L’amour fou

Marsiglia è una città unica come la sua squadra, l’Olympique. Una storia divisa tra amore eccessivo e tanto odio, a intermittenza: un ottovolante di successi e abissi, vittorie e anni bui, sconfitte e inchieste.

Una città con l’orecchio teso verso lo stadio. Tutti a Marsiglia sanno quando gioca l’Olympique, si sente dalle vibrazioni nell’aria che salgono dal Vélodrome e raggiungono i vicoli stretti, sparsi attorno alla Canebière. In queste strade, Marcelo Bielsa è l’uomo della rivincita. Rivincita di un calcio proletario, dove lo stadio è animato dalle curve, i virages, dai gruppi ultrà, contro una Parigi borghese e un po’ snob. Dove gli ultrà sono stati cacciati e il Parco dei Principi, quasi sempre esaurito, applaude solo se lo spettacolo è gradito. Spettatori, non tifosi, pensano i marsigliesi dei parigini. Marsiglia no, è l’antieroe con la faccia sporca, quello che non ti aspetti, ma che ti appassiona. Oggi. Ma solo qualche anno fa, quelli ricchi, noiosi e vincenti erano loro. C’è una storia, qualcuno direbbe una leggenda, che i padri raccontano ai figli nel sud della Francia, in cui gli eroi sono Gunnar Andersson, Josip Skoblar, Jean Pierre Papin e Didier Deschamps, idoli per sempre di una squadra che negli ultimi 20 anni ha fatto anche crescere Drogba e un Cantona ancora principino prima di diventare Le Roi dell’Old Trafford. Marsiglia è l’inferno e il paradiso. Una città bella e violenta, un club che negli anni ’90 è diventato campione d’Europa, ma è stato retrocesso pochi mesi dopo. Padrone, ma allo stesso tempo prigioniero di una posto che porta tutto all’estremo. Intrappolato come Edmond Dantes nel castello d’If, quella minuscola prigione sull’isola che guarda in faccia la baia e il Vecchio Porto. Da qui partirà la sua vendetta, la sua riscossa sociale. Dal punto più basso della sua storia, l’OM è ripartito, ricominciando a vincere quando l’antico capitano è tornato, per sedersi in panchina. Deschamps era già riuscito a Marsiglia a rilanciare una squadra che dopo l’umiliazione della Seconda Divisione e 18 anni senza titoli, adesso starebbe dominando la Ligue1 senza l’arrivo del Psg made in Qatar, che ha cambiato le regole del gioco rendendo la concorrenza un’utopia. O quasi.

Marsiglia è l’inferno e il paradiso. Una città bella e violenta, un club che negli anni ’90 è diventato campione d’Europa, ma è stato retrocesso pochi mesi dopo.

Oggi, aggrappata ai sogni e agli schemi di un pazzo venuto dall’Argentina, Marsiglia è tornata a sognare e a osare. Un club la cui storia è diventata leggenda in soli cinque anni, durante la presidenza di Bernard Tapie, con quattro titoli consecutivi tra il 1989 e il 1992. La Francia sportiva e non solo era ai suoi piedi, ma per diventare immortali serviva il sigillo in Europa. Prima ci fu la semifinale di Coppa delle Coppe nel 1988, quella di Coppa Campioni nel 1990, l’anno seguente la delusione fu ancora più grande con la finale persa a Bari contro la Stella Rossa, ai rigori. Quando il Marsiglia conquistò nuovamente la finale nel 1993, Tapie non poteva tollerare una nuova sconfitta. Di fronte c’era il Milan di Capello: per entrare nella storia bisognava battere la squadra più forte di quel periodo. Fu il momento più alto, prima del declino. Bolì abbatté il Milan nella finale di Monaco di Baviera, l’OM diventò la prima squadra francese a vincere la Coppa Campioni: À jamais les premiers cantano da allora i tifosi, per sempre saremo i primi. È il completamento di un percorso che sotto la presidenza di Tapie aveva fatto diventare l’OM, insieme ai rossoneri, una delle squadre più temute in Europa. Ma la festa dura poco. Tapie qualche settimana dopo fu incriminato per aver tentato di corrompere 3 giocatori del Valenciennes, avversaria dell’OM in campionato a pochi giorni dalla finale europea, e il presidente che stava scrivendo la storia fu condannato a due anni di carcere. Anche il club finì nei guai: revocato il titolo conquistato sul campo, espulsione immediata dalle competizioni Uefa (niente Champions, niente Supercoppa Europea e niente Intercontinentale) e al termine della stagione successiva retrocessione in Seconda Divisione.

Il gruppo MTP al Vélodrome
Il gruppo MTP al Vélodrome

Tutti quei big che non erano ancora partiti se ne andarono. Erano tanti, perché da quel Marsiglia degli anni d’oro sono passati giocatori eccezionali, molti dei quali sarebbero arrivati da noi, e avrebbero fatto bene: Angloma, Francescoli, Boksic e Abedì Pelé, qualcuno avrebbe scritto la storia firmando scudetti e Coppe Campioni come Deschamps, Papin e Desailly. In tribunale l’OM ci finirà altre volte. Nel 2006, prima che l’Italia iniziasse a tremare per Calciopoli, in Francia si indaga sui conti dell’Olympique tra il 1997 e il 1999: evasione fiscale, salari fittizi, commissioni gonfiate. Si scopre che i dirigenti hanno sottratto milioni di euro. Il processo si concluderà con tredici condanne, tra cui il presidente Dreyfus e l’allenatore Courbis. Nel 2007 ancora un processo per conti truccati, per il trasferimento dell’argentino Tuzzio che si concluderà con la condanna del giocatore, del suo agente e del direttore finanziario del club, pene confermate in appello.

La storia recente è quella che ha visto a metà novembre finire in stato di fermo gli ultimi tre presidenti del club, tra cui l’attuale Vincent Labrune per un’indagine sull’infiltrazione malavitosa nella gestione di alcuni trasferimenti importanti. Marsiglia è una città difficile, con un alto tasso di criminalità e il club e i giocatori rischiano sovente di finire nel mirino. Tra le lettere di congratulazioni e benvenuto che Robert Luis-Dreyfus aveva trovato sulla sua nuova scrivania, dopo essere diventato il presidente dell’OM nel 1996, ce n’era una un po’ più voluminosa, all’interno c’era una piccola bara. «Almeno mi ha fatto capire da subito qual era l’ambiente» commenterà l’uomo d’affari franco-svizzero morto di leucemia nel 2009 lasciando alla moglie Margarita la guida del club.

Tra le lettere di benvenuto che Dreyfus ha trovato sulla nuova scrivania ce n’era una un po’ più voluminosa. All’interno c’era una piccola bara.

«Si dice sempre che l’OM è un club diverso dagli altri. È un po’ banale, ma è vero. Bisogna ammettere che c’è di tutto. Il bene, il male, ma soprattutto l’eccesso»: il quadro preciso di cosa sia questa squadra e questa città lo fa Robert Pirès, campione del mondo e d’Europa, che ha passato due anni (1998-2000) sui campi d’allenamento della Commanderie. «Troppo amore, troppo tifo, troppa collera. Troppa violenza. Quando tutto va bene, tutto va fin quasi troppo bene. C’è una sorta di euforia che s’impossessa della città. Al contrario, quando i risultati sono meno buoni, tutto prende delle proporzioni, a volte, insensate». Insensato, come essere spaventati durante un allenamento pochi giorni dopo una sconfitta, (clamorosa, a Saint Etienne per 1-5) perché al di là della rete c’è qualcuno che ti minaccia: «Quel giorno ho avuto veramente paura. Non è ammissibile che certa gente possa reagire così per il calcio». Altrove. A Marsiglia sembra tutto lecito, tutto normale, e tutto è vero. Pirès è andato via nell’estate 2000, c’era l’offerta dell’Arsenal e il passo in avanti, anche dal punto di vista sportivo, era immenso. Ma c’è chi ha preferito farne uno indietro, per scappare, per lasciarsi alle spalle Marsiglia, non il club, non i tifosi, ma la città, la più violenta di Francia, dove un diverbio in un locale notturno può degenerare in una sparatoria a colpi di kalashnikov con 34 proiettili sparati e tre feriti gravi. Non è storia, ma cronaca, attualità. Una delle notizie di apertura dei quotidiani nel settembre 2013 quando in nove mesi si erano già contati quindici regolamenti di conti tra le bande della malavita organizzata, il milieu marseillais.

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La sud del Vélodrome, 2011

Marsiglia è violenta nelle strade e a volte anche sui campi senza erba di un’area che ha 112 club, 13.776 tesserati, 6.000 partite all’anno (nel 2012-2013). Nel maggio del 2013 nella regione Bocche del Rodano sono state annullate tutte le gare di un weekend per dare un segnale forte dopo le aggressioni a due arbitri, e tra i casi disciplinari gestiti dal distretto federale la stagione precedente 114 avevano portato a squalifiche di almeno quattro giornate. Non è facile essere un calciatore a Marsiglia, sia sui campetti sperduti, in mezzo alle case, a fianco di una discarica, sia per chi indossa il bianco e l’azzurro dell’OM. Nel 2010, qualche mese dopo la vittoria del campionato, i due fratelli Ayew, l’argentino Lucho González e il brasiliano Vitorino Hilton sono stati vittime, in casa propria, di rapine a mano armata. Commando di quattro o cinque persone che entravano in casa, minacciavano e in alcuni casi picchiavano i giocatori, rubando oggetti, denaro, gioielli. Lucho se ne tornerà al Porto qualche mese dopo l’aggressione. Vitorino, che voleva tornare in Brasile, si accontenterà del Montpellier: «Quando senti i tuoi bambini ti chiedono, spaventati, se quei signori torneranno anche stanotte, pensi prima di tutto a proteggere la tua famiglia». Ma la lista è lunga. Mamadou Niang detiene il record di sei tentativi di rapina, di cui tre andati a buon fine, in cinque anni. Vittime di furti anche Fabrice Abriel, Stéphane Mbia, Brandao, l’ex presidente Jean-Claude Dassier. È successo addirittura ad André-Pierre Gignac, uno dei leader dello spogliatoio, originario della zona e considerato quasi intoccabile. Quasi, appunto.

Nessuno era davvero sicuro, per questo il club ha dovuto prendere precauzioni, organizzando uno speciale piano sicurezza per i propri giocatori che costa tra i 600.000 e gli 800.000 euro all’anno per proteggere i 25 della rosa. Adesso c’è una società privata di sorveglianza che pattuglia le ville dei giocatori 24 ore su 24, e gli agenti di sicurezza effettuano ronde ogni mezz’ora. Ulteriore garanzia, l’organizzazione è affidata a gente di Parigi, e non della zona, per evitare fughe di notizie. Da allora le cose vanno meglio. Sembra un romanzo criminale, ma è la realtà. Ma il problema non è completamente risolto. Qualche mese fa è successo ancora: uomini armati sono entrati in casa del giovane Mario Lemina, colpendolo con una mazza. Il centrocampista aveva traslocato da un paio di mesi e si era dimenticato di avvisare gli uomini della sicurezza che continuavano a sorvegliare la vecchia residenza. Errore, dimenticanza o forse l’informazione è passata per mani sbagliate. José Anigo, ex allenatore, oggi dirigente in esilio in Marocco, dopo questo ennesimo atto di violenza allargava le braccia: «Il club ha investito molto per impedire situazioni del genere, ma i giovani devono fare più attenzione alle loro frequentazioni. Non si può rimanere nascosti, ma bisogna vivere il più lontano possibile da questo genere di cose».

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La curva nord, con il gruppo Dodgers

A Marsiglia è questo il prezzo che si paga per il successo e per giocare nel club più importante di Francia. José Anigo è una figura controversa, ma fondamentale degli ultimi anni. Nel club da oltre 30 anni, prima giocatore, poi dirigente e allenatore. Nato e cresciuto qui, conosce ogni vicolo del Vieux Port, i ragazzi con cui è cresciuto hanno preso strade diverse, alcuni quelle più tortuose. Succede, spesso, a Marsiglia, «una città che mangia i suoi figli». Parole sue. Dolorose e vere. Tra le tante vittime del milieu, tra i regolamenti di conti del 2013 c’è anche Adrien, il maggiore dei suoi 4 figli, un passato in carcere per rapina a mano armata in quanto presunto membro della “gang delle gioiellerie”. Anigo è stato per anni l’unico inamovibile, mentre uno dopo l’altro passavano presidenti, giocatori, allenatori, lui restava lì. Spesso con funzioni diverse. Responsabile del settore giovanile, prima, direttore sportivo, poi, ma anche allenatore, a più riprese (cinque) arrivando persino a giocarsi una finale di Coppa Uefa. Nel 2012, pochi mesi prima che Didier Deschamps lasciasse la panchina marsigliese, il suo agente Jean-Pierre Bernès parlava di «forze oscure» all’interno del club che lavoravano per mandarlo via, nonostante grazie a lui fosse finito il digiuno di titoli più lungo della storia recente del club.

A cambiare tutto ci ha pensato Marcelo Bielsa. La squadra in estate ha perso molte pedine importanti, sacrificate per mantenere in ordine i conti del club. Dei giocatori acquistati, invece, non ce n’è uno che l’argentino schieri da titolare. Nel pre-campionato l’OM vince, ma quando comincia il campionato raccoglie un punto in 2 partite. Dov’è la methode Bielsa? A cosa serve il guru argentino?, la stampa chiede. L’allenatore non risponde, di più: non rilascerà una sola intervista. Farà solo conferenze stampa, e pure poche. Vuole silenzio in una città abituata al chiasso. I dirigenti pensano a un nuovo fallimento. I tifosi invece silenziosi aspettano. L’empatia con “El Loco” è stata immediata, a naso, a pelle. Non serviva un allenatore, ma un leader e quell’argentino burbero era la persona adatta. Lavoro, lavoro, lavoro e ogni tanto un po’ di follia, secondo il centrocampista Roman Alessandrini. I cinque chili in meno con cui Gignac si era ripresentato dopo l’estate hanno fatto capire che Bielsa faceva proseliti nello spogliatoio più che in ogni altro luogo. Più che nei corridoi della dirigenza.A un certo punto, Bielsa parla: «Nessuno dei giocatori arrivati è stata una mia precisa richiesta, ho proposto 12 nomi, nessuno si è concretizzato». L’argentino mette spalle al muro i suoi dirigenti. Cessioni non preventivate, arrivi non concordati e un mercato bocciato. Bielsa non mette le mani avanti, ma le cose in chiaro: gli obiettivi non si cambiano, tornare in Champions è possibile. Per una volta, i tifosi sentono che chi siede sulla panchina è come loro, arrabbiato, molto simile ai virages. Bielsa li capisce, Bielsa li unisce. Intanto in campo tutti corrono come matti. Gignac segna. Arrivano 10 vittorie di fila, il primo posto in classifica e un momentaneo +7 sul PSG. L’empatia diventa passione. A Marsiglia il calcio brucia il sangue come il sole scalda la sabbia. L’OM è in ogni bistrot della Canabière in ogni bar del Vieux Port. Come poteva non scoccare la scintilla tra una città così e un allenatore che non guarda i giornalisti in faccia in conferenza stampa, che dal brusio della panchina preferisce isolarsi sedendosi su una glacière, una ghiacciaia o in pratica un frigo portatile, all’interno dell’area tecnica? Immagine, già diventata icona tanto da finire su una maglietta venduta dalle bancarelle davanti al Vélodrome. Ma la città è pazza, e Bielsa è il Loco. Cosa c’è ancora da spiegare?mars4

Avere il sostegno dei tifosi, a Marsiglia, vuol dire tutto. Nel dicembre scorso Élie Baup fu esonerato pochi giorni dopo un’enorme contestazione al Vélodrome. Prova di forza, di una tifoseria che ha spesso influenzato le decisioni del club. Innovatrice, perché il Commando Ultrà è stato il primo gruppo di tifosi ultrà nato in Francia, il 31 agosto 1984, ispirandosi al tifo italiano. Prima nessuno al di là delle Alpi organizzava e viveva il calcio come a casa nostra. Potente, sia a livello politico che economico, dal 1987 gli otto gruppi che rappresentano la tifoseria organizzata gestiscono direttamente la vendita dei loro abbonamenti. Sono 28 mila, su una media di 40 mila venduti dal club. Nel 2006 l’Equipe aveva stimato il mancato guadagno del club a tre milioni di euro l’anno. Si può vivere anche senza. Lo ammette Cedric Dufoix, segretario generale del club: “È vero, potremmo guadagnare di più, ma preferiamo perdere dei soldi piuttosto che la nostra anima» mentre l’ex presidente Bouchet definiva questo sistema un inconveniente ma al tempo stesso un vantaggio. A Parigi però l’abbonamento meno caro costa 430 euro, quello nei virage del Velodrome appena 180, di questi solo 145 finiscono nelle casse del club. Tempio del tifo, stadio storico costruito nel 1937, quest’estate sono stati ultimati i lavori di ristrutturazione in vista di Euro 2016, costati 270 milioni, che ne hanno aumentato la capienza (da 60.000 a 67.400 posti), nuova copertura, nuovi box vip. Costi divisi al 50% tra la municipalità e un’azienda privata a cui il Comune dovrà pagare 12 milioni a stagione fino al 2045. Ne è nata una querelle finanziaria tra il consiglio comunale e il club, che a inizio stagione aveva addirittura minacciato di lasciare Marsiglia e giocare le partite casalinghe a Montpellier. L’accordo si è trovato a pochi giorni dall’inizio del campionato, su base triennale: un affitto di 11 milioni per i prossimi 3 anni, più una parte variabile in base agli incassi. Ma il sistema di vendita degli abbonamenti continua a restare un principio intoccabile.

L’empatia con “El Loco” è stata immediata, a naso, a pelle. Non serviva un allenatore, ma un leader e quell’argentino burbero era la persona adatta.

Ma senza uno sceicco alle spalle, come si fa a reggere la concorrenza del PSG? Il presidente Labrune nell’estate 2013 di fronte alla potenza economica parigina e alla crescita, momentanea, del Monaco aveva fissato il modello da seguire e gli obiettivi del club: diventare il Borussia Dortmund francese. Contenere i costi, scovare giovani di talento, essere presenti, sempre, in Champions League. Strategia che solo nei prossimi anni potrà dare qualche frutto. Per ora alla Commanderie ci si accontenta di contenere i costi, con un budget stagionale di 125 milioni (il PSG è a 480) e una massa salariale sempre più ridotta: 87 milioni del 2010, 65 nella scorsa stagione, oggi scesa ancora dopo le partenze di Valbuena e l’addio di Cheyrou. Le scommesse del futuro sono Lemina, Thauvin, Doria, Batsuhay, Mendy. Investimenti importanti, giocatori giovani arrivati alla Commanderie nelle ultime due stagioni con una spesa totale di 40 milioni. L’obiettivo è recuperare un tesoretto per il futuro dalle loro cessioni e intanto ritrovare un piazzamento europeo perso in questa stagione. Bielsa serve a creare uomini. Leader, perché quelli che oggi dominano lo spogliatoio partiranno presto. Gignac e André Ayew sono in scadenza di contratto e quasi sicuramente non rinnoveranno, per Mandanda, Romao e N’Koulou basta l’offerta giusta. Oggi tutti al Marsiglia possono partire. Anche Bielsa che nel suo contratto ha una clausola per rescindere consensualmente a fine stagione. Solo che Bielsa e Marsiglia coincidono, adesso. Se se ne va uno non esiste più l’altro. Il contrario invece non esiste.

Dal numero 3 di Undici