L’Inter, di nuovo

Come Mancini, con una rivoluzione e in poco tempo, ha trasformato i nerazzurri, portandoli ai piani alti del campionato. Lo scudetto è possibile?

«A volte, bisogna fare le rivoluzioni per cambiare le cose». Il 4 aprile scorso l’Inter aveva appena pareggiato con il Parma, una squadra con le motivazioni sepolte all’altezza dei guai della sua società, fallita. Il collo della camicia bianca di Roberto Mancini, solitamente impeccabile come uno scolaretto al primo giorno di scuola, era sgualcito come se fosse uscito da una rissa con un intero pullman di ultrà. Quelle parole sulla necessità di una rivoluzione gli sfuggirono dalla bocca controvoglia e tradendo il senso dell’opportunità. Mancavano ancora nove partite alla fine del campionato: se c’era un modo per gettare più nel panico la squadra che aveva preso in consegna da Walter Mazzarri (riuscendo a fare – in termini di risultati – persino peggio di lui), era quello. Ora siamo qui a contare – anzi, a pesare – i quindici punti in classifica dell’Inter versione due di Roberto Mancini e a chiederci come si spiega un avvio così cinico e rapace. Un inizio degno di una squadra che siede al primo posto in classifica come sul divano di casa sua e non come se fosse accomodata su una poltrona riservata a signori ben più importanti che stanno solo facendo tardi.

MILAN, ITALY - SEPTEMBER 23: Mauro Icardi of Internazionale Milano celebrates after winning the Serie A match between FC Internazionale Milano and Hellas Verona FC at Stadio Giuseppe Meazza on September 23, 2015 in Milan, Italy. (Photo by Tullio M. Puglia/Getty Images)

L’Inter è in testa, ma è ancora insicura delle sue possibilità, non crede sino in fondo a ciò che vedono i suoi occhi: il primo posto in classifica ora c’è, domani può volare via, è troppo presto per fare discorsi del genere, ha detto Mancini. Sì, certo: però il conto – e dunque anche il racconto – di queste cinque vittorie su cinque partite giocate andrebbe fatto a partire da quel dopo gara a Milano contro il Parma, quando San Siro fischiò di brutto la prestazione della squadra di casa e Roberto Mancini si convinse che bisognava ricominciare daccapo, scegliere chi aveva davvero l’animo per rimanere in squadra e chi doveva invece andarsene via. Cominciò decidendo che la Pasqua alle porte i giocatori l’avrebbero passata ad allenarsi dalle otto e mezza del mattino, altro che feste comandate, uova di cioccolato e colombe.

A fine campionato, dopo aver fallito l’obiettivo dell’Europa League, Mancini dichiarò ciò che aveva capito da un po’, che aveva bisogno di otto, nove giocatori per fare quello che aveva in testa. Il presidente indonesiano Erick Thohir gliene ha comprati dieci. Con l’esclusione di Yaya Touré, tutti quelli che voleva. L’ossessione che i dirigenti dell’Inter hanno inseguito, guidati dalla convinzione di Mancini, è che una squadra di calcio per essere competitiva nel 2015 ha bisogno di tre elementi fondamentali: atleti dal corpo possente, giocatori tecnicamente capaci di padroneggiare il pallone e uomini dotati di quella speciale fibra che costituisce la personalità. Mancini ha cercato sino all’ultimo Felipe Melo per quel di più di carisma che il brasiliano poteva dargli in mezzo al campo, per alzare il livello del carattere, ciò che più mancava alla squadra ereditata da Walter Mazzarri, che è stata capace di perdere la partita che valeva l’Europa League contro il Genoa con un gol all’ultimo minuto firmato di testa da Kucka (per giunta, servito in area su calcio piazzato).

Stevan Jovetic e il suo esordio ufficiale in nerazzurro contro l’Atalanta, condito dal gol decisivo.

E ha perso molti altri punti importanti così, per disattenzioni che non sono giustificabili per una squadra che vuole contare qualcosa. Chi ha visto Carpi-Inter qualche settimana fa ha notato che l’Inter ha avuto la forza, subito dopo aver subito il pareggio all’ottantesimo minuto di Di Gaudio, di reagire con freddezza e trovare nel giro di otto minuti il gol decisivo di Jovetic. E anche ieri sera contro il Verona la rete di Felipe Melo arriva precisamente un minuto dopo che il Verona colpisce la traversa con Sala. Le volte in cui l’anno scorso spirava un piccolo vento contrario la squadra precipitava nel terrore. Ora, invece, sembra esserci una risolutezza che è stata cercata con scienza. Certo, deve essere messa ancora alla prova del tempo. Però, intanto, c’è.

L’hanno già fatto, il paragone: quest’Inter di Mancini assomiglia a quella che Mancini ha riportato alla vittoria, prima del triplete di José Mourinho. C’è la stessa prestanza fisica (componente fondamentale delle squadre di Mancini). Dove c’erano Vieira, Ibrahimovic, Samuel, Stankovic, adesso ci sono Kondogbia, Perisic, Miranda, Murillo, gente che ha il corpo e la tecnica, la forza e la raffinatezza. Ma sono cazzate, per lo più. Sono due squadre così diverse, queste, e giocano in campionati così distanti, che non vale la pena nemmeno mettersi lì a segnare uno per uno i distinguo.

A Mancini obiettano: «Ma solo, e sempre, con un gol di scarto?» Lui risponde: «Perché no?»

Vero è che Mancini ha voluto una squadra che intimorisca gli avversari già nel momento in cui si entra in campo, facendoli trovare faccia a faccia con undici uomini che hanno un’altezza media di 1,84 centimetri, più i muscoli e la cattiveria. Sette partite, otto gol fatti, sei subìti, sedici punti: l’Inter ha fatto tutto questo – dicono le statistiche – tenendo la palla sempre più degli avversari (in media il 58 per cento), tirando in porta più spesso (solo contro il Milan si contano 19 tiri subiti contro 16), attaccando principalmente nella parte centrale del campo, dove converge la maggior parte dei tentativi nerazzurri di costruire le azioni per andare a segno.

In difesa, con Murillo e Miranda, è una squadra più sicura (lo è anche con Medel, che in qualche caso ha sostituito i centrali infortunati). A centrocampo ha più temperamento e nervi, ma anche possibilità ancora inespresse come quelle di Kondogbia: il ventiduenne francese si è acceso ancora a sprazzi ma ha fatto intravedere in quegli attimi cosa è capace di fare. In attacco, Jovetic si sta rivelando l’acquisto più prezioso e importante. Ha segnato tre gol, ogni volta che prende palla in area spaventa gli avversari, ha i guizzi e la fame. Mentre invece Perisic, che Mancini ha inseguito quanto Felipe Melo, può giocare esterno, centrale, dietro le punte, ma ancora non ha dimostrato di valere tutte le attenzioni che Mancini gli ha dedicato.

Ecco: stabilire se l’Inter gioca bene o gioca male ha a che fare con l’estetica del calcio e chi ha molto tempo da perdere si può sbizzarrire alla ricerca della risposta. A chi gli rimprovera che la sua squadra è noiosa, Mancini risponde che tutte le squadre che vincono sono noiose. Non è esattamente così, ma il concetto è chiaro: vincere è la cosa più importante, soprattutto ora. Gli obiettano: «Ma solo, e sempre, con un gol di scarto?» Risponde: «Perché no?». L’avvocato Peppino Prisco metterebbe la firma. Come tutti i tifosi interisti, del resto. È quando una squadra vince senza giocare granché che c’è da stare attenti.

La vittoria nel derby.

Ed eccoci arrivati alla domanda che nella mente della tifoseria interista è un desiderio così forte che nessuno ha il coraggio di esprimerlo ad alta voce: l’Inter è una squadra da scudetto? Ce la può fare? Matteo Della Vite, della Gazzetta dello Sport, è d’accordo con Mancini sul fatto che è davvero troppo presto per dare una risposta a questa domanda. Ma mi ha sottoposto una riflessione che merita di essere riportata anche qui. «Il momento decisivo per capire se l’Inter è una numero uno» mi ha detto «sarà valutare la sua capacità di reazione nel momento in cui le cose gireranno storte, perché a un certo punto le cose gireranno storte. In quell’attimo, dal modo in cui uscirà dall’angolo, si capirà se l’Inter può vincere lo scudetto». La misura della personalità di una squadra si ricava dalla gestione delle avversità, non dalla capacità di festeggiare negli spogliatoi le vittorie.

Ma se si cercano di prevedere quali sono i bastoni che si possono infilare nelle ruote della marcia interista sono da escludere quelle delle coppe europee. L’aver fallito l’obiettivo Europa League l’anno scorso, paradossalmente, si può rivelare un vantaggio quest’anno: con la possibilità di lavorare tutta la settimana solo sul campionato, di sfruttare la stanchezza degli avversari e sentirsi alleggeriti da più di una pressione. Una provvidenziale mano d’aiuto che Mancini ha calcolato nei suoi schemi. Nei suoi piani, però, sa che non durerà a lungo. Perché Mancini non è tornato a Milano per vincere lo scudetto. È tornato per vincere in Europa. Troppo presto per dire anche questo, ovviamente. Ma non per pensarlo. Figuriamoci per desiderarlo.

 

Nell’immagine in evidenza, la corsa sotto la curva dei calciatori dell’Inter dopo la vittoria di Verona contro il Chievo. Dino Panato/Getty Images