empoli con nove presenze in A. «Il primo giorno che l’ho visto mi ha dato l’impressione di uno con cui non si poteva parlare. Aveva quella voce imponente… faceva quasi paura. Poi mi sono reso conto che era tutto il contrario». Ne parla con gli occhi che brillano, un manifesto di come il lavoro di Sarri sulle sue squadre fosse coinvolgente. «Ma è importante sottolineare anche la sua coesione con lo staff, lui e i suoi parlano esattamente la stessa lingua. Con Mauro (Marchisio, l’allenatore dei portieri, nda) finivamo sempre per discutere del dettaglio sul piazzamento, ma del centimetro eh, mica del metro!».

Tra i tanti aspetti del suo essere descritti da chi lo ha conosciuto ce n’è uno soltanto che diversifica le opinioni, ma è un tema molto complesso e difficile da codificare: ossia quanto Sarri abbia cambiato di sé e del suo approccio al calcio nella scalata che da Stia lo ha portato al Chelsea. In tutto il resto, dal comportamento sul campo a quello fuori, dalle doti comunicative alla testardaggine, emerge invece una coerenza straordinaria, nel bene e nel male.

 

Dal numero 25 di Undici