Il Mondiale per Club è un torneo oscuro e controverso, ma l’idea non è completamente da buttare

La collocazione in calendario e la l'ombra della politica (non solo quella calcistica) non sono un grande biglietto da visita, ma il concetto di una "Champions dei continenti" è molto affascinante.

Fondamentalmente agli americani non interessano i Mondiali di calcio”, chiosavano oltre trent’anni fa Elio e le Storie Tese nell’incipit di una delle canzoni più puntuali e centrate di sempre sul gioco del pallone. Da USA 1994 i Mondiali e la FIFA hanno fatto il giro: dopo il punto di non ritorno di quell’edizione anti-logica con picchi di umidità insostenibili, crampi, crisi di disidratazione e partite a mezzogiorno (tra cui una delle finali più soporifere che si ricordino, nonostante ci fosse l’Italia – o forse proprio per quello), i capoccioni di Zurigo hanno voluto esplorare l’Estremo Oriente, poi il Sudafrica d’inverno con sottofondo di vuvuzelas e infine hanno trivellato il Qatar squassando i calendari e la routine di tutto il calcio occidentale. Ora il tour prosegue con il ritorno al soccer, in un’America non esattamente più civile rispetto ai favolosi Nineties, ma si spera calcisticamente molto più istruita e consapevole. Parteciperanno molte squadre al nuovo campionato dei Mondiali per club: ben trentadue, divise secondo rigorosi criteri geopolitici che saranno alla base anche dell’ipertrofico Mondiale per Nazionali a 48 squadre dell’anno venturo, e già si ragiona su una formula a 64.

Tuttavia, al netto delle lamentele da gourmet del Primo Mondo su chi mai sarebbe disposto a sorbirsi alle 2 di notte Pachuca-Al Hilal o Wydad Casablanca-Al Ain, non è facile spiegare all’uomo della strada per quale motivo ne siano rimasti fuori il Liverpool campione d’Inghilterra o due semifinaliste Champions come l’Arsenal e il super-Barcellona da oltre 150 gol stagionali, e invece siano entrati il Borussia Dortmund o il Chelsea distintosi soprattutto come luminoso esempio di mala-gestione a 360 gradi. La selezione delle 32 è avvenuta secondo criteri un po’ cervellotici che hanno riguardato le ultime quattro edizioni dei vari trofei continentali, in un dedalo di coefficienti e punti-bonus che da noi, oltre all’Inter, ha tenuto in ballo fino all’ultimo Milan, Napoli e Juventus: i mediocri euro-risultati 2023-2024 di azzurri e rossoneri hanno assicurato il secondo slot a una Juve che in quattro anni non aveva mai superato gli ottavi di Champions. Inoltre, per evitare un’egemonia inglese è stato stabilito il limite delle due squadre per Paese: così i vari veti incrociati hanno dipinto uno scenario in cui un posto al sole se l’è conquistato persino il Salisburgo, terzo classificato nella regular season della prestigiosa Bundesliga austriaca.

Gli Stati Uniti avranno imparato dai loro errori?

Al di là della burocrazia regolamentare, c’è una certa curiosità per scoprire se gli Stati Uniti avranno imparato dai propri errori: non quelli del 1994, che minarono alla base ogni progetto di innalzamento del soccer al livello degli altri grandi sport di squadra statunitensi, ma più banalmente quelli dell’estate scorsa, quando ospitarono una delle peggiori edizioni della Coppa America che si ricordino. Il grande caos a margine della finale Argentina-Colombia, iniziata con 82 minuti di ritardo per arginare i tentativi di irruzione nell’Hard Rock Stadium di Miami di migliaia di spettatori senza biglietto, fu solo la punta dell’iceberg. Durante Perù-Canada, giocata alle cinque del pomeriggio ai 37 gradi di Kansas City, svenne l’assistente guatemalteco che stava sul lato soleggiato del campo. Il difensore uruguayano Araujo abbandonò il campo nella partita contro Panama lamentando vertigini e un calo di pressione. A margine della semifinale Colombia-Uruguay, il pubblico di Charlotte poté deliziarsi con un’incredibile rissa finale tra gli ultrà colombiani e i giocatori della Celeste, accorsi sugli spalti per difendere i propri familiari.

Per la serie (appunto) “Nessuno allo stadio”, in molti casi gli imponenti teatri di gara sembrarono troppo grandi – e di conseguenza troppo vuoti – per partite non proprio di cartello come Venezuela-Ecuador, 29mila spettatori in un impianto che poteva contenerne 68mila (ma anche le partite degli Stati Uniti furono molto lontane dal sold out). Persino un padrone di casa come Weston McKennie non fu tenero con i terreni di gioco, ritenuti troppo piccoli e un po’ posticci, con uno strato di erba naturale sdraiata su quella artificiale dei campi NFL, che invece è proibita dalle norme FIFA.

E a proposito di appetibilità del prodotto, non aiuta il rendimento di Team USA, che vivacchia guardando all’appuntamento del 2026 con una certa ansia, a cominciare dal ct Mauricio Pochettino preoccupato, in caso di figuraccia planetaria, di attirarsi l’ira funesta di Donald Trump. Il primo Mondiale per Club della storia a 32 squadre arriva in coda a un’annata già sufficientemente massacrante, in cui diversi club europei hanno lambito le colonne d’Ercole delle 60 partite stagionali. Non si uccidono così anche i cavalli? era il titolo di un vecchio film di Sydney Pollack che raccontava di un gruppo di disperati che, ai tempi della Grande Depressione, tentava di sopravvivere tirandosi il collo in estenuanti maratone di ballo. Anche se la situazione economica di molti top club galleggia nella zona grigia di un’ambiguità che fa comodo a tutti gli addetti ai lavori, nessuno certo ha costretto Florentino Pérez o Nasser Al-Khelaïfi a spolmonare i propri pregiatissimi cavalli da corsa: ma mai come nella patria di Gordon Gekko vale il principio che l’avidità è giusta, l’avidità chiarifica, l’avidità cattura l’essenza dello spirito evolutivo.

Tuttavia, almeno a parole, il Real Madrid non ha mai nascosto l’ostilità verso questo torneo, espressa più volte da Carlo Ancelotti che adesso, visto com’è andata la stagione, sarà lieto di essere dispensato dal viaggio negli States. Un’altra squadra che ha concluso con la lingua di fuori, cioè l’Inter, probabilmente sfrutterà l’ampia rosa da 35 possibili giocatori consentita dal regolamento per far rifiatare i suoi big più usurati e magari mettere alla prova i tanti talenti distribuiti in prestito, a cominciare dall’ottimo Francesco Pio Esposito che ha fatto un figurone a La Spezia in Serie B. Il rischio di defezioni di massa in effetti serpeggia, tanto da invitare la FIFA a formulare il vago invito di «schierare la miglior formazione possibile». Soprattutto, ha indotto Zurigo ad approntare una finestra di mercato extra nella prima decade di giugno, che potrà essere sfruttata anche come “test d’ingresso” per guadagnarsi una stagione intera in un top club mondiale. Questi sono i lati oscuri, del tutto fisiologici in una manifestazione nuova di zecca e per nulla votata al basso profilo, volta a un gigantismo programmatico, che certamente avrà cadute, difetti, fasi di crisi e momenti di totale rigetto.

L’altra faccia della luna

Ma, oltre la bulimia di titoli e bonifici bancari di questo o quel presidente, c’è anche un lato buono della medaglia. C’è un’utopia concreta, un’idea di pallone che sembrava persa nelle nebbie del tempo: il calcio combattuto tra continenti, l’Europa che certamente sbranerà il resto del mondo ma non soffocherà la voglia e la curiosità di scoprire calciatori sudamericani, asiatici, africani non ancora fagocitati dalla mondanità, proprio come accadeva nei Mondiali per Nazionali di una volta, in cui – sempre per restare a USA 1994 – il villaggio globale scoprì l’effimero talento di Saeed al-Owairan, “il Maradona del deserto” che scartò da solo tutto il Belgio segnando il gol più allucinante di quell’edizione, o una fucina di strepitosi nigeriani tutti accomunati da un talento oltraggioso ma anche dalla difficoltà di tenere collegato il cervello per 90 minuti (l’Italia sentitamente ringraziò). Per esempio, il River Plate metterà in vetrina un ragazzino di 17 anni già sorvegliato da anni dai grandi club europei: Franco Mastantuono, che a fine aprile ha illuminato il Superclásico col Boca con una perla su punizione che ha fatto ulteriormente impennare la sua valutazione. Oppure Wessam Abou Ali, stella della Nazionale palestinese che da un anno detta legge in Egitto con la maglia dell’Al-Ahly, il secondo club più titolato al mondo. O ancora il centrocampista brasiliano Yan Sasse, che dopo aver giocato in Turchia e in Nuova Zelanda è diventato la stella dell’Esperance Tunisi vice-campione d’Africa. Gente che magari tra due mesi avremo dimenticato, ma che importa. Conta l’insieme.

Una riserva indiana composta da tutti quelli che esistono e resistono al di fuori dell’Eldorado europeo, forse non forti abbastanza per essere corteggiati dai sauditi, ma comunque orgogliosamente a difesa del loro posto nel mondo. Innaffiato dai miliardi di dollari del fondo sovrano saudita PIF e da multi-nazionali recuperate dalla FIFA non senza fatica, videotrasmesso da DAZN grazie anche a un accordo con il medesimo azionista, USA 2025 sarà dunque per paradosso una festa ecumenica, ironicamente in linea con le tendenze espresse dal recentissimo conclave: proprio come Papa Francesco con cui ha rimarcato di avere «un rapporto speciale», Gianni Infantino persegue da anni l’ambizione di evangelizzare territori remoti con cui evidentemente rafforzare il proprio potere. Sempre tenendo presenti le basi: il popolo vuole Messi? E allora Messi ci sarà, perché i suoi sodali dell’Inter Miami si sono qualificati per ultimi dopo essersi aggiudicati il Supporters’ Shield (che NON è il titolo MLS, ma semplicemente premia la squadra arrivata prima nella regular season). Lasciamo giudicare al lettore il fatto che un titolo del genere venga premiato con un posto al Mondiale per Club: la banalissima verità è che Messi è uno dei pochissimi nomi che riescono a smuovere le pigre folle statunitensi (anche un anno fa in Coppa America il pienone c’era solo per le partite dell’Argentina). Mancherà invece Cristiano Ronaldo, visto che il suo Al-Nassr (allenato da Stefano Pioli) sarà inopinatamente assente, con grande delusione degli organizzatori, che già sognavano un duello Mondiale mai andato in scena a livello di Nazionali.

E poi, last but not least almeno per noi italiani, ci sarà un aspetto molto più local – anzi, diciamo pure provinciale: l’ipotesi di uno Juve-Inter dall’altra parte del mondo, a Orlando o a East Rutherford, in entrambi i casi nella prima serata italiana. Potrebbe succedere ai quarti di finale, se arriveranno prime o seconde nei rispettivi gironi, dando vita alla terza sfida stagionale dopo il clamoroso 4-4 di fine ottobre a San Siro o il contraddittorio 1-0 di febbraio a Torino, che pareva un punto di ripartenza per Thiago Motta e invece un bel niente.

Un torneo irrituale

Sarà un torneo talmente irrituale, talmente improgrammabile, per qualcuno talmente fastidioso (ricordiamoci che rischia di sballare parecchie programmazioni estive, all’alba di una stagione che inizierà a metà agosto perché tra un anno c’è il Mondiale “quello vero”) che tutto sarà possibile. Le favorite? Forse il Paris Saint Germain, con Donnarumma che all’esordio contro l’Atlético Madrid si esibirà nel famigerato Rose Bowl di Pasadena fatale all’Italia il 17 luglio 1994. Forse il solito Real Madrid con un allenatore diverso, con uno Mbappé sbuffante dalle narici all’idea di una prima stagione in blanco sostanzialmente a zeru tituli. Forse il Manchester City di Guardiola, per proseguire i suoi piani napoleonici, magari con in più un Rodri bello fresco dopo aver saltato quasi l’intera stagione per infortunio.

A proposito di intenti napoleonici, il capitano che il 13 luglio alla fine della finale di East Rutherford solleverà al cielo il trofeo – un voluminoso catafalco realizzato in collaborazione con Tiffany che presenta una finitura placcata in oro 24 carati e, secondo i comunicati stampa, «mostra persino la posizione del sistema solare nel giorno della partita inaugurale a giugno 2025» – faccia attenzione a posare lo sguardo sulle ben due iscrizioni dedicate al presidente Infantino, la cui firma è incisa direttamente sul trofeo: onore che non si ricorda per nessuno dei suoi predecessori, nemmeno i più megalomani. Che volete che vi dica? Per il nostro pianeta è un momento un po’ strambo, e anche il Mondiale per Club non fa eccezione.

Da Undici n° 62

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