Tre cose dopo il Derby

Quali sono stati i temi principali della stracittadina milanese: il ritorno di Balotelli, la lezione dei sudamericani nerazzurri e una nuova verve di Montolivo.

Ha vinto l’Inter, ma l’impressione, nitida e palpabile, di questo Derby è che la Milano del calcio è tornata ad essere quello che dovrebbe essere, dopo un anno di appannamento. È pur sempre settembre, con le sue incognite e con i suoi pronostici suscettibili di troppe variabili, però la partita è stata godibile e appassionante, di certo tra le migliori degli ultimi anni con le due milanesi in campo. Il Milan è uscito sconfitto, ma rimane con qualcosa di cui essere soddisfatto; così l’Inter, prima in classifica, scopre pian piano i suoi nuovi punti di forza. Ecco cosa ci ha lasciato in dote la prima stracittadina stagionale.

Giocare a calcio, e nient’altro

Il derby di Milano dice anche che Balotelli è un giocatore di calcio. Uno che serve al Milan. Un calciatore di cui sappiamo che cosa possa essere ma che spesso lui non ha voluto essere e altrettanto spesso noi non abbiamo voluto vedere. In venti minuti, contro l’Inter, è stato pericoloso quanto molti giocatori non riescono a essere in una partita intera. Un palo, un altro tiro da lontano deviato in calcio d’angolo da Handanovic, quattro falli subiti, due non fischiati con la sensazione che non siano stati fischiati solo perché erano su Balotelli. Fermarsi ai suoi atteggiamenti degli anni e dei mesi scorsi è un errore altrettanto grave di quelli fatti da lui stesso con quegli atteggiamenti. Sa giocare a pallone, punto. Nella prima stagione al Milan ha giocato ha fatto 12 gol in 13 partite, e la seconda – in cui è stato criticatissimo – ne ha fatti 14 in 30 partite, una media di quasi uno ogni due. I numeri parlano spesso, ma con Balotelli hanno sempre parlato troppo poco. Perché il resto ha contato sempre di più.
FC Internazionale Milano v AC Milan - Serie A

Vederlo in campo nel derby è la miglior cosa che possa capitare: al Milan un calciatore così, in grado di giocare dietro due punte, da punta centrale, da punta più esterna serve moltissimo. Mihajlovic, a fine partita, ha giudicato buona la sua partita, ma ha fatto capire che lo userà ancora così: da panchinaro che entra quando segna. Forse è la strada sensata, di certo sembra essere determinata più dal contorno che dal campo, più da ciò che si dice di Balotelli che da quello che accade quando gioca. Il paradosso della situazione è che per certi versi ci si è fermati di più sulle parole pronunciate dallo stesso attaccante del Milan dopo la partita. «Sono fiero dei miei compagni». Come se il valore di un giocatore si misurasse da una frase così. Balotelli la dice perché sa che è ciò che serve in una situazione così, in cui pare debba essere riaccettato nella società civile prima che in un campo di calcio. Pensare ai suoi gol, agli assist, ai falli che prende, a ciò che riesce a fare quando gioca, in una parola al talento che ha, è più funzionale al suo ritorno vero. Possibile. Forse più vicino di quanto troppi hanno sperato.

(di Giuseppe De Bellis)

Review della prestazione nel derby di Mario Balotelli.

Luchar, antes de bailar 

Se si prova a rovesciare certi paradigmi, ci si incazza. Quando Mancini chiede Felipe Melo, e poi insiste con Juan Jesus, la parte più consistente del tifo interista, che a uno sguardo esterno come il mio appare la più antagonista del campionato, e pure compiaciuta di esserlo, si incazza. C’è una tradizione da rispettare: quel connubio Inter-Sudamerica lo si legge alla luce di un omaggio al fútbol bailado, rigorosamente in lingua madre, quello che privilegia il talento, la classe, l’eleganza. Da Ronaldo a Milito, da Cruz a Zanetti, da Palacio a Recoba. Giocatori che “accendono la fantasia”, espressione brutta quanto pienamente esemplificativa. La fantasia vuol dire mettersi nei loro panni, giocare come loro, essere come loro, e così negli anni il tifoso interista ha indossato la maglia del Fenomeno, del Principe, del Chino. Oggi a nessuno viene in mente di comprarsi la divisa di Felipe Melo o di Medel, la J giusta è quella di Jovetic e non di Juan Jesus, e via dicendo.

Il Sudamerica nerazzurro si è evoluto, forse snaturato, ma non è detto che sia meno competitivo. Fa niente se il motto di Melo, svelato a partita conclusa, sia stato: «Dovevo menare, menare, menare». Né Mancini si vergogna di una facile metafora per spingere i suoi: «Se avessimo una squadra di tutti Medel, vinceremmo ogni partita». Vogliamo cedere davvero alla tentazione di dire che vincere grazie ai Guarín, ai Melo, ai Murillo, ai JJ, sia l’indizio di come l’Inter, e il derby in generale, abbia vissuto una deminutio irrefrenabile negli anni? È una tentazione comoda e anche un po’ sbagliata, perché se un altro sudamericano come Icardi sbaglia a due passi dalla porta, allora serve il topspin di Guarín, se Balotelli entra e rischia di mandare a monte i piani di vittoria nerazzurri, allora serve che Melo gli sfili da sotto i piedi il tappeto rosso, se Bacca e Adriano spaventano nei primi minuti metà del popolo di San Siro, allora serve che Medel e Murillo ritrovino concentrazione e sinergia perché si possa festeggiare a fine partita. Che poi è l’unico paradigma che conta davvero.

(di Francesco Paolo Giordano)

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Il Montolivo che mancava 

È un lunedì post-derby che, da tifoso, non vivevo da anni. Il che significa, in breve: rosico. Gli ultimi confronti (ufficiali) tra Inter e Milan li avevo vissuti con una rassegnazione e un distacco che derivavano naturalmente dalla scarsa competitività del Milan, o dalle scarse ambizioni di quelle formazioni, o dalle scelte sbagliate in panchina che facevano presupporre una rivoluzione tattica ogni sei mesi, l’antitesi di un ciclo, di qualcosa a cui appassionarsi. Oggi rosico perché ho visto un bel Milan, ordinato ed efficace. Non del tutto, anzi: è un giudizio positivo soprattutto se confrontato con le prime due partite. E mi è sembrato che una delle note più positive di tutta la partita sia il giocatore meno tollerato dalla maggior parte dei tifosi milanisti: Riccardo Montolivo.

Il centrocampo con Montolivo in mediana, senza la muscolarità di De Jong, ma affiancato da due mezzali che sanno giocare bene in inserimento (Kucka e Bonaventura) ha funzionato discretamente. Sicuramente meglio degli altri centrocampi provati da Mihajlovic in precedenza. Diceva: al Milan manca chi imposta, De Jong davanti alla difesa non basta. Era vero. E diceva anche: Montolivo non sa difendere. Ecco, questo si è rivelato, in occasione del derby, meno vero. A parte l’agonismo mostrato in campo, un agonismo effettivamente nuovo per lui con questa maglia, ci sono i numeri: 8 palle recuperate, tutte nella metà campo difensiva, e quindi miglior centrocampista del Milan (Bonaventura 4, Kucka 3). Otto disimpegni, tutti in area o quasi, e ancora miglior centrocampista (Bonaventura 4, Kucka 2). Due anticipi, davanti la difesa. Due tackle. I passaggi: 32 riusciti su 40 tentati. Il tallone d’Achille, perché non poteva non esserci, sono state le verticalizzazioni: Montolivo ha sbagliato quasi sempre quando ha cercato di raggiungere l’area avversaria, e anche quando ha cercato il lob dalla trequarti per le punte. Poco male. Se prima mancava il gioco, adesso non manca più, almeno non del tutto.

(di Davide Coppo)

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Nell’immagine in evidenza, un momento del derby, con Poli e Murillo. Marco Luzzani/Getty Images