La Juventus ha scelto Sarri per costruire un’identità

Stabilire una legacy calcistica, secondo una strada già percorsa dai top club europei.

In cinque stagioni alla Juventus, Massimiliano Allegri ha conquistato cinque scudetti e quattro Coppe Italia. L’ultimo campionato di Serie A è stato vinto con cinque giornate d’anticipo, undici punti di vantaggio sul Napoli secondo in classifica, staccato di nove lunghezze già al termine del girone d’andata. La fotografia di una squadra forte, dominante; eppure, travolta dalla necessità di cambiare. «Si è concluso un ciclo in modo naturale», ha detto il vicepresidente juventino Pavel Nedved, raccontando come l’esperienza di Allegri fosse vista come un percorso tecnico giunto al capolinea, che non sarebbe stato in grado negli anni a venire di aggiungere nient’altro.

C’è un’interpretazione di fondo in questa chiave di lettura offerta da Nedved e in generale dalla società Juventus: ai risultati, che Allegri non ha fatto mai mancare nel suo quinquennio bianconero, bisognava aggiungere qualcos’altro. E quel qualcosa sta in un’idea di calcio che non fosse semplicemente un modo per arrivare a conquistare coppe e campionati – una svolta così clamorosa, un’operazione di rottura così audace non la si conduce in porto solo perché l’anno prima non si è vinto la Champions – ma che diventasse un marchio identificativo della squadra stessa.

Maurizio Sarri è stato individuato come l’allenatore giusto per portare nel club una visione di calcio profondamente nuova, basata su principi – il gioco di posizione, un approccio di gioco proattivo e offensivo – largamente condivisi nelle squadre europee al vertice. L’ultima edizione di Champions League ha visto arrivare in semifinale quattro squadre con un’identità tattica ben definita, e proprio il modo in cui la Juventus è stata eliminata ai quarti – da un’Ajax che, pur con una rosa più inesperta e di minor valore, ha fatto valere l’efficacia di un calcio offensivo – ha accelerato il processo di trasformazione in casa bianconera. Non è detto che Sarri sia il migliore nel trasporre questo tipo di gioco, e al tempo stesso potrebbe anche esserlo. Ma non è questo il punto: la svolta Juventus parte con Sarri ma dovrà necessariamente sopravvivere oltre Sarri, nel senso che si dovrà instillare un certo tipo di cultura calcistica capace di resistere – e di rinnovarsi – al cambiare dei singoli progetti tecnici.

Può sembrare una rivoluzione, e in un certo modo lo è. In altre realtà, e bisogna ovviamente indicare il Barcellona al primo posto, l’allenatore è l’ambasciatore di una certa idea di calcio – la può arricchire, rivestire di nuovi concetti, ma è un’idea che esiste prima di lui e che non muore dopo di lui. Questo tipo di concezione, oltre a garantire una continuità negli anni e a rendere la squadra impermeabile a capovolgimenti interni, accorda a una squadra calcistica una precisa identità: quanto più è entusiasmante, tanto più quella società sarà appetibile. Non è solo una questione calcistica, ma rientrano anche valutazioni di tipo commerciale: l’aprirsi a nuovi mercati, i tifosi come potenziali clienti, eccetera. È un modo per entrare in connessione con il tifo e oltre, con un asset tanto grande quanto liquido come la fanbase dei tifosi di calcio. Uno studio di Expedia Group ha svelato che la destinazione preferita per assistere a un incontro di calcio è Barcellona (per il 30 per cento del campione). La dimostrazione dell’esistenza di una legacy calcistica, di un appeal che va oltre una stagione, un nome, un allenatore.

L’ultima finale di Champions League ha visto sfidarsi due allenatori – Klopp e Pochettino – che a Madrid sono arrivati senza aver mai sollevato un trofeo con le loro squadre attuali, nonostante una permanenza nei rispettivi club piuttosto lunga – l’argentino dal 2014, il tedesco dal 2015. È il racconto di una concezione a cui all’estero sono arrivati prima: la volontà di costruire una squadra secondo una determinata cultura, da cui, a cascata, derivano le idee di gioco. Non c’è nulla di antitetico rispetto ai risultati – che rimangono, in definitiva, l’obiettivo a cui aspirano le squadre di tutto il mondo, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi categoria – ma si può creare valore, attenzione mediatica, fidelizzazione dei tifosi anche senza. Del resto, Pochettino e Klopp sono intoccabili nei loro club, mentre José Mourinho, che pure in due anni e mezzo di United ha vinto di più a livello di titoli (tre), è stato esonerato per le difficoltà in cui era precipitata la squadra. C’è un aspetto puramente sportivo, quindi: le condizioni giuste che permettono di arrivare ai risultati sono più importanti dei risultati stessi. Perché fanno sì che le vittorie siano ripetibili, e non soltanto episodiche.

Poi, come detto, c’è anche un aspetto che va oltre la dimensione puramente di campo. Come ha scritto Michael Cox su Espn, un anno fa: «Con i club che aumentano disperatamente i loro sforzi per promuovere l’immagine di un club, l’ultima cosa che possono permettersi è un manager che promuove un calcio difensivo. Se Sean Dyche proponesse un calcio attraente, sarebbe un candidato ideale per la panchina dell’Arsenal. Ma il Burnley non gioca in questo modo, e per questo Dyche non è tra i 20 allenatori in lizza per rimpiazzare Wenger. Anche Diego Simeone lo si immagina difficilmente in uno dei top club d’Europa, nonostante i suoi traguardi conquistati negli ultimi anni siano paragonabili a quelli di Guardiola o di Klopp».

L’esperienza di Sarri al Chelsea ha indubbiamente rafforzato l’immagine del tecnico: i risultati sono stati molto positivi – vittoria dell’Europa League, terzo posto in Premier League, finale di League Cup – nonostante una situazione ambientale al limite dell’isteria, con i tifosi schierati apertamente contro la guida tecnica e una società sempre più sfilacciata. La missione che non gli è riuscita, e non certo per colpa sua, è stata quella di assicurare al Chelsea – dove i progetti tecnici vengono stravolti nell’arco di un periodo di tempo limitato –  un’idea di gioco che potesse essere ripercorribile negli anni. La Juventus, ora, è l’ambiente giusto per esplorare questa possibilità. Difficile, audace, semplicemente affascinante.