1992/93

Salah, Morata, Anderson, Dybala, Pogba, Icardi: mentre la Serie A non mostra miglioramenti, ci scopriamo molto bravi nella virtù che viene dalla necessità. E coltiviamo talenti che gli altri non volevano. Le loro storie e le conseguenti lezioni.

Mohamed Salah è quello che prende palla nella propria metà campo, a destra, e per correre sulla sinistra tenta il tunnel (e gli riesce) all’avversario. È quello che si sente sicuro di poter correre così veloce senza perdere il pallone da partire con un’idea folle: andare a segnare partendo di là, da così lontano. Infatti segna. Alla Juve, in Coppa Italia. Nella notte che lo mette subito nella vetrina delle giovani stelle, improvvisamente in voga in un campionato non molto competitivo, molto poco divertente eppure con qualcosa di nuovo da mostrare, se si guardano attentamente Salah e gli altri. E quello che accomuna.

Salah è nato nel novantadue, ha segnato sei gol da quando è in Italia, e ha giocato otto partite. È arrivato come promessa e ha già mantenuto. Promessa che nasceva vaga, in realtà: del ragazzo parlavano bene, ma in Inghilterra sembrava non realizzarsi, nel Chelsea giocava poco, non seduceva Mourinho e – quella che forse è una mortificazione per qualunque giocatore carico di ambizioni – a gennaio si era tramutato in una “parziale contropartita tecnica”. Per arrivare a Cuadrado il Chelsea ha dovuto ridurre il contante (a 33 milioni di euro) da versare alla Fiorentina e aggiungere il ragazzo egiziano, in prestito gratuito. Da aspirante stella a buono sconto, e ritorno. Con la Roma che adesso prova a snobbarlo per proteggersi dal sopraggiungere del rimpianto, mentre Mancini ne parla come un colpo sfuggito per l’Inter e fioriscono punti interrogativi in Inghilterra, dove si domandano come sia potuto andar via un giocatore così, come abbiano potuto sghignazzare a sentirlo chiamare “il Messi d’Egitto” senza investire realmente. Perché sì, non tutto andava liscio, ma prenderlo dal Basilea, fargli giocare tredici partite (dieci nella scorsa stagione, tre in questa) in un anno solare e poi scaricarlo vuol dire non aver creduto nell’investimento oppure aver investito male. In ogni caso, aver commesso un errore. Ora Salah è in Italia, gioca da numero dieci anche se indossa il 74, che ha scelto per ricordare le vittime di Port Said, la città egiziana in cui gli scontri tra tifosi e polizia tre anni fa provocarono 74 vittime proprio mentre si era in piena rivolta contro il vecchio regime di Mubarak e gli apparati del potere.

Salah segna e apre la porta ad ampie considerazioni sulle stelle giovani che si vedono dallo stretto lucernario del nostro campionato.

Ha arricchito la Fiorentina e forse ha cominciato a pensare davvero, togliendosi la tristezza delle soddisfazioni che non decollavano (a parte la popolarità in Egitto, s’intende), di aver visto giusto quando ha scelto di non proseguire con gli studi. Perché a un certo punto si è trovato a un bivio: suo padre, ex calciatore ha raccontato di un momento in cui la famiglia doveva scegliere, se far concentrare Mohamed sul percorso scolastico o sul pallone, optando per il gioco e «affidandoci a Dio». Chiunque sia, l’ha accompagnato proprio dove doveva andare e pure ad alta velocità, altrimenti non sarebbe stato Salah, l’uomo che Murat Yakin, ai tempi del Basilea, ha paragonato a Bolt: già lo ha fatto vedere, perché i calcoli del Corriere della Sera registrano contro la Juve una corsa di settanta metri in sette secondi, e Bolt ne fa cento in 9’58”. Senza palla, senza un gol da segnare. Salah in più segna. E apre la porta a considerazioni più ampie sulle stelle giovani che si vedono dallo stretto lucernario del nostro campionato: compirà ventitré anni a giugno e chissà dove sarà in quel momento. Potrebbe essere ancora alla Fiorentina, per via della formula barocca del trasferimento: con un milione di euro il prestito è rinnovato, poi ne serviranno quindici per il riscatto, nel 2016. Il giocatore che il Chelsea ha mandato qui per far crescere e per pagare meno uno già cresciuto, può diventare un colpo italiano.

Morata nel gennaio 2015, contro il Chievo. Valerio Pennicino/Getty Images.
Morata nel gennaio 2015, contro il Chievo. Valerio Pennicino/Getty Images.

Così Salah passa in una partita da simbolo del declassamento del calcio italiano a ventata di nuovo: questo essere squadre B delle top league europee, parcheggio di lusso per giovani in ascesa delle squadra più forti, sembrerebbe adesso un modo paziente di ricostruire, un’opportunità. Quella che ha portato Morata alla Juve, ad esempio. Che pure è un novantadue e pure nasce come un accantonato, in un’operazione capace di essere vista con malizia, in grado di considerare la Juve un passaggio intermedio tra il Castilla (la seconda squadra del Real Madrid) e il Real stesso, che è proprietario del giocatore e lo ha ceduto alla Juve per venti milioni riservandosi l’opzione di recompra. (Cioè: se vuole il Real può riappropriarsene dal 2016, con un prezzo massimo di trenta milioni, in base al numero di partite giocate.) Più gioca, più vale: un’altra formula di parcheggio, che però porterebbe soldi anche nel caso peggiore. Tutto ruota dunque intorno a Madrid, dove Morata è nato e dove ha compiuto la sua prima scelta: lasciare la strada indicata dal nonno (l’Atletico) per fare tutta la filiera delle giovanili con i blancos, un po’ come Raúl, l’idolo di cui aveva le foto in stanza, mentre cresceva tanto (raccontano di un boom di venti centimetri in un anno, che gli costò comunque infortuni) per arrivare al quasi metro e novanta di adesso, e dormiva davvero con il pallone accanto al cuscino (il primo fu un Mikasa). Ora continuano a paragonarlo a Morientes e lui intanto studia: dice che l’Italia è l’università degli attaccanti, anche se così giovane ha già avuto Mourinho e Ancelotti come maestri. Guarda gli altri per migliorare e anche in Nazionale è arrivato dalla panchina, per poi lasciarla quasi del tutto. Il ragazzo, che ha cominciato con un infortunio pochi giorni dopo l’acquisto, adesso si è preso il posto di Llorente, ha conquistato la fiducia della Juve e attirato di nuovo gli occhi del Real, che forse ora pensa di tenerselo ma molto probabilmente non riuscirà a farlo, per un accordo tra gentiluomini capace di andare oltre la recompra, se rispettato: Morata potrebbe avere la possibilità di scegliersi la destinazione seguendo solo la sua volontà. E in quel caso basta ricordare la notte di ottobre 2013, quando il Real vinse contro la Juve in Champions e mentre gli altri blancos festeggiavano c’era un ventenne che andava a chiedere la maglia a Buffon. Ovviamente, era Morata.

L’Italia che non sempre fa compiere ai suoi giovani migliori il percorso dalle giovanili alla prima squadra, ha però l’intuito di presentarsi per prima quando crescono i giocatori delle altre.

Salah e Morata sono investimenti obbligati, di squadre che non possono trattenere i campioni (come la Fiorentina) o devono guardare al bilancio prima di spendere (la Juve) e puntano su operazioni adesso in grado di rendere tanto, ma prima considerate mosse un po’ rischiose, oppure affido temporaneo del talento. Così, però, ci stiamo appropriando del futuro degli altri, come ha fatto anche la Lazio con Stefan De Vrij, prendendolo dal Feyenoord dopo lo svezzamento nelle giovanili e già oltre 100 partite nell’Eredivisie (l’esordio a diciassette anni) e pure un ottimo Mondiale (votato come migliore nel suo ruolo). È un punto in comune e anche un controsenso: l’Italia che non sempre fa compiere ai suoi giovani migliori il percorso dalle giovanili alla prima squadra (è ultima tra le top league europee per impiego di club-trained players), ha però l’intuito di presentarsi per prima quando crescono i giocatori delle altre. Per avere qualità, ovviando alla falla del nostro sistema pallone, non in grado di accompagnare i giovani fino al lancio tra i grandi, spendendo somme possibili per casse più o meno disastrate. Così la Lazio, con De Vrij, ha trovato il suo Ministro della Difesa spendendo poco più di otto milioni di euro. Un titolare (sempre: 23 presenze, tutte dall’inizio, e quelle saltate solo per squalifica o acciacchi) di ventitrè anni appena compiuti e con almeno altri tre anni di contratto. Mai messi in discussione, nemmeno quando De Vrij è arrivato in Italia e la prima difficoltà incontrata era non trovare moltissimi in grado di parlare inglese («Lo chiedo ai compagni, ma è raro che mi diano retta»), un po’ invalidante anche nell’inserimento in squadra di un ragazzo sul quale le aspettative erano così alte da far correre centinaia di persone all’aeroporto il giorno dell’arrivo, all’una di notte. Lui sorpreso, ma anche chi lo accolse, perché si scoprì aveva già imparato i nomi di tutti i nuovi compagni di squadra. Altezza e nazionalità riportano i laziali ai tempi di Jaap Stam, ma è curioso che – per spiegare come la tendenza a prendere talenti nasca da un bisogno – sia arrivato una volta che la Roma aveva soffiato Astori alla Lazio. Come Morata, che la Juve ha preso quando si è vista sfuggire Iturbe (andato, anche lui, alla Roma).

De Vrij esulta dopo il gol realizzato contro la Spagna, al Mondiale 2014. Paul Gilham/Getty Images.
De Vrij esulta dopo il gol realizzato contro la Spagna, al Mondiale 2014. Paul Gilham/Getty Images.

Se i novantadue sono arrivati adesso, giovani e forti, tra i novantatrè c’è chi ha visto prima, lungo. Persino Pogba e Icardi, prossimi ventiduenni, sono colpi da periferia dell’impero: solo che è una periferia furba, che un po’ riesce a intercettare campioni in prospettiva e in uscita, a costi sostenibili. Ad esempio per questo arriva Pogba: perché Ferguson non ha il coraggio di puntare su di lui, preferendo l’usato sicuro di Paul Scholes quando torna al calcio giocato dopo il primo annuncio di ritiro. (Non c’è rinnovo con lo United e la Juve nell’estate 2012 può prenderlo a costo zero e costruire su lui un presente di successi e, nella peggiore delle ipotesi, quella della partenza, un futuro molto più ricco per i soldi che incasserebbe dalla cessione: buoni per rifare mezza squadra). E pure Icardi arriva alla Samp (e ora all’Inter) perché Guardiola non vuole promuoverlo nel Barcellona dei grandi dalla seconda squadra riformulando, a costi irrisori, il passaggio di Morata alla Juve: dalla squadra B ai grandissimi d’Europa c’è l’Italia. Con la Samp che prima lo prende in prestito, poi lo riscatta con trecentomila euro. Un affare, anzi due se torniamo a Pogba: due campioni figli dell’intuito e dell’emergenza (perché a cifre più altre sarebbe stato tutto più complesso), una sorta di raccolta differenziata dei talenti che rende molto. L’Italia, non può permettersi di non crederci: non può buttare un talento come il Manchester quando rinuncia a Pogba, ma deve attendere. Come ha atteso la Lazio per Felipe Anderson (altro novantatré), quasi un anno per capire e la forza di pensare che quel ragazzo portato dal Santos in Europa e soffiato tra le altre anche al Milan (che aveva mandato Braida a visionarlo) non doveva essere mandato altrove a maturare. In estate stava per andare in prestito come un irrealizzato qualunque e invece poteva realizzarsi solo con un po’ di pazienza, con l’attimo buono da cogliere, con la scintilla (i gol, in Coppa Italia e subito dopo in campionato) da far scoccare.

E toccherà adesso avere pazienza per Iturbe, novantatré pure lui, arrivato in prestito in Italia (al Verona, dal Porto, che lo ha preso e praticamente sempre girato ad altre, prima al River Plate) e riscattato a quindici milioni per essere venduto alla Roma (forse causando la rottura tra Juve e Conte). Iturbe è costato nel complesso 23,6 milioni alla Roma (stando ai dati dell’ultima semestrale), è partito forte, si è dato da solo della pippa quando ha capito di aver deluso le aspettative, sembrava essere tornato e poi si è fatto male: va rimandato.

Anche in questo caso bisogna avere pazienza: quella che ha avuto il Palermo con Dybala, preso due anni fa pagandolo come mai nella sua storia (dodici milioni di euro) e con una resa bassa il primo anno (solo undici presenze da titolare in A, sedici dalla panchina, tre gol). E in B, l’anno dopo, nemmeno guizzi memorabili, visto i cinque gol segnanti, che quest’anno aveva fatto in A già il 24 novembre, per dire il cambio di passo. Ora in tutto ha segnato dodici gol, fatto decine di assist, giocato sempre da titolare (venticinque su venticinque, l’unica saltata è per infortunio), formato con Vázquez una coppia che il Palermo ha e poche altre in Serie A possono vantare.

Ma Dybala ora è tentato dai colossi stranieri, Zamparini vuole quaranta milioni e pensa sia una provocazione, ma Psg e altre (tipo il Barcellona, che Dybala ha detto raggiungerebbe anche a nuoto) quei soldi li hanno. Come possono averli per Pogba, per Morata, per Salah. Quella che è stata una forza (avere pochi soldi) e ha portato in Italia giovani belli da vedere, ora rischia di diventare di nuovo una debolezza (perché sul mercato con le altre non possiamo competere). Ma almeno abbiamo visto giocatori in grado di divertire. E dalle cessioni, arriverebbero altri soldi. Quando si dice la virtù, dalla necessità.

 

Nell’immagine in evidenza, Salah contro la Juventus, in Coppa Italia. Valerio Pennicino/Getty Images