Bisogna contare. Uno, due, tre. Fino a dieci. I punti in classifica del Torino, per dire. Gli anni di Urbano Cairo da presidente, pure. Lo chiamavano “braccino”, lo contestavano, gli intimavano di andarsene. La squadra non tornava in A, se ci tornava retrocedeva subito, sciupava occasioni incredibili, tipo una sconfitta interna con il Padova all’ultima giornata di campionato. Addio playoff per la A. Cairo vattene.
Bisogna contare, e pure saperlo fare, perché poi tutto torna. Per esempio, da 1,8 a 18. Stessi numeri, ma senza una virgola di mezzo. In milioni di euro: la prima cifra si riferisce al prezzo d’acquisto di Matteo Darmian, la seconda a quello di cessione (a cui vanno aggiunti due milioni di bonus). Le chiamano plusvalenze, a Torino ci sono riusciti anche con Cerci. E con Immobile, con Ogbonna. E magari, in futuro, con Maksimovic. Già quest’estate lo volevano in tanti, Cairo ha detto no: una cessione eccellente va bene, due no.
A volte serve moltiplicare. Per dieci, come nel caso degli utili messi a bilancio: al 31 dicembre 2013 erano pari a un milione di euro, un anno dopo i milioni sono diventati 10,6. Prima, si registravano solo perdite: -8,4 milioni nel 2009, -11,1 milioni nel 2010, -14,7 milioni nel 2011, -10,9 milioni nel 2012. Un’inversione di tendenza importante, significativa: quanti club ci riescono? Pochi, in Italia praticamente nessuno. Obiettivi raggiunti con i risultati sportivi, più appeal indica più visibilità: non è un caso se, tra il 2012 e il 2013, il fatturato è praticamente raddoppiato, da 31,8 a 64,2 milioni. Decisivo l’aumento dei ricavi da diritti tv: complice la partecipazione in Europa League, la voce nell’ultimo bilancio è schizzata a 44 milioni, dai miseri 521mila euro del 2011, con il Toro in B. E per ottenere vittorie sul campo, serve investire: negli ultimi due anni, il Toro ha speso oltre 50 milioni sul mercato. 26 nell’ultima sessione, sufficienti da assicurarsi sette nuovi giocatori: Belotti, Zappacosta, Baselli, Acquah, Obi, Avelar, Ichazo, più la metà di Benassi, ottenuta con 3,5 milioni.
Poi, i numeri, serve allinearli. 3-1-0=10. Tre vittorie, un pareggio, zero sconfitte, cioè dieci punti, secondo posto in solitaria. Non un caso, uno scherzo da prime giornate di campionato, ma l’ulteriore step di crescita della squadra. In un anno, tra il 2013 e il 2014, i granata sono passati dal sedicesimo al settimo posto in Serie A. Cioè dalla lotta per non retrocedere all’Europa League. Quando, nell’estate seguente, avevano salutato Cerci e Immobile, qualcuno già voleva celebrare il funerale dei granata. Poi è successo che il Toro è arrivato nono, ha raccolto oltre 50 punti, in Europa League è arrivato fino agli ottavi di finale, dove ha vinto pure a Bilbao, una specie di campo maledetto per le squadre italiane.
Il tutto, insieme, compone qualcosa di ben preciso. E cioè che il Torino, un giorno, ha smesso di diventare quello che era: una squadra ascensore, marginale, l’eterna meteora. Nonostante il blasone, gli scudetti, una letteratura da grande squadra. Il campo diceva altro: un ventennio di mediocrità, diviso equamente tra Serie A e Serie B, con il fallimento in mezzo. Anni di luce fioca, se non di buio, esemplificati dalla sventura massima: non riuscire mai a battere l’odiata Juventus, la squadra di cui non si deve nemmeno pronunciare il nome, per vent’anni.
Il derby dello scorso 26 aprile, deciso dalle reti di Darmian e Quagliarella, è stato il primo vinto dopo il 9 aprile 1995. Quel Toro stava chiudendo un ciclo, dopo la finale di Coppa Uefa e la vittoria della quinta Coppa Italia nella storia del club, questo ne ha aperto un altro. Come se battere la Juventus sia la rappresentazione più certa di una ritrovata ambizione: «Battere i bianconeri è stato il coronamento di un percorso», le parole di Cairo.
La vittoria nel derby della Mole, la prima a distanza di vent’anni.
Un percorso che ha fatto del Torino una realtà solida, competitiva del calcio italiano. È lì in alto, ma non in quanto punto di arrivo: ambisce a rimanerci. Se in quella posizione si fosse trovato il Carpi, o l’Empoli, sarebbe stato giusto parlare di sorpresa. Per il Toro, no: nessuno lo fa, quando hai a che fare con una squadra in netta crescita, anno dopo anno. Il percorso, appunto.
È riduttivo indicare l’arrivo di Giampiero Ventura come propulsore della squadra, anche se è con lui alla guida che il Torino esce da quella dimensione ristretta in cui era rimasta incastrata. I meriti di Ventura sono evidenti: capacità di far lavorare serenamente il gruppo, bravura nell’inserimento dei giovani, proponimento di un gioco arioso e corale, dinamico, anche grazie alle diverse soluzioni di gioco adottate. Nel 2012, promozione in A al primo colpo, prima di tenersi stretta la categoria. Da lì, la crescita irrefrenabile. Ma le difficoltà precedenti, in parte, spiegano i successi di dopo. Il primo Toro targato Cairo in A ci restò per tre anni. La retrocessione del 2009 («Un trauma», per il numero uno granata) fu la prima vera frattura tra società e tifoseria: lo scontro sfociò anche in contestazioni violente, come il lancio di bombe carta all’indirizzo della sede del club e degli uffici milanesi di Cairo, e pure una testa di maiale, finita sul marciapiede di via dell’Arcivescovado.
«All’inizio compravo soprattutto nomi, come facevo per i miei giornali e le televisioni. Tipo il giornalista Sandro Mayer, che con me ha fatto grandi cose. Stesso schema. La differenza è che nel calcio i Mayer devono correre, invece i miei nomi il futuro ce l’avevano dietro le spalle».
È quell’esperienza che Cairo giudica essenziale per il salto di qualità della sua società. Perciò, anche grazie alla bravura del ds Petrachi, messo in ombra nei primi anni da Foschi e dallo stesso Cairo, e a una struttura di scouting cresciuta negli anni, i granata hanno messo a segno colpi importanti, come Maksimovic dalla Stella Rossa o Bruno Peres dal Santos. Che poi è quanto sostiene ancora Cairo: «Vogliamo fare una politica di scouting di giovani dall’estero che possano fare bene. Tutte le volte che ho preso giocatori affermati, costosi come ingaggio e cartellino, ho fallito, e lo dico con dispiacere. Conta avere fame, innovare, questo è fondamentale».
Quest’estate, l’ulteriore dimostrazione di forza del club. Da un lato, la mancata cessione di Maksimovic, che per molti ha rappresentato il definitivo assestamento del Toro tra le big del campionato. C’è un potere di cessione, a questo punto, oltre che di acquisto. I granata si sono allineati alla Roma: per il difensore serbo, hanno chiesto la stessa cifra che i giallorossi chiedevano per Romagnoli. A meno di 25 milioni, non va via. Da questo si può evincere come il modello Toro sia dinamico, non rigido: si può vendere, ma con raziocinio. Non si crescono giocatori per rivenderli al primo offerente. Nessuno può mettere il coltello alla gola al Torino: è questa la consapevolezza di essere grandi. Ecco quello che diceva Cairo qualche mese fa, prima della sessione di mercato: «Nessuno dei nostri è in vendita. Venderemo i nostri giocatori solo se chiederanno di andar via per mancanza di stimoli, a quel punto troveremo delle valide alternative. Come fece la Juve con Zidane nel 2001». Capito? La Juve. Il Toro non ha paura di guardare negli occhi il modello più vincente del calcio italiano.
L’esaltante vittoria a Bilbao in Europa League, ai sedicesimi di finale.
Dall’altro lato, l’acquisto di Baselli e Zappacosta, a cui erano interessate anche squadre di primissima fascia del nostro campionato, indica come il Torino abbia una possibilità di investimento da “grande”, e pure un appeal di rispetto nei confronti dei giocatori, al punto da concorrere con le big. Nel mercato torinista, non c’è casualità, ma progettazione. L’anno scorso il Toro era la seconda squadra più vecchia della Serie A, con un’età media di 28,3 anni. Gli acquisti estivi, Avelar escluso, sono tutti under 25.
Infine, ma cosa non meno importante, il Torino ha vinto l’ultimo campionato Primavera: non succedeva dal 1992. Segno di una società sana, che ha costruito una struttura perfettamente funzionante a tutti i livelli. È molto complicato fare il grande salto, da squadra periferica a squadra centrale del nostro campionato: ma quando ci riesci, è più difficile tornare indietro.