«Sono disgustato». Se ne andò così Michael Garcia, ex capo dell’ufficio investigazione Fifa. Se ne andò perché l’inchiesta che stava portando avanti proprio non ne voleva sapere di decollare, per un cocciuto ostruzionismo che gli gravitava intorno. La decisione di non pubblicare il report dettagliato che aveva redatto lo convinse sulla bontà della scelta. Così diede le dimissioni, non prima di attaccare pubblicamente la massima organizzazione calcistica, con tanto di sentenza («Non esiste una leadership»), e allora sembrava che il male avesse trionfato sul bene, la menzogna sulla verità, e via via tutta una serie di dicotomie che non facevano altro che sottolineare l’enorme, intoccabile, dirompente potere di una persona sola: Sepp Blatter.
Poi sono arrivati gli americani, che il calcio non hanno nemmeno imparato a chiamarlo football, e allora il lavoro di Garcia non è stato vano: l’operazione condotta il 27 maggio a Zurigo ha portato all’arresto di sette alti funzionari della Fifa, tra cui due vicepresidenti (Jeffrey Webb e Eugenio Figueredo), con l’accusa di corruzione e associazione a delinquere. Blatter si è in parte preso il merito dell’inchiesta: «Oltre un anno fa, noi stessi abbiamo inviato un dossier alle autorità svizzere, dobbiamo scacciare il malaffare dal mondo del calcio».
Nella conferenza tenuta subito dopo gli arresti di Zurigo, il procuratore generale americano Loretta Lynch ha chiarito le dimensioni della vicenda: «La corruzione coinvolge due generazioni di dirigenti, che hanno abusato della loro posizione per intascare milioni di dollari. Un esempio? L’anno prossimo ci sarà l’edizione del Centenario della Coppa America negli Stati Uniti. Le nostre indagini hanno rilevato che la sponsorizzazione e la diffusione di questo evento sono state utilizzate da alcuni di questi individui per un giro d’affari che si aggira attorno ai 110 milioni di dollari».
C’è un passaggio che è sommamente significativo: «Ci ha colpito il fatto di quanto sia andata avanti nel tempo, la corruzione toccava ogni parte della Fifa: era istituzionalizzata e permeava ogni aspetto dell’organizzazione». In pratica, da 24 anni a questa parte tutto o quasi quello che c’entrava con la Fifa supponeva tangenti e bustarelle: dalle assegnazioni dei vari Mondiali alla vendita dei diritti televisivi, passando per banalissime sponsorizzazioni o operazioni di marketing.
Il tutto a due giorni dalle elezioni per la presidenza Fifa, che si tengono il 29 maggio. Blatter non è indagato. «Per ora», si affrettano a precisare gli inquirenti. In fondo, è difficile pensare che nel marasma generale il boss della Fifa, al comando dal 1998, sia slegato da certe dinamiche. La puntualizzazione da parte degli inquirenti secondo cui il meccanismo corruttivo fosse in piedi da oltre vent’anni e che coinvolgesse almeno due generazioni di dirigenti lascia intendere come Blatter si fosse innestato su un tessuto già deteriorato da pratiche illecite. Però, stando a certe ricostruzioni, con l’ex colonnello svizzero si sarebbe assistito al salto di qualità. Blatter, cioè, avrebbe gestito la Fifa come se ne fosse il proprietario, garante di ciascuna Federazione e delle proprie istanze. Creando così una base di consenso difficilmente intaccabile e ricorrendo a una spartizione di denaro, strategica e chirurgica.
Un modus operandi rintracciabile sin dall’inizio (si fa per dire, Blatter entra nella Fifa nel lontanissimo 1977). L’ex vicepresidente della Fifa Jack Warner, vecchio alleato di Blatter e oggi suo grande avversario, ha sostenuto che in occasione della prima elezione allo scranno più alto della Fifa, nel 1998, lo svizzero abbia fatto votare la compagna del presidente della Federazione della Giamaica al posto del delegato di Haiti, mentre Havelange, il presidente uscente, inondava di denaro alcune Federazioni (come Trinidad e Tobago) per garantirgli l’appoggio della Concacaf.
A evidenziare come la competizione fosse degenerata e avviluppata a un sistema imperniato su favori sottobanco, valgano per tutte le elezioni del 2011. Dove il concorrente più credibile di Blatter, Mohamed Bin Hammam, nonché ex presidente della Federcalcio asiatica per nove anni, dovette ritirarsi dalla corsa perché accusato di corruzione, e successivamente squalificato a vita. «Non potrà prendere parte in alcuna attività legata al calcio a livello nazionale o internazionale», le parole con cui venne silurato dal Comitato etico della Fifa. Warner, che nel frattempo era passato nelle fila ostili a Blatter, dovette dimettersi da vicepresidente Fifa, in quanto accusato anch’egli di aver cercato di comprare voti per avvantaggiare il candidato del Qatar.
Già, il Qatar, che poi è diventato il caso più scottante, in relazione all’assegnazione del Mondiale del 2022. Una votazione segnata interamente da scandali, con lo stesso Bin Hammam promotore. Il dirigente qatariota avrebbe utilizzato fondi neri per ottenere i voti decisivi, convincendo soprattutto alcune Federazioni più deboli, molte di esse africane. In tutto, Bin Hammam avrebbe sborsato oltre 5 milioni di dollari per avere la sicurezza di far organizzare il Mondiale al proprio Paese. Inoltre, Warner avrebbe ricevuto, insieme a membri della sua famiglia, due milioni di dollari da parte di una società del Qatar appena due settimane dopo l’assegnazione del Mondiale al Paese arabo.
Per di più, sospetti aleggiano – anche se mai confermati – sull’assegnazione del Mondiale del 2018 alla Russia: all’indomani degli arresti di Zurigo, i giornali inglesi – The Sun in testa – hanno chiesto a gran voce che i Mondiali venissero assegnati all’Inghilterra, che era in lizza per ospitarli in contrapposizione ai russi. Il capo della Federcalcio britannica ha infatti denunciato la pratica delle tangenti: Warner gli avrebbe chiesto 4,5 milioni di dollari per far aggiudicare la Coppa del Mondo in Gran Bretagna. Loretta Lynch ha anche tirato in ballo il Mondiale sudafricano: «Nel 2004 i dirigenti Fifa hanno preso tangenti per influenzare la decisione di ospitare in Sudafrica i Mondiali del 2010». Warner, in questo caso, avrebbe chiesto al governo sudafricano una cifra vicina ai dieci milioni di dollari.
Tornando alle elezioni per la presidenza Fifa, quelle del 29 maggio vedranno Blatter sfidare Ali Bin Al Hussein, principe di Giordania. Gli altri candidati iniziali, Van Praag e l’ex asso di Real Madrid e Inter Luis Figo, si sono ritirati. Soprattutto la testimonianza del portoghese ha dato parecchio da pensare: «Ho visto svariati episodi che dovrebbero far vergognare chiunque desidera un calcio libero, pulito e democratico. Ho visto coi miei occhi presidenti di Federazioni che un giorno paragonano i leader della Fifa al diavolo e il giorno dopo a Gesù. Questo processo elettorale è tutto tranne che un’elezione, è un plebiscito per consegnare il potere assoluto a un uomo. E io mi rifiuto di prendervi parte».
E dire che negli anni Blatter ha persino sfidato il buonsenso, uscendosene con le bizzarrie più disparate. Nella hit parade: «Il razzismo nel calcio non esiste. A volte basta semplicemente una stretta di mano»; «In Qatar i gay dovrebbero astenersi dal fare sesso»; la proposta di “divise sexy” per le calciatrici; fino all’arcinota mancata premiazione dell’Italia ai Mondiali del 2006. Per non dire di quando si mise a scimmiottare Cristiano Ronaldo, definito un «comandante in campo che passa troppo tempo dal parrucchiere», in antitesi con il bravo ragazzo «Messi, che tutti i genitori vorrebbero avere». E pure in quel caso spuntò un caso controverso: qualche mese dopo quella battutaccia, Ronaldo vinse il Pallone d’Oro e emerse un retroscena secondo cui il ct del Qatar sarebbe stato spinto a votare per il portoghese, quasi un “risarcimento” per l’asso del Real Madrid. Gaffe in serie, una sorta di marchio di fabbrica di Blatter. Quasi si divertisse a scuotere la barca, tanto è sicuro da rimanerci al timone.
Una sola domanda: ma perché?