Perché gli assistenti non riescono a diventare grandi allenatori?

Al di là di poche eccezioni, i vice o i collaboratori tecnici fanno sempre fatica a prendersi la panchina di una grande squadra. E, soprattutto, a mantenerla.

Siamo nel 2013. Poco dopo la sua nomina ad allenatore in seconda del Real Madrid, Zinédine Zidane rilascia un’intervista a L’Équipe in cui parla della sua nuova avventura, del perché abbia accettato questo nuovo incarico. Uno dei passaggi più significativi è quello in cui dice che si tratterà di «un’esperienza fondamentale» che gli permetterà «di imparare come si gestisce una grande squadra da una posizione privilegiata». Il sodalizio con Ancelotti non durerà tantissimo: nel 2014 passa ad allenare il Castilla e a gennaio 2016 è già sulla panchina della prima squadra, chiamato a sostituire l’esonerato Rafa Benítez. Due anni e mezzo dopo, nella tarda primavera 2018, Zinédine Zidane diventa il primo tecnico nella storia a vincere la Champions League per tre edizioni di fila. Ecco, magari Zizou ha iniziato la sua carriera in panchina un po’ più tardi rispetto a tanti altri colleghi, ma dopo pochissimo tempo era evidente che fosse destinato a diventare un allenatore vero. Perciò ha voluto staccarsi e camminare da solo, ha iniziato a farlo, l’ha fatto benissimo. E poi è diventato uno dei tecnici più vincenti di sempre.

Da qualsiasi prospettiva la si guardi, la storia di Zidane storia resta enorme, probabilmente irripetibile: pochissimi fuoriclasse assoluti (forse solo Cruijff e Beckenbauer) sono riusciti a replicare i loro trionfi sul campo anche in panchina, e mai nessuno l’ha fatto con la sua continuità. Allo stesso modo, e questo è il vero focus della nostra analisi, Zidane è uno pochissimi allenatori in seconda e/o assistenti tecnici dell’era contemporanea – di quelli arrivati a lavorare nelle squadre più importanti – che sono riusciti a reinventarsi e ad affermarsi come allenatori in prima. Oltre a quello di Zizou, il caso di Mourinho è quello più eclatante, considerando il suo passato come traduttore di Bobby Robson e osservatore per Louis van Gaal; poi ci sono Valverde, Villas-Boas, Nuno Espírito Santo, David Wagner. E Mikel Arteta, ovviamente, che nonostante tutti i problemi resta comunque il manager dell’Arsenal, una squadra nobile del calcio europeo – solo un po’ decaduta.

Tutti questi tecnici hanno avuto o stanno avendo una carriera discreta. Ma non ci sono top coach a parte Mourinho, che comunque ha iniziato ad allenare ormai vent’anni fa; Villas-Boas sembrava poter seguire le sue orme, ha ancora tutto il tempo per riuscirci, ma finora ha deluso le attese e le promesse dei primi anni in panchina. Insomma, è evidente che siamo molto lontani dall’era di Bob Paisley, Vicente del Bosque e delle successioni interne, quando i grandi allenatori – soprattutto in Inghilterra – venivano sostituiti dai loro secondi, dai loro assistenti, e le cose continuavano ad andare bene. È un segnale chiaro rispetto all’evoluzione del calcio, un gioco – ma anche un comparto di business – sempre più complesso, in cui per eccellere come uomo-guida occorrono doti multisfaccettate, trasversali, ma anche delle predisposizioni emotive che vanno ben oltre le competenze tattiche. Negli ultimi anni, dati ed esperienze alla mano, la costruzione di una carriera da allenatore di altissimo livello è diventata un’impresa più facile rispetto al passato, infatti ci riescono anche degli ex giocatori che hanno militato solo in squadre giovanili e/o dilettantistiche, o che hanno fatto anche altri lavori prima di dedicarsi esclusivamente al calcio – si pensi ai casi di Sacchi e Sarri, ma anche a quello decisamente meno romantico di Julian Nagelsmann, costretto a diventare allenatore per via di alcuni gravissimi infortuni. Paradossalmente, però, chi diventa assistente tecnico e/o allenatore in seconda fa molta fatica a completare il suo percorso, a prendersi la panchina di una grande squadra. E, soprattutto, raramente riesce a mantenerla e a ottenere grandi risultati.

Steve McClaren. Aitor Karanka. Rui Faria. Paul Clement. René Meulensteen. Pep Lijnders. Sono tutti allenatori di calcio che hanno avviato la carriera in proprio dopo anni passati a fare i vice o gli assistenti ai vari Ferguson, Mourinho, Ancelotti, Klopp. Dopo un inizio promettente, tutti hanno finito per perdersi un po’, fino al punto di arenarsi o addirittura tornare indietro – pochi giorni fa, per esempio, McClaren ha lasciato il ruolo di direttore tecnico al Derby County a causa delle difficoltà economiche del club. Una delle motivazioni potrebbe essere quella legata alla frammentazione del lavoro per i collaboratori tecnici: i vari coach che compongono lo staff di un allenatore sono professionisti altamente specializzati, curano la preparazione tattica solo in certe aree e difficilmente si concentrano anche su altre, e quindi finiscono per avere delle competenze settorializzate. Questo discorso vale anche per chi si occupa degli aspetti extracampo: all’interno di un gruppo di lavoro ampio come quello delle squadre di calcio contemporanee ci sono figure tecniche che hanno meno impatto sul gioco, che lavorano sulle menti e sull’anima dei giocatori, che hanno il compito di mantenere l’armonia all’interno dello spogliatoio, che fanno da cuscinetto tra i giocatori e il tecnico, oppure che si occupano solo di una categoria di calciatori, per esempio i giovani. A questi professionisti, inevitabilmente, manca qualcosa dal punto di vista a livello di conoscenze tattiche.

Tra gli aspiranti allenatori che non ce l’hanno fatta, come detto, c’è anche Pep Lijnders: l’assistente di Klopp al Liverpool è considerato uno dei più brillanti tattici al mondo, è uno dei grandi segreti dietro le vittorie colte dai Reds negli ultimi anni, lo stesso manager tedesco ha sempre parlato di lui con termini a dir poco entusiastici. Insomma, ci sono tantissimi indizi – che poi in realtà sono prove – per pensare che Lijnders abbia tutto ciò che serve per guidare una squadra da solo. Eppure la sua (unica) esperienza da allenatore in prima, al NEC Nijmegen, è durata solo pochi mesi, da gennaio a maggio 2018. Da qui sorge spontanea la domanda: se addirittura Klopp crede che Pep Lijnders sia un bravissimo stratega calcistico, perché Pep Lijnders non è riuscito a imporsi come allenatore ed è tornato a lavorare nel suo staff a Liverpool?

Una possibile – e convincente – risposta è stata fornita da Michael Beale, preparatore dei Rangers Glasgow e quindi collaboratore di Steven Gerrard: intervistato da The Athletic, ha raccontato che «gli allenatori hanno un’aura particolare, unica: Stevie riesce a tirare fuori il meglio dei giocatori perché è lui, perché è Steven Gerrard: quando entra nello spogliatoio, l’atmosfera intorno a lui e a tutti gli altri cambia radicalmente. Non tutti hanno questo carisma, questa forza magnetica d’attrazione, e occorre tempo per capire se un allenatore in seconda possiede già certe qualità, oppure sarà in grado di acquisirle». Anche un giocatore (anonimo) che ha lavorato con Paul Clement, vice di Ancelotti (al Chelsea, al Psg, al Real Madrid, al Bayern Monaco) e in seguito allenatore in prima senza grande successo, ha usato parole simili per tracciare la differenza: «Le sessioni di allenamento di Clement erano eccezionali, perfette. Ma un allenatore non può limitarsi a questo. Ancelotti è stato un giocatore del Milan, della Nazionale italiana. La differenza si sentiva, Paul mi sembrava un po’ debole, senza autorità».

Carlo Ancelotti e Paul Clement ai tempi della loro collaborazione al Bayern Monaco. Proprio dopo l’esperienza in Germania, Clement decise di provare davvero la sua carriera da allenatore in prima dopo una parentesi al Derby County nel 2015/16: a partire dal 2017 ha guidato lo Swansea, il Reading e infine il Cercle Bruges. È stati esonerato dal club belga a febbraio 2021, ora è svincolato (Dean Mouhtaropoulos/Getty Images)

Se addirittura Pep Guardiola ha sempre amato definirsi «un allenatore di uomini», se persino un tecnico annoverato nel gruppo dei “nerd futuristi” come Julian Nagelsmann ha ammesso che «il coaching moderno si compone del 30% di tattica e del 70% di rapporti sociali», vuol dire che il lavoro sul campo è solo una parte di ciò che compete a un manager contemporaneo. Una parte di certo non laterale, secondaria o accessoria, ma che va coltivata insieme a tutta una serie di abilità innate, che derivano dall’esperienza accumulata nel corso di una grande carriera da calciatori, o che più semplicemente non possono appartenere a tutti. E poi c’è un altro aspetto fondamentale da tenere in considerazione: la pressione che deriva dalle responsabilità. Un allenatore contemporaneo deve prendere tantissime decisioni difficili sulla tattica della sua squadra, deve gestire i rapporti interpersonali con i giocatori, con il resto dello staff e con la società, e infine – la cosa più importante, quella decisiva – deve ottenere risultati. Altrimenti è lui a pagare per tutti, dal punto di vista economico, d’immagine, di reputazione.

Insomma, si tratta di una condizione – umana e lavorativa – piuttosto difficile, che proprio per la sua complessità può essere sopportata e vissuta bene da pochissime persone. Quelli che ce la fanno sono devono essere considerati degli eletti, degli appartenenti a un club esclusivo in cui è difficilissimo entrare, anche per chi ha seguito la strada maestra di una carriera come assistente. Lo sta dimostrando Arteta all’Arsenal, per tutti un predestinato al mestiere di allenatore che si trova da tempo in una situazione apparentemente più grande di lui; lo hanno dimostrato tanti suoi colleghi negli ultimi anni, che come Icaro hanno visto sciogliersi le proprie ali una volta arrivati vicini al sole. Lo pensava persino Luca Gotti, uno di quelli che ce l’ha fatta: l’attuale allenatore dell’Udinese era il secondo del suo predecessore Igor Tudor, poi è stato scelto come sostituto del tecnico croato nel novembre 2019. Oggi è ancora sulla panchina della squadra friulana. Subito dopo la nomina a interim, aveva detto che «la mia intenzione sarebbe quella di restare un vice, da allenatore in prima i rapporti con i giocatori cambiano completamente». Proprio questa consapevolezza, forse, l’ha portato a essere l’eccezione che conferma la regola. Magari non come Zidane, ma il senso è quello.