Scene da un campionato

Sei storie della nuova Serie A, tra attese, prime volte e ritorni: al via del torneo, una carrellata di alcuni dei principali protagonisti

Ricomincia il campionato di Serie A, per il quarto anno di fila tutti all’inseguimento della Juventus. Che però ha operato una piccola rivoluzione, a fronte di una Roma decisa a interrompere il dominio bianconero e delle milanesi che hanno ritrovato una verve competitiva smarrita nelle ultime stagioni. E poi il nuovo Napoli di Sarri, la Lazio e l’intrigante Fiorentina di Paulo Sousa, le premesse per un campionato avvincente non mancano. Abbiamo scelto sei storie, sei trame del torneo più bello del mondo.

Dieci

Quando Carlos Tévez ha salutato la Juventus, al miscuglio di malinconia e gratitudine, si aggiungeva una curiosità enorme: chi avrebbe ereditato la maglia numero dieci? Altrove questa premura non assume identica importanza: il Milan l’ha relegata frettolosamente a Honda, che pure non accende la fantasia dei tifosi (a meno che non siano giapponesi), l’Inter l’aveva messa sulle spalle di un ventenne sbarbato come Kovacic, e poi dirottata con disinvoltura su quelle di Jovetic quando il croato si è imbarcato sul primo volo per Madrid. Perché alla Juve se n’è fatto un caso di proporzioni diverse? Immagino che, a differenza delle milanesi, quella maglia abbia un significato speciale per il fatto che sia stata, per anni, vestita da una leggenda come Alex Del Piero: un lascito troppo importante perché potesse essere una semplice maglia con un semplice numero stampato sulla schiena, tanto da non avere un proprietario prima dell’arrivo dell’Apache a Torino.

Juventus v S.S. Lazio - 2015 Italian Super Cup

La Juventus ha poi deciso di destinare la pesante eredità a Paul Pogba, per quanto il francese non incarni esattamente le caratteristiche di un numero dieci. Che, a onor del vero, la Juve possiede già in squadra: Paulo Dybala, che però, contrariamente a Tévez, arriva a Torino a soli 21 anni, e dunque ancora in cerca di un’affermazione definitiva. Ma quanto sarebbe stato suggestivo il passaggio della “diez” dall’Apache alla Joya? Entrambi argentini, movenze e stile di gioco simili, caratteristiche fisiche molto vicine (1,77 m x 69 kg Dybala, 1,73 m x 75 kg Tévez). E però sorprende la fisicità di entrambi, difficili da spostare: il gol che Dybala ha segnato lo scorso anno al Milan, a San Siro, ne è un esempio chiave, con Zapata (quasi 1,90 m con una decina di chili in più rispetto all’ex palermitano) che prova a spostarlo di spalla, non ci riesce e finisce muso a terra, mentre l’argentino corre verso la porta e segna. Perché il talento è una cosa, saperlo sfruttare un’altra: in mezzo, la suggestione di aver trovato un nuovo Tévez, più giovane di nove anni.

Dybala fa pollice verso a Zapata.

Per un pugno di scarpe

Scarpe, scarpe, ancora scarpe. Fabrizio Castori ne vedeva a centinaia, ne vendeva a centinaia: le commerciava nella provincia maceratese, aveva scelto di mettersi in proprio, dopo aver lavorato in un calzaturificio. Figlio di un elettricista e una sarta, a 22 anni aveva già una moglie e due neonati. Oggi nella testa di Castori ci sono ancora scarpe, ma con i tacchetti sotto, il tonfo sordo del cuoio che vi sbatte contro, l’odore dell’erba umida. A 61 anni, con il Carpi che ha portato a un’incredibile promozione, vedrà per la prima volta la Serie A in vita sua. Lui che ha cominciato ad allenare per caso: a 26 anni gli diedero in mano la Belfortese, una squadra di Seconda Categoria allo sbando che non trovava un allenatore sulla faccia della terra marchigiana. Nemmeno il presidente di quella piccola formazione sapeva cosa avrebbe scatenato, lui che si era rivolto a Castori per un semplice paio di scarpe.

AC Perugia v Carpi FC - Preseason FriendlyLo paragonano spesso a Maurizio Sarri, per carattere, ruvido e schietto, sensibilità (ad esempio, il rifiuto categorico di giacca e cravatta), e, ovviamente, l’interminabile gavetta, svolta tra le panchine delle categorie più umili. Fin dai tempi dei dilettanti, il suo credo è solo uno: «Correre, correre, correre». Quando portò la Belfortese a un’insperata salvezza, a Castori piovvero richieste da tutto il circondario. Nel 1995, trascinò il Tolentino in C2: raccolse il coraggio a due mani e abbandonò il lavoro per votarsi interamente al calcio. Quella di Carpi è stata la sua ottava promozione in carriera, una carriera dove nessuno gli ha voluto regalare nulla: «La scorsa estate mi chiamò il Metalurg Donetsk», l’occasione della vita, un contratto a peso d’oro. «Ma poi arrivò la guerra e non se ne fece nulla». Finì al Carpi dove si accordò per meno di 50mila euro, in quell’Emilia Romagna che anni prima gli aveva dato grosse soddisfazioni con il Cesena. Ma pure guai: fu coinvolto in una maxirissa nel playoff contro il Lumezzane in C1 e si beccò due anni di squalifica. «Mi rovinò la carriera. Toccai il fondo, ma seppi risalire».

Il richiamo della foresta

Nel 2008 Antonio Cassano e la Sampdoria si erano appena conosciuti: l’attaccante era riemerso dall’oblio in cui era sprofondato a Madrid, segnando dieci reti nel primo anno genovese, i blucerchiati avevano concluso la stagione con un insperato sesto posto. Quando, a dicembre di quell’anno, la Samp batte 1-0 il Siviglia in Coppa Uefa e accede ai sedicesimi, Cassano mette da parte la sua personale idiosincrasia verso i media e si lascia andare, felice, sollevato, euforico. Dà voce ai suoi pensieri e esprime profonda gratitudine per il popolo sampdoriano. Poi dice: «Non ho mai corso così tanto in vita mia come stasera. Avevo crampi da tutte le parti, ma l’istinto mi diceva di andare a correre dietro ogni palla».

A Genova, sponda blucerchiata, ricordano: «Quella volta che Cassano fece tutto da solo».

Parla di istinto, Cassano, e non potrebbe essere altrimenti, e allora supporre che indossare la maglia blucerchiata gli consenta di reperire energie nascoste che nemmeno immagina, e che lo invogli addirittura a fare sforzi fisici in campo, lui che si è ripromesso di non giocare mai e poi mai in posizioni di campo che non fossero all’ombra, è un’indicazione bastevole su quanto fosse smisurata la sua voglia di Sampdoria, di tornare lì dove il suo genio ha ripreso a brillare, quando ormai più nessuno ci sperava. Tre anni e mezzo esaltanti prima degli insulti irripetibili rivolti a Riccardo Garrone, il peregrinare tra Milano e l’Emilia, l’attesa snervante di una chiamata da Bogliasco, che arriva, non arriva, che spacca pure il tifo blucerchiato. Sarà fasciato ancora dalla sua maglia numero 99, e qualcuno, lì in Gradinata Sud, avrà un fremito incontrollato lungo la schiena, e poi lo negherà.

Muri che crollano

Nel 2010 Sinisa Mihajlovic era alla guida del Catania, e alla vigilia di un match contro il Milan sottolineò: «Per come sono fatto io, non potrei mai allenare il Milan. Sono stato all’Inter, non potrei mai per rispetto dei tifosi». Parole che sono tornate d’attualità ora che Mihajlovic al Milan c’è finito per davvero, scatenando sentimenti contradditori nel tifo nerazzurro e non solo. Dovremmo, allora, considerare di fare i conti con un Mihajlovic diverso, meno ortodosso e oltranzista. Quando gli si chiede di quella frase, il tecnico serbo risponde: «Quando ero giovane andavo a sottrazione, a dividere, avevo bisogno dei nemici. A questa età ho imparato tanto e capito tante cose. Vado più a cumulo di esperienza. È una sfida che mi piace perché non è facile farsi amare o convincere gli scettici. Oggi come oggi non ho bisogno di nemici, ho cambiato modo di pensare e ragionare. Quando arrivi a 50 anni la testa cambia».

«Mai al Milan»

Crescere

Delle squadre di seconda fascia il mercato più interessante lo ha condotto il Torino, le cui fortune estive sono dipese in gran parte dalla ricca cessione di Matteo Darmian al Manchester United. Comprato nel 2012 a poco meno di due milioni e rivenduto a 18: gran colpo, non c’è che dire. E prima ancora erano venuti gli Ogbonna, i Cerci, gli Immobile: il Toro sta coniugando nella maniera più felice risultati sportivi e conti in ordine, puntando in misura massiccia sui giovani, a dimostrazione che certi modelli di gestione sani e virtuosi sono pienamente attuabili. L’ultimo bilancio granata segna un utile di 10,6 milioni di euro, una cifra dieci volte maggiore rispetto all’esercizio immediatamente precedente.

Sono lontani i tempi in cui i tifosi granata chiamavano Urbano Cairo “braccino”. In estate il Toro ha messo sul tavolo 26 milioni per assicurarsi sette nuovi giocatori, più 3,5 milioni per strappare alle comproprietà la metà di Benassi all’Inter: Belotti, Zappacosta, Baselli, Acquah, Obi, Avelar, Ichazo. Escluso l’ex cagliaritano, tutti calciatori under 25, con i primi tre, insieme a Benassi, che a ragione possono essere considerati alcuni tra i maggiori prospetti del calcio italiano (hanno tutti disputato l’ultimo Europeo Under 21 in Repubblica Ceca). Dopo un settimo e un nono posto, il quinto anno di Ventura sulla panchina granata dovrà confermare una volta di più l’appartenenza del Toro alla schiera delle privilegiate del calcio italiano.

Il Toro batte 4-1 il Pescara in Coppa Italia, Baselli (autore di un gol) è già tra i migliori in campo.

Amicizia

Giampaolo Pazzini, in passato, ha spiegato così il perché della sua esultanza: indice e medio della mano destra divaricati e puntati verso gli occhi. «È nata a Firenze, per scherzo. Toni faceva sempre il gesto dell’orecchio, anche a pranzo e colazione: lo faceva per dire “ci senti?”. Così io presi a fare il mio, che significa “ci vedi?”». È legittimo pensare che, ai tempi, quella del Pazzo fosse quasi una forma di sussiego verso Toni, che a Firenze arrivò all’apice della sua carriera: era il 2005, e in due anni l’attaccante modenese segnò la bellezza di 47 gol, e in mezzo si laureò pure campione del mondo. L’avventura di Pazzini in viola fu in chiaroscuro, anche perché la punta di Pescia aveva poco più di vent’anni: eppure, nonostante dovesse competere con una fuoriserie come Toni e questo gli rendesse più che arduo il compito, i due divennero molto amici e rimasero in contatto anche quando le loro strade si divisero.

Empoli v FiorentinaA distanza di dieci anni, Toni e Pazzini sono tornati compagni di squadra nel Verona, e proprio i suggerimenti del primo al presidente Setti e al tecnico Mandorlini hanno facilitato l’arrivo dell’ex punta del Milan. «Sono molto amici, ma è normale che quando si scende in campo l’egoismo prevale», ha puntualizzato Mandorlini, aprendo di fatto una sana concorrenza tra i due. In realtà, nelle prime uscite, compresa quella ufficiale di Coppa Italia contro il Foggia, i due bomber sono stati schierati insieme dal primo minuto, a conferma del fatto che la loro convivenza in campo non è così impossibile. Toni, a 38 anni, sta confermando i numeri di Firenze raggiunti un decennio fa, con 42 reti segnate nel biennio veronese e il titolo di capocannoniere vinto nell’ultimo campionato, mentre il Pazzo, trentunenne, ha già dimostrato un’enorme voglia di campo dopo troppa panchina nel Milan. Verona sarà un nuovo parco divertimenti?

 

Nell’immagine in evidenza, i festeggiamenti della Juventus per l’ultimo campionato vinto. Valerio Pennicino / Getty Images