Bojan alla rovescia

Perché la carriera del vecchio "nuovo Messi" ha preso la direzione sbagliata.

Bojan, ma quanti sono? Qualcuno ha tenuto il conto? 648, giurano. No, sono di più: in otto anni ne ha segnati 889. Un bimbo dai numeri giganteschi. Anzi, impossibili, persino da contare: non c’è una stima certa su quante reti abbia messo a segno nella Masia del Barcellona. Nessun ragazzino ha segnato più di lui nella storia della cantera blaugrana e questo ha contribuito a creare un alone di mito attorno alla sua figura. Come un Pelé in versione pop catalana. Condividere la leggenda e non farne parte.

In un articolo comparso qualche mese fa su repubblica.it, Bojan, oggi tesserato per lo Stoke City, è al settimo posto tra i calciatori più sopravvalutati degli ultimi anni. «Non riesce a svegliarsi nemmeno in Olanda, quindi il Barça, nel 2014, se ne libera a titolo definitivo». Chi ha fatto addormentare l’attaccante di origini serbe (il padre era calciatore nella vecchia Jugoslavia)? È fin troppo banale la storia del calciatore lanciato troppo giovane e poi bruciatosi, un Icaro volato troppo vicino al sole senza avere ali abbastanza resistenti da non sciogliersi. La precocità è un fatto, non necessariamente un ostacolo. Bojan è il giocatore più giovane della storia ad aver esordito in Champions League (a 17 anni e 25 giorni), nonché il più giovane marcatore del campionato spagnolo di tutti i tempi (17 anni e due mesi, scippando il primato a Messi). Nella stagione del debutto, annata 2007/2008, con Frank Rijkaard, colleziona 48 presenze stagionali, partendo 20 volte da titolare, mettendo a segno 12 gol. In tutto rimane in campo per 2.223 minuti. Numeri che confermerebbero come il 17enne Bojan si trovasse a proprio agio al fianco dei vari Ronaldinho, Messi, Eto’o, Henry, anche se in quella stagione i blaugrana non vinsero nulla. È subentrato dell’altro, evidentemente, e va ricercato in una strana tendenza di Bojan nel peggiorare, di stagione in stagione. Come se, anziché crescere, lo spagnolo si involvesse, si rimpicciolisse, il Benjamin Button del pallone.

Quando Bojan arriva in prima squadra, non sembra il classico ragazzino a cui sudano le mani. È il 16 settembre 2007, terza di campionato nella Liga: il Barcellona gioca sul campo dell’Osasuna. A undici minuti dal termine, sul punteggio di 0-0, Rijkaard lo manda in campo per la prima volta. Nessuno crede che possa decidere la partita, e infatti non lo fa. Fa di più: nella squadra di Ronaldinho, si sostituisce a Ronaldinho. All’ultimo minuto, gli arriva un pallone in area di rigore: è leggermente lungo, così quando ci arriva ha già il portiere che gli chiude lo spazio. Il 90 per cento dei giocatori, e a maggior ragione uno che nella Liga ci è arrivato da dieci minuti, calcerebbe verso la porta, al massimo con un colpo sotto, se è furbo e ci sa fare col pallone. Bojan non fa nulla di tutto questo: si porta avanti il pallone con una bicicletta per superare il portiere. È un gesto inconsulto, illogico, ancora più scorretto se a farlo è una matricola. Ma siamo negli anni in cui il Barcellona è Ronaldinho, uno che in campo spesso se ne fregava della giocata semplice ed efficace perché preferiva numeri ad alto coefficiente spettacolare. Bojan in quel momento dice: eccomi qua, sono al livello di Ronaldinho, posso diventare, anzi sono già come lui. E infatti cosa fa la regia spagnola, subito dopo che l’azione si risolve in un nulla di fatto? Dirotta la telecamera verso la panchina blaugrana e inquadra il brasiliano. Hai concorrenza da queste parti, amico.

È pura incoscienza, quella di Bojan. Però positiva: perché svela la più cieca fiducia nei propri mezzi. Si presenta così, con una giocata d’alta scuola, perché può permetterselo. E al tempo stesso non respinge la pressione, ma l’attrae verso di sé. Anche se non sa che cosa sia: «Quando hai 17 anni, non ti rendi conto di cosa sia la pressione. Sei lì, giochi nella squadra più forte in un grande stadio con grandi giocatori. Ora che guardo dietro, mi rendo conto di quanto tutto questo sia difficile per un ragazzo di 17 anni». Così, man mano che la stampa spagnola comincia a celebrarlo e in molti gli affibbiano già l’etichetta di “nuovo Messi”, lui non si spaventa. «Apprezzo gli elogi ma non avverto nessun tipo di pressione. Quando entro in campo penso solo a giocare come fatto fin qui». Quella incoscienza lo ha aiutato a lungo nella sua crescita professionale. Lo racconta anche nella sua autobiografia, El meu Barça: «Nel calcio bruciavo le tappe senza che me ne rendessi conto. I miei progressi erano enormi, ma di molte cose non ero consapevole perché tutto procedeva così rapidamente. Arrivare in prima squadra è stato un sogno divenuto realtà: in me c’era un miscuglio di emozioni talmente forti da non farmi essere del tutto cosciente su quello che mi stava succedendo».

Anche se, intorno a lui, tutto cambia. Ancora nell’autobiografia ricorda il suo debutto in prima squadra, in un’amichevole disputata in Egitto. «Avevo 16 anni, entrai in campo e segnai. Però non avrei mai pensato a cosa sarebbe successo a partire da quel momento. Quando, dopo un paio di giorni, tornai a Barcellona, la gente per la strada mi osservava, mentre prima ero solo uno sconosciuto». Il giorno dopo quel 4-0 rifilato all’Al-Ahly, la stampa catalana è scatenata: «Non si tratta di voler creare pressioni inutili, ma nei 45’ in cui è stato in campo Bojan ha mostrato le stesse qualità di Messi: una grande familiarità con il gol», scrive Sport. «Il ragazzino che zittì uno stadio», titola El Mundo Deportivo, e lui di rimando ricorda: «Non ero mai stato in uno stadio tanto grande e con così tanta gente».

Nel 2007, in un’amichevole in Egitto, Bojan gioca per la prima volta con la prima squadra e va subito in gol

Nell’estate del 2008, però, dopo una stagione prodiga di presenze in campo e complimenti, arrivano i primi segnali discordanti: Bojan rifiuta la convocazione agli Europei con la Spagna. «Era il mio primo anno con la Roja, soffrivo di crisi d’ansia e non volevo disputare una competizione così importante in quelle condizioni», spiega. Purtroppo per lui, la Selección la ritrova solo per 56 minuti, in una partita di qualificazione ai Mondiali contro l’Armenia, subito dopo la spedizione vincente in Austria e Svizzera. Eppure c’è qualcosa di contraddittorio: perché il ragazzino non avverte le medesime ansie a Barcellona? Lì, più che un ambiente noto e familiare, c’è qualcuno a fare da parafulmine ai suoi timori di gioventù: Frank Rijkaard. «È il miglior allenatore che abbia mai avuto, perché mi ha lanciato e poi perché mi ha sempre fatto sentire la fiducia. Ha una grande personalità e sotto il profilo umano il rapporto che ho avuto con lui non l’ho avuto con nessun altro».

È tutto lì il tesoretto di Bojan: la fiducia incondizionata da parte del tecnico olandese. Ma Rijkaard a fine stagione se ne va, e con Guardiola cambia tutto. In una delle prime interviste, nell’ottobre del 2008, Bojan dice: «Per me è importante essere pronto ogni volta che vengo chiamato in causa. A poco a poco, devo conquistare la fiducia del mister». La situazione è completamente nuova: Bojan non ha più la fiducia dell’allenatore, ma deve guadagnarsela. Non ci riuscirà: il rapporto con Guardiola è un disastro. Colpa anche di quel suo carattere così introverso. «Tutte le volte che volevo parlare con lui non mi uscivano le parole». E il tecnico catalano non se ne cura particolarmente: per lui Bojan potrebbe tornarsene in seconda squadra, il materiale a disposizione in attacco è talmente vasto e qualitativo che la sua presenza risulta superflua. «Non ho avuto occasione di schierarlo titolare», dribbla con fastidio la questione quando gliela pongono. Però per Guardiola sta diventando un grosso problema. Perché mediaticamente il ragazzo stimola grande interesse e perché è la società blaugrana stessa a farne un uomo da copertina: nel 2010, sulle spalle di Bojan finisce la maglia numero 9 e il suo nuovo contratto prevede una clausola di rescissione da 100 milioni di euro. In qualche occasione gli fanno indossare la fascia da capitano. Tutto questo è una zavorra per Guardiola, che deve badare agli interessi di squadra e non vuole perdere tempo con la crescita professionale di un singolo atleta. Così sceglie la strada peggiore: riversa il proprio malumore sul giocatore. In una cena, alla presenza dei genitori di Bojan, il tecnico gli rinfaccia di essere poco combattivo: così non va, caro ragazzo. L’attaccante ha bisogno di fiducia, non di rimbrotti: quella è la mazzata definitiva su un rapporto mai decollato. Come se non bastasse il minutaggio sempre più ridotto: 1806 minuti il primo anno, 1545 il secondo e 1571 il terzo. Con Rijkaard, al debutto, aveva sfondato quota 2000. E poi non parte quasi mai titolare: tra Liga e Champions il suo massimo con Guardiola sarà 12 volte, nella stagione 2009/2010, a fronte delle 9 dell’annata precedente e delle 10 di quella successiva. L’ultimo anno segna appena sette reti e a quel punto non può fare altro che cambiare aria, passando buona parte del suo tempo a sparare a zero sul suo vecchio allenatore.

«Guardiola è stato il motivo per cui ho lasciato Barcellona. Non mi prendeva mai in considerazione, qualsiasi cosa facessi. Fin quando ci sarà lui su quella panchina, io non tornerò mai a Barcellona». E ancora: «Non ero felice, non avevo nemmeno stimoli di allenarmi. Un conto è non giocare, un altro è non sentirsi parte del gruppo. Se mai Guardiola dovesse richiamarmi a fine stagione, gli direi di no. Quando ho lasciato Barcellona, ho salutato tutti quelli che si sono comportati bene con me. Non ho salutato Pep e non ci siamo sentiti per tutta l’estate».

Quando pronuncia queste parole, Bojan è già a Roma, al seguito di Luis Enrique. Ma nulla sarà più come prima: la vecchia incoscienza che lo aveva reso forte è evaporata del tutto. Le cose non filano più veloci come una volta, ma in una lentezza che dà tormento: Bojan ha avuto modo di riflettere a lungo sulla sua carriera e capire come questa lo avesse proiettato all’indietro, anziché in avanti. Dimostrare di essere da Barcellona ma in ritardo, non a 17 anni ma a 22, 23, 24 anni, e fare il percorso andata e ritorno da e per il Camp Nou è più complicato di un biglietto di sola andata per il paradiso. La pressione lo travolge tutta insieme, in un’unica soluzione. «Quando giochi per una grande squadra, hai bisogno di ottenere risultati ogni giorno, soprattutto se arrivi dal vivaio. Non era facile. Ma non ho rimpianti. Ho imparato dai migliori, Messi, Xavi, Iniesta. Il mio unico rammarico è aver perso parte della mia infanzia. Questa è una delle cose che mi ha toccato di più. Mentre i miei amici andavano ancora a scuola, per me da una notte all’altra la mia vita è cambiata completamente».

Le scelte non lo aiutano. Passa in prestito alla Roma, partita con discrete ambizioni: finirà settima e presa di mira dai tifosi. Bojan gioca con continuità, ma sempre spezzoni di gara: in campionato sono appena quattro le partite che gioca per intero. Alla fine segna sette gol, nessuno realmente decisivo o memorabile. È più ricordato per il rosso che becca a Firenze: con la Roma sotto 2-0, respinge con le mani un tiro di Nastasic diretto in porta. Sulla via per gli spogliatoi, scaraventa per terra la maglia. «Per me la maglia della Roma è grande», si scusa con i tifosi inferociti. «L’ho buttata via in un attimo di rabbia: ero nervoso perché la partita era andata male e perché avrei saltato la Juve». E quando le cose vanno male, le accuse si moltiplicano: «È vero, mi hanno tolto la patente due volte. La prima perché non conoscevo bene il codice della strada. La seconda invece non ho fatto niente. Ma è successo alle undici di sera, non alle tre di notte come ha scritto qualcuno».

Ma il grande cruccio è sempre lo stesso: il rapporto con l’allenatore. Che con Luis Enrique peggiora via via: nel girone di ritorno scende in campo da titolare in appena cinque occasioni. Piagnucola: «Voglio togliermi l’etichetta di bambino prodigio di dosso». Non essere più considerato un gingillo da custodire in una teca ed esibire sporadicamente. Bojan ormai ha 21 anni, il tempo gli sta scivolando via dalle mani e lui è pronto a sporcarsi di fango, pur di dimostrare il suo valore. Ma forse non lo dà abbastanza a vedere, ed esterna i propri pensieri a scoppio ritardato: «Luis Enrique era poco comunicativo. Non parlava mai con i giocatori durante la settimana», dice nell’occasione in cui gli diede la colpa del mancato passaggio di Verratti in giallorosso. Quando, a fine stagione, si trasferisce al Milan, a Roma è arrivato Zeman. Ce n’è anche per lui: «È stato detto che non mi ero inserito bene nel gruppo, ma avevo dimostrato di meritare di giocare. Invece anche nelle amichevoli è successo che io stessi bene ma poi finivo lo stesso in panchina».

Però non tutto è da buttare nella sua avventura giallorossa. Non ha avuto grosse possibilità di mettersi in mostra, ma lo spazio che si è ritagliato è bastato per farsi apprezzare dai tifosi romanisti: «Sin dal primo giorno mi sono subito sentito come a casa, grazie anche all’affetto dei tifosi. A Roma mi sento amato e protetto, un po’ come al Barcellona: la differenza è che qui i tifosi ti mostrano il loro affetto in modo più spontaneo». Sul finire della stagione, ai cancelli di Trigoria lo spagnolo trova uno striscione per lui: «Bojan, l’angelo giallorosso: crediamo in te». Quando passa al Milan, l’ira dei tifosi è palpabile: nessuno è contento della cessione, per tutti quello è un incredibile regalo che si fa a una diretta concorrente.

Il Milan sarà il suo punto più basso. Un’altra scelta non felice, l’arrivo in una squadra già in forte ridimensionamento dopo le partenze di Ibrahimović e Thiago Silva. Gioca 19 gare in campionato, parte solo cinque volte da titolare e segna solo tre gol. Da marzo fino a fine stagione, trascorre in campo 35 minuti. Dimenticato e accantonato. C’è sempre qualcuno davanti: El Shaarawy, Niang, Robinho, Boateng. Sembra che il Milan non lo abbia fatto più giocare per non fargli raggiungere un quorum di presenze che avrebbe reso obbligatorio il riscatto del cartellino. A questo punto è evidente come Bojan abbia perso non solo la fiducia degli altri, ma anche quella in se stesso. È un simulacro di ricordi ingialliti e speranze svanite: quando il suo peregrinare tocca le sponde dell’Ajax, il tecnico de Boer lo etichetta subito come “top player”. Ma non è quella la strada giusta per ritrovare Bojan: non ha le spalle abbastanza larghe per sopportare responsabilità di questo tipo. Vede di più il campo rispetto alle stagioni italiane, ma non rende mai davvero al meglio. Le spiegazioni di de Boer non convincono appieno: «Ha avuto qualche problema fisico e non ha i novanta minuti nelle gambe» oppure «Deve allenarsi di più». Alla fine, segna appena quattro reti in campionato. L’Ajax non lo riscatta. Non sono i primi a farlo.

È il momento in cui Bojan capisce di dover cambiare rotta. Sgombrare la sua testa, innanzitutto. La scorsa estate, per liberarsi di un peso che non aveva la forza di trascinare, decide di divorziare di comune accordo con il Barcellona, interrompendo un sodalizio lungo 15 anni. Accetta lo Stoke City, squadra di metà classifica in Premier League, una società che in 152 anni di storia ha vinto meno dello spagnolo in sei mesi di carriera. Un club che non gioca le Coppe europee e dall’appeal scadente: negli anni passati qualcuno lo ha accostato alla “Crazy Gang”, il Wimbledon di fine anni Ottanta-inizio Novanta, la cui peculiarità era essere composta da una squadra di picchiatori più portata per il rugby che per il calcio. Una realtà lontanissima dai canoni estetici e sopraffini dei blaugrana, di chi metteva la bellezza e la ricercatezza del gioco sopra tutto. Lo Stoke City lo paga appena 1,8 milioni di euro.

Sembra un finale triste. Crescere nel quartiere più sfarzoso della città e poi ritrovarsi a coltivare i propri sogni in un sobborgo micragnoso e scalcinato. Ripartire da zero e annerire il ricordo dei nobili natali. Essere uno dei tanti, nonostante un palmarès di tre campionati, due Champions, una Coppa di Spagna, tre Supercoppe, una Coppa del mondo per club, due campionati europei under 17. Ma non c’è nulla di necessariamente triste in tutto questo. Bojan ha tagliato definitivamente con il passato, e oggi è autenticamente libero. A differenza delle precedenti esperienze, si è accasato in una squadra dove non c’è nessun assillo di stare in alto. E in un Paese dove nessuno si aspetta qualcosa da lui: «Ricordo quando Thierry Henry arrivò al Barcellona, dopo dieci giorni pensò: “Cazzo”. Lui aveva giocato a lungo in Inghilterra, dove la gente non viene agli allenamenti e i giornalisti si fanno vedere una volta alla settimana. A Barcellona è diverso: ci sono 5.000 persone ad assistere agli allenamenti e giornalisti ogni giorno. È tutto profondamente diverso. Io amo la passione che c’è a Barcellona, ma, come in Italia, la gente non rispetta i calciatori. In Inghilterra è meglio, si vive con più tranquillità». Nessuno lo chiama “bimbo prodigio” o “nuovo Messi”. E a lui va benissimo così.

Ha ritrovato, dopo tantissimo tempo, quel qualcosa che aveva inseguito a lungo: il supporto dell’allenatore. Mark Hughes lo ha voluto a tutti i costi e gli ha ritagliato un ruolo centrale. «Ama Mark, le sue sessioni di allenamento sono molto creative e in campo ha la libertà di esprimersi al meglio», ha detto il padre di Bojan. A novembre si è conquistato il posto da titolare in pianta stabile, senza mai più mollarlo. Ed è tornato a giocare su alti livelli. Le sue prestazioni hanno raccolto un vasto consenso e i tifosi dello Stoke lo hanno eletto subito a proprio beniamino. Nei meccanismi della squadra, la sua imprevedibilità si è rivelata decisiva per spingere in alto i “Potters”. Si è messa di mezzo la sfortuna per frenarlo: a gennaio, contro il Rochdale in Fa Cup, lo spagnolo si rompe il legamento crociato, che gli fa terminare anzitempo la stagione. Proprio pochi minuti dopo aver segnato un gol fantastico.

Il bellissimo gol di Bojan al Rochdale. Pochi minuti dopo è vittima dell’infortunio che mette fine alla sua stagione

Resta la convinzione di avere di fronte un giocatore di grande qualità. In fondo, a chi importa se Bojan non diventerà mai un fenomeno del Barcellona o di un’altra corazzata del calcio mondiale. Forse nemmeno a Bojan. Forse c’è qualcosa di più importante di diventare un campione affermato a tutti i costi. Forse la felicità sta in altro. Ed è quello che va ripetendo suo padre: «Mio figlio ha sofferto molto per il calcio. Troppo. Nello Stoke è contento ed era tanto che non lo vedevo così felice. E per un padre è una sensazione che riscalda il cuore».