Nel mondo del calcio è in corso un passaggio storico, un po’ come dal medioevo all’umanesimo. Siamo ancora alla fase embrionale: i primi semi sono impiantati nel tessuto finanziario-gestionale, possono sfuggire agli occhi del tifoso distratto. È il dietro le quinte, quello che serve per mandare avanti lo show. In un modo diverso da come finora i club hanno fatto. Piano piano cambierà anche la struttura stessa del palcoscenico. E, alla fine, attirerà in platea persino un pubblico differente.
Questa, almeno, è la previsione di chi della prima fase della rivoluzione è stato in gran parte regista in due grossi club come l’Inter dell’era Thohir e la Roma di James Pallotta.
Sono passati poco meno di due anni da quando l’imprenditore indonesiano è diventato azionista di maggioranza e presidente della società nerazzurra, pagando 250 milioni di euro e accollandosi debiti per circa 180 milioni. I conti andavano risistemati: Riccardo Agostinelli è l’avvocato che ha affiancato Goldman Sachs sotto il profilo legale nell’operazione di rifinanziamento del debito.
Nel frattempo, da otto mesi il suo cognome si è aggiunto a quello dei soci dello studio Gattai&Minoli di Milano. Ed è qui, in un palazzo del centro che potrebbe essere un museo, che lo raggiungo. È il pomeriggio del 30 aprile: nello stesso momento, a pochi chilometri di distanza, un altro storico proprietario dell’altra squadra di calcio della città sta per avere un colloquio con un possibile acquirente. L’incontro tra Berlusconi e Mr. Bee poi slitterà. Ma in quel momento ancora non lo sappiamo, perciò intanto è su questo che inevitabilmente scivola la conversazione: entrambe le squadre della città potrebbero presto avere un proprietario straniero, proveniente dal ricco Far East.
Agostinelli va dritto al sodo, perentorio: «Il trend cui assistiamo è quello dello spostamento da una visione padronale a una più istituzionale e internazionale. Dico “padronale” con una connotazione non necessariamente negativa, sia chiaro», precisa mettendo le mani avanti come un politico navigato. Fino a ieri c’era il signorotto che fa felici i sudditi con il suo shopping di grandi campioni, «usando la squadra come veicolo di consenso: penso non solo al Milan, ma anche a tantissimi club che ancora hanno un “padrone”». L’obiettivo era semplicemente vincere, anche a livello di immagine. Essere l’imprenditore forte dalle cui tasche viene fuori la squadra forte, l’uomo che porta i gladiatori migliori nell’arena del campo da gioco. Nessuno che si preoccupi del financial fair play. «È un approccio tradizionale, direi “passionale”: di fronte a una partita persa il patron dice ai suoi: “Porca vacca, vai e compra il campione X”, poi con le banche ci penso io», mima Agostinelli. Imita, da genovese che vive da anni a Milano, quel certo tono da baùscia. Il nome del patron come garanzia: «I debiti dell’Inter erano debiti di Moratti. Banche, fornitori, giocatori, sapevano che sarebbero stati pagati perché c’era dietro lui». Nessun giudizio di valore, però, insomma, così è un po’ «un giocattolo». È lo stesso approccio, dice come se fosse al bar con gli amici, «di chi ama le barche: spende e spande per quell’oggetto del desiderio pur sapendo benissimo che, per i 4-5 giorni all’anno in cui la utilizza, è 100 volte più conveniente affittarla».
Con l’arrivo degli stranieri, gente con affari diversificati nel mercato globale e che dalla preoccupazione della propria immagine in Italia non è neppure sfiorata, cambia tutto. «Poco importa che siano grandi magnati, fondi sovrani o d’investimento: l’obiettivo di queste nuove proprietà è estrarre profitti. E questo cambierà la gestione, che sarà sempre più fondata sulle capacità generative di cassa della squadra». Cioè: al centro ci sono gli uomini – giocatori e manager – e la loro capacità di mandare avanti le cose. Eccolo, l’umanesimo delle società di calcio. Da gestire come aziende come tutte le altre. Qui entra in gioco il lavoro tecnico dell’avvocato Agostinelli, uno che di ristrutturazione del debito si occupa da anni, e che prima di arrivare dov’è ha lavorato in altri studi internazionali come Ashurst – di cui ha fondato la sede italiana – e Latham&Watkins. «Quella con Thohir è stata un’operazione pilota, verso una gestione scientifica: il nuovo debito non è tarato sulla capacità di assorbimento – probabilmente infinita – del patrimonio di un singolo, ma è un debito “project finance style” che rovescia totalmente l’approccio ed è matematicamente, assolutamente ed esclusivamente calcolato sulle capacità generativa dei flussi di cassa». Ora a parlare è lo squalo del banking abituato a nuotare nel mare dei pesci grossi: stressa ogni avverbio, punta i polpastrelli delle dita sul tavolo della sala riunioni. Ci si arriva «ingegnerizzando il processo, prima disorganizzato, ricostruendo il debito sul medio-lungo termine (5 anni, ndr), con un sistema autoliquidante». In concreto: si costituisce una good company controllata al 100% dal club, in cui si conferiscono la proprietà intellettuale (il brand) e i diritti che derivano dal suo sfruttamento, quelli televisivi e i contratti di sponsorship. Un tesoretto a parte, isolato dai rischi del club, non aggredibile dai creditori e separato dagli stipendi dei calciatori. La si finanzia, il rimborso del nuovo investimento è coperto dalle entrate che arrivano dai contratti di sponsorship e media, e questi soldi vengono messi dalla good company a disposizione del club per ripulire l’indebitamento esistente. «L’ effetto è che il club si trova libero dai debiti nei confronti dei terzi; appena entra il nuovo finanziamento, il pregresso viene ripulito. Scompare».
Un gioco di prestigio. Al termine del quale il tifoso, confuso, si chiede: «Ok, ma questo vuol dire meno soldi per acquistare i campioni?». Se le squadre devono puntare quanto meno a un pareggio di bilancio, l’epoca dell’incetta di fuoriclasse è tramontata? «Non necessariamente», è convinto Agostinelli. Si tratta semmai di «spendere in modo più organizzato». Puntando, nel lungo periodo, anche su altre possibili entrate. Siamo alla seconda fase: il cambio di palcoscenico. Gli stadi del futuro. «Lo ha già fatto la Juve, lo sta facendo la Roma, e così le squadre in crisi estere: creare strutture dedicate dove si va con tutta la famiglia – i figli, i nonni – e si trascorre la giornata. Come in America: vanno lì e comprano l’hamburger, le patatine, i popcorn, le magliette». Meno stadio-arena dei gladiatori, più centro commerciale: «Il merchandising da noi ha ancora un valore marginale bassissimo nel calcolo dei profitti, ma in altri mercati ha un peso enorme. Gli investitori stranieri guardano alla presenza di infrastrutture che soddisfino questo trend». Una nuova fonte di guadagni con cui, in combinato disposto con il ricorso al project finance, «una società può essere sostenibile, grandi campioni compresi», scommette.
Ma è anche una rivoluzione culturale: «Finora il calcio in Italia è sempre stato un fatto fortemente maschile, con una componente violenta. Se qualcuno chiedesse a mia moglie: “Vuoi andare allo stadio?” lei risponderebbe che è un ambiente che le fa un po’ paura. Specie chi non lo conosce ne avverte la pericolosità: bisogna rimuovere questa sensazione gestendo la sicurezza, a partire dalla prevenzione, anche con le tifoserie». Vista così, verrebbe da dire che i tempi saranno molto lunghi. «Certo, bisogna cambiare le abitudini, ma è sicuro che accadrà. Il progetto del Milan al Portello, ad esempio, va in questo senso». Quindi tra qualche anno Agostinelli porterà la moglie allo stadio? «No, andiamo più al mare – siamo entrambi istruttori di immersioni – oppure in montagna», confessa pimpante, con un sorriso ampio che gli strizza gli occhi. I tre figli fanno gare di sci; spesso al venerdì sera, dopo il lavoro, l’avvocato fugge da Milano e li raggiunge, per accompagnarli in pista l’indomani mattina presto. «Mia moglie invece parte prima assieme a loro». Faticoso? Non per uno che si è laureato a 22 anni in Giurisprudenza e ha preso la seconda laurea in Economia mentre già lavorava nello studio Pavia Ansaldo di Genova. «Studiavo nei weekend e nei tempi morti. Che ci sono sempre, anche lì, dove si faceva e s’imparava tanto». Alla fine, per gestire lavoro e vita privata vale la stessa regola delle società di calcio: questione di organizzazione.