Anna conduce

Ha iniziato a bordocampo e lì si è innamorata degli stadi. Il volto di Sky Sport, Anna Billò, racconta di calcio, del Brasile, di Ibra, di cosa significa passione e di cosa significa sociologia (applicate al pallone). E di come funziona il suo lavoro, la nuova avventura nella European Week.

Anna Billò fotografata per Undici da Andy Massaccesi
Anna Billò fotografata per Undici da Andy Massaccesi

chi ha vissuto in tanti stadi si può chiedere persino in quale di questi vivrebbe. La risposta vale: «Ad Anfield. Perché dentro avverti qualcosa di molto forte, ti senti parte di tutto quello che accade, anche da straniera, anche senza avere una squadra che gioca lì. Ti senti coinvolta, abbracciata. Come a casa, con dei rumori bellissimi». Quando Anna Billò rompe gli argini di una timidezza che non le riconosceresti comincia a travolgerti per la foga buona con cui parla di calcio, prima scoperta, poi passione, infine lavoro senza smettere di essere scoperta e passione. È da dieci anni a Sky, catapultata da bordo campo agli studi, dal Genoa alle qualificazioni agli Europei, alla conduzione di una delle novità del calcio internazionale e televisivo. Nei weekend delle nazionali lei conduce, si agita, segue tutto, rintuzza ospiti illustri, dialoga, legge formazioni, analizza cambi, blandisce scalette che però poi sono stravolte da quanto accade sul campo. In uno di questi lunghi fine settimana di pallone si ferma un attimo, nel palazzone di Rogoredo, e si racconta.

È l’incrocio di due bellezze: sua e di quello che segue. «Il calcio mi piace, mi diverte. È un amore trasmesso da mio padre, che invece ha fallito la missione con mia sorella: lei, la vera sportiva di casa, ha scelto la pallavolo. L’ho fatto felice, anche se non ci ho mai giocato se non nelle ore di educazione fisica, a scuola. Con i maschi». Sì, è donna (ovviamente), è la moglie di Leonardo e ha ricevuto la dichiarazione d’amore in diretta Tv. Ma c’è un mondo oltre Google e le ricerche infruttuose di spigolature particolari di chi ama la propria riservatezza nonostante tutto. E seduti a un tavolino ci sono invece sorrisi e palloni. C’è calcio da raccontare, senza darsi un ordine perché il legittimo trasporto non richiede niente di lineare: «A me il calcio è sempre piaciuto come grande fenomeno popolare, come modo di vivere di ogni nazione. L’ho capito soprattutto quando sono andata per la prima volta in Brasile, nel vecchio Maracanã, e ho visto una grandissima passione, ad esempio. Ma solo il tempo della partita, che da noi invece dura una settimana. Oppure in Francia, dove la percezione è che sia uno sport del popolo, ma nel senso snob del significato. Le caratteristiche di una nazione si possono facilmente trovare poi nel calcio. E quello che ti dà uno stadio non è replicabile: ci arrivi per passione, per tifo, magari diventa un lavoro e perdi un po’ il tifo, ma resti sempre lì dentro e non te ne andresti mai».

«A me il calcio è sempre piaciuto come grande fenomeno popolare, come modo di vivere di ogni nazione. L’ho capito soprattutto quando sono andata per la prima volta in Brasile»

 

Le scale della carriera percorse una per volta, il volto semplice di chi non è stata catapultata all’improvviso in una realtà non sua, ma prima si è appropriata di tutto, vivendolo: dal giornale (Corriere dello Sport, «scrivevo di calcio femminile»), alla radio (RadioRadio, «dove ho imparato ad ascoltare i grandi giornalisti della carta stampata»), a Sky («è stato come scartare il regalo dei sogni»). Anche in Tv, poi, dal campo allo studio: «Ho temuto la freddezza, quando sono arrivata in studio: mancava l’emozione, il calore, le persone, tutto quello che c’è in uno stadio. Però era anche una sfida che volevo, non solo una scelta aziendale condivisa. Vedere le partite dal campo resta bellissimo, però cambi anche tu, cambiano le tue visioni. E, quando diventi mamma, cambiano anche molte priorità».

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Foto di Andy Massaccesi

Sembra di essere in una stanza circolare (ma non lo è) e vuota (ma non lo è), perché la sensazione è che ci sia un’eco lenta e in grado di fare il giro fino a riportare la parola “stadio” nel mezzo della chiacchierata. Eterno punto di ripartenza. Perché è da dove tutto è cominciato: il suo calcio è soprattutto quello: «Il motore è la curiosità: all’Olimpico, le prime volte, ho visto scene che non ero in grado di immaginare. Avverti emozioni anche se non c’è la tua squadra, è una sorta di catarsi: pensi che nello stadio tu possa fare cose che in realtà non hanno senso, eppure le fai. Perché la signora distinta accanto a me urlava contro l’arbitro anche se la sua voce non sarebbe arrivata mai? È questo, soprattutto, il mio modo di stare dove il calcio si gioca: è quella forza bellissima che ti porta a essere meno attento ai protagonisti e più a chi li segue». È la tesi di Gesualdo Bufalino secondo cui «sociologo è colui che va alla partita di calcio per guardare gli spettatori» epperò non è nemmeno necessario essere sociologi (anche se Anna è laureata, in sociologia), ma appassionati, gente del mestiere, entrambe le cose, per cogliere l’aspetto coinvolgente del pallone e averlo come chiave di lettura delle società, e delle persone. Persino dei calciatori: «Le interviste da bordo campo spesso non sono memorabili: chi deve parlare ha appena giocato, è carico, o scarico, di certo stanco. Però anche in quel caso guardavo la faccia del giocatore, cercavo di capire. È stato uno studio continuo». Poi c’è la tattica: il calcio è sì passione, ma abbisogna anche di altri argomenti per essere raccontato nei luoghi quasi sacri del pallone televisivo: «Lavorare aiuta, farlo con grandi professionisti è anche meglio: ho sempre appreso da chi ne sapeva di più, poi mi sono sempre aggiornata per restare in linea con il calcio che cambiava, per non commettere errori. Anche noi, come chi va in campo, dobbiamo sempre puntare a sbagliare il meno possibile. Sul piano della personalità è stato forse fondamentale l’impatto con Vavassori al Genoa: mi ha subito trattata con grande rispetto, come gli altri, non come una ragazzina alle prime armi. E sono cresciuta senza complessi di inferiorità».

L’ora dello studio è più vicina, le partite della European Week incalzano e le domande si fanno serrate. Partendo da un numero spropositato di interviste fatte e da raccontare: «Non ho mai pensato che fare domande ai calciatori o agli allenatori sia inutile, o che le risposte siano sempre per forza scontate: dipende sempre dalla persona che parla. Se è Zeman, ad esempio, ogni risposta è da ascoltare. Oppure ci sono giocatori in giornata. Poi, ho uno splendido ricordo di una mia intervista a Ibrahimovic, che forse scelse proprio quell’occasione per dire molto di più, magari convinto dalle tante volte in cui ci siamo incrociati a bordo campo. Mostrò un altro lato del giocatore che vediamo spesso solo come arrogante e fortissimo, venne fuori il suo vissuto, parlò un ragazzo che fatica a uscire».

Ibra è uno dei campioni passati dal campionato italiano e ora ricordo lontano.  È forse il simbolo di un pallone, il nostro, senza appeal: «Il calcio italiano deve crescere, guardare agli altri modelli, ispirarsi all’estero: ormai Premier, Liga e Bundesliga ci sono indubbiamente superiori, siamo a livello della Francia e non lo interpreterei come un complimento. Abbiamo stadi che non sono funzionali, brutti, che esistono per il tempo della partita e basta. Non ci rinnoviamo, non puntiamo su facce nuove e giovani». Infatti c’è Tavecchio: «Avessi avuto diritto di voto non avrei votato per lui. Ma ora è il presidente della Figc, e chi ha a cuore il nostro calcio deve volergli un po’ bene e aiutarlo».

«Non ho mai pensato che fare domande ai calciatori o agli allenatori sia inutile, o che le risposte siano sempre per forza scontate: dipende sempre dalla persona che parla»

Il sogno è un Mondiale da seguire da vicino («nel 2006 ero arrivata da poco, nel 2010 ero agli inizi dell’avventura in studio, quest’estate ero diventata da poco mamma di Tomas e l’ho seguito con il piccolo Tiago davanti alla Tv, da spettatrice. Abbiamo tifato prima per l’Italia, poi per il Brasile: una tragedia»), l’idea di rivivere in scala ancora più ampia la bellezza della partita che non dimenticherà mai: «La finale di Champions dell’Inter a Madrid con il Bayern è ciò che della mia carriera ho messo al primo posto: il Bernabeu, visto dal campo, era bellissimo e pieno. Poi facemmo tre giorni di speciale e quindi andai lì cinque giorni prima. Era fantastico vedere le persone mescolarsi: arrivavano i tedeschi, poi gli italiani, c’erano gli spagnoli. Avevi la sensazione di essere al centro di qualcosa di significativo». Magari non di rivivere la partita che rimuoverebbe, invece: «Samb-Genoa, quando ci furono scontri tra le due tifoserie e la polizia fuori dallo stadio: andai fuori per raccontare e seguire tutto. Non ebbi paura, ma partendo dal presupposto che il calcio è un grande divertimento per me, la cancellerei volentieri. E voglio continuare a pensare che i miei figli vadano alle partite per divertirsi. Come me». Anche in questo caso, erano stadi. E si ricomincerebbe daccapo, se non fosse il momento di prepararsi alla diretta. Dunque di riunirsi, sistemare i dettagli con cura maniacale, farsi la coda perché in studio ama stare così, scambiare le ultime parole con il suo mentore e amico Massimo Corcione (ora managing director di Sky) prima del via, allargare il sorriso perché il momento arriva e ci sono tante partite da seguire, e per chi vive di pallone le partite sono un sorriso.

L’European Week si gioca, Anna conduce anche a telecamere spente, quando parla con sapienza di formazioni e moduli, mentre è in onda ma anche prima capisci che la sua non è competenza costruita a favore di telespettatore, ma proprio un modo di credere nel pallone, una continua curiosità. Parla di calcio. E del suo spazio in Tv: «Sono partite bellissime, le qualificazioni all’Europeo. C’è molto seguito: è un successo legato al discorso culturale, alla visione del calcio, all’interesse che si allarga. E poi le Nazionali sono anche il giocatore della tua squadra che va in campo». Deve andare, ma non fermerebbe il nastro del racconto, perché il lavoro della tua vita non stanca. Fa felici, anzi. Qualche volta diventa famiglia  (e questa è “qualche volta”). Ah, ma se spente le telecamere, finita la lunga giornata, e fuori dagli studi qualcuno volesse parlare di calcio? «Ci parlerei. L’ho già detto che mi piace tanto?». 

Dal numero 3 di Undici