Wrong way

Cosa succede alle squadre inglesi in Europa? Perché il calcio più ricco non riesce più a imporsi in ambito continentale?

Quando si adopera la parola “crisi” per riferirsi ai club inglesi nelle competizioni europee, l’utilizzo che se ne fa ha una connotazione ben specifica. In Premier League non c’è carenza di ricchezza, né di giocatori o di spettacolo. È, laconicamente, una crisi riferita ai risultati. Sorprendente, se si pensa che, fino a pochi anni fa, il calcio inglese era egemone in Europa: tra il 2006/2007 e il 2008/2009, ci sono state almeno tre squadre nelle semifinali di ciascuna edizione di Champions League. In più, tra il 2005 e il 2012, in sette, delle otto edizioni della massima competizione europea, una squadra inglese è approdata in finale (Manchester Utd tre volte, Liverpool e Chelsea due, Arsenal una).

È un argomento che ci interessa da vicino, perché l’Italia, pian piano, sta rosicchiando punti nel ranking Uefa all’Inghilterra. In ballo c’è il terzo posto del ranking, e il suo peso: è il posto che garantisce una squadra in più in Champions League. In questo momento, l’Italia, con 61.605 punti, è staccata di 4.054 dagli inglesi. L’anno scorso, le squadre del nostro Paese ottennero 5.429 punti in più di quelle britanniche: se una situazione del genere dovesse ripetersi anche in questa stagione, l’Inghilterra perderebbe la quarta squadra in Champions dalla stagione 2017/2018.

L’Inghilterra rischia di perdere la quarta squadra in Champions dalla stagione 2017/2018, a vantaggio dell’Italia.

Nelle ultime dieci edizioni di Champions League solo due volte (Chelsea 2012 e Manchester Utd 2008) hanno vinto squadre inglesi. Cioè quanto l’Italia, a fronte di un dominio spagnolo (cinque acuti) e un trionfo del Bayern. Negli ultimi tre anni, poi, mai un’inglese è arrivata in finale. In Europa League il dato è ancora più netto: ultimo trionfo quello del Chelsea nel 2013, che però arrivava dalla Champions (dove era detentrice del titolo). Altra storia. Per trovare un altro successo di una squadra britannica, bisogna andare indietro fino al 2001, quando il Liverpool piegò l’Alavés.

Forse la statistica più crudele è quella che risale all’ultima stagione: tra le due competizioni europee, nessuna squadra inglese si è spinta oltre gli ottavi di finale. In Champions, Chelsea, Man City e Arsenal fuori agli ottavi, Liverpool addirittura rimbalzato alla fase a gironi. In Europa League più strada l’ha fatta l’Everton, eliminato agli ottavi, mentre di Tottenham e ancora Liverpool le tracce si perdono ancora prima. «Forse abbiamo meno spazio di quanto ne avevamo prima, quando era solo questione di quando le inglesi si sarebbero qualificate – diceva Arsène Wenger nel 2012 -. Oggi il calcio tedesco si è perfezionato, quello spagnolo è competitivo ogni anno e anche alcune squadre francesi sono tornate su buoni livelli, come il Psg». Se pure l’aumento di concorrenza c’è stato, è riduttivo pensare che da questo dipenda la crisi del calcio inglese. Del resto, lo stesso Wenger continuava a credere che quello della Premier fosse il miglior calcio d’Europa, almeno alla pari con quello spagnolo.

Uno dei risultati più clamorosi della scorsa Champions: ottavi di finale, il Monaco vince 3-1 all’Emirates.

È vero che una stagione sfortunata può capitare, ma difficilmente può considerarsi un caso. Alla luce del fatto che anche ai quarti di Champions 2012/2013 non si presentò nessuna inglese. E anche alla luce di quella appena iniziata: nella prima giornata, solo il Chelsea ha fatto il suo dovere, regolando il modesto Maccabi. Per le altre, solo sconfitte: City messo ko dalla Juve, United dal Psv e Arsenal dalla Dinamo Zagabria. In Europa League, su quattro squadre qualificate (record dovuto all’ingresso del West Ham grazie alla classifica fair play Uefa), due si sono già arenate ai preliminari, con l’eliminazione degli Hammers subita per mano dell’Astra Giurgiu e quella del Southampton, che si è arreso al Midtjylland. Restano in corsa Tottenham e Liverpool, da cui, nella prima giornata, è arrivata solo una vittoria (quella degli Spurs, in rimonta contro il Qarabag).

Eppure, il calcio d’Albione dovrebbe funzionare meglio di tutti, paragonato agli altri Paesi. Perché è il più ricco: nella classifica stilata da Deloitte sui fatturati dei club europei, nella top 20 figurano ben otto squadre inglesi. Come dire: quasi la metà. Sono Manchester United, secondo alle spalle del Real Madrid (433,2 milioni di euro), Manchester City (sesto, 346,5), Chelsea (settimo, 324,4), Arsenal (ottavo, 300,5), Liverpool (nono, 255,8), Tottenham (tredicesimo, 180,5), Newcastle (diciannovesimo, 129,7) e Everton (ventesimo, 120,5). Perché, a ben guardare, la situazione è pure diversa dal resto dei maggiori campionati europei: non ci sono due, tre, quattro squadre che si spartiscono la ricchezza, lasciando briciole alle altre. Ci sono le egemoni, ovvio, ma anche la middle class non naviga nella miseria. Una situazione ben visibile dai ricavi dei diritti televisivi. Il Queens Park Rangers, retrocesso nell’ultimo campionato, ha ottenuto nella scorsa stagione da questa voce ben 90,8 milioni di euro: cioè poco meno della Juventus (94), più di tutte le squadre tedesche e francesi, più di diciotto squadre spagnole. Ed è quella che ha preso di meno: solamente cinque squadre (Qpr, Burnley, Hull City, Aston Villa, Sunderland) non hanno sforato quota cento milioni, pur avvicinandosi molto.

Nella classifica stilata da Deloitte sui fatturati dei club europei, nella top 20 figurano ben otto squadre inglesi.

Del resto, è proprio il prodotto Premier League, in quanto brand, ad avere un appeal decisamente superiore alle altre realtà europee. Televisivamente, il campionato inglese vale 2.247 milioni di euro: la seconda in classifica, la nostra Serie A, si ferma a 837 milioni. Un’egemonia commerciale tale da estendersi anche alla sponsorizzazione tecnica delle maglie da gioco: nella graduatoria dei club più pagati, ci sono quattro inglesi tra le prime sei. Il Manchester United, che distanzia tutte le avversarie, addirittura porta a casa 941,7 milioni di euro in dieci anni da adidas. A seguire, Chelsea e Arsenal (37 annui), Liverpool (35).

Proprio la ricchezza dei club, spesso, gioca un ruolo ambiguo. La larga disponibilità economica porta le società a investire pesantemente sul mercato: in estate, la Premier League ha speso la bellezza di 1,18 miliardi di euro. Praticamente il doppio di Serie A e Liga, che in fatto di acquisti si sono attestati attorno ai 570 milioni. Una frenesia da trasferimenti con conseguenze ben delineate. Uno studio di qualche tempo fa sottolineò come i giocatori di Premier League che giocano nei club dove sono cresciuti sono sempre di meno: uno su cinque. Come se cambiare maglia sia quasi una necessità, ancor prima che una scelta.

Chelsea v Arsenal - Premier League

Va da sé che, all’inizio di ogni stagione, gli allenatori abbiano una squadra per buona parte rinnovata. Non è, ovviamente, un male in assoluto, ma stravolgere le squadre, andando a incidere anche su punti di forza delle formazioni, complica il lavoro di un allenatore. Perché, a quel punto, avrai bisogno di trovare la giusta collocazione per i nuovi arrivi, riuscire a farli convivere con chi è in squadra da più tempo, creare un equilibrio che, in presenza di più primedonne all’interno di un gruppo, non può essere immediato. Lavorare su un gruppo consolidato, di sicuro rendimento, da rafforzare ma non da stravolgere, offre maggiori garanzie ad inizio campionato. In Inghilterra non ci sono preoccupazioni del genere: se qualche giocatore non rende, via, si cambia. E questo succede pure con campioni affermati, come è successo a Di Maria dopo la deludente parentesi all’Old Trafford. «Puoi comprare un giocatore, e se non funziona hai ancora soldi per comprarne un altro», l’efficace sintesi di Jamie Carragher.

Si pensi al Manchester United: tra la prima giornata di Premier 2014/2015 e il debutto in quella 2015/2016, la formazione titolare è cambiata per 7/11. E quando una squadra resta pressoché la stessa da una stagione all’altra, il tono è quasi scandalizzato: il caso dell’Arsenal, per dire. Senza voler prendere posizione, l’immobilismo dell’Arsenal e la sorpresa che ha destato è il sintomo di come, in Inghilterra, si è abituati a vedere – di più: ci si aspetta – mercati importanti, dove la semplice riconferma di chi c’è già è vissuta come una mezza sconfitta.

Prima giornata di Champions 2015/2016, subito un passo falso dello United che cade a Eindhoven.

Ovviamente, i mercati importanti si fanno con l’arrivo di giocatori reclamizzati, e quindi pagati a peso d’oro: ecco De Bruyne, ecco Sterling, Martial, Benteke, Otamendi, Firmino. Sei degli otto trasferimenti più cari della sessione estiva internazionale sono finiti in Inghilterra. E se si esclude Sterling, si tratta tutti di giocatori stranieri. Il che implica due effetti: l’esterofilia e l’accantonamento dei giovani inglesi.

Sono argomenti di cui si dibatte con ferocia in Inghilterra, coinvolgendo pure ex calciatori di fama, come Rio Ferdinand e Jamie Carragher: «Da noi si preferisce andare sul sicuro acquistando giocatori dall’estero ed evitando di scommettere su un giovane, magari cresciuto nel vivaio». Che poi non è farsi i fatti degli altri, ma riflettere sui puntuali flop degli inglesi a Mondiali, Europei e quant’altro (per dire: una semifinale non si vede dal 1996, dal 1990 se si considerano solo i Mondiali). Una difficoltà delle Nazionali che parte dai livelli giovanili: l’Under 21 inglese, per esempio, è sempre uscita al primo turno nelle ultime tre edizioni degli Europei di categoria. E se la generazione dei Gerrard, dei Lampard, e nemmeno dei Rooney, non è riuscita a vincere nulla, figuriamoci quella attuale, che non dà l’impressione di essere particolarmente brillante. D’accordo, ci sono gli Sterling, i Kane, ma restano pur sempre casi isolati, e comunque da verificare.

La Premier è da anni in cima tra i campionati per più alta percentuale di stranieri: quest’anno i calciatori inglesi sono appena 176 su 526. In soldoni, due su tre arrivano dall’estero. Vuol dire anche che molti provengono da realtà diverse, non solo in senso calcistico, ma anche in un senso più lato, culturale: e se non riescono ad ambientarsi? E se riscontrano problemi nell’inserimento nello spogliatoio e fuori? Sono perplessità che riguardano tutte le squadre del mondo, ma hanno ancora più forza se riguardano non uno o due calciatori dell’undici titolare, ma la maggior parte.

La Premier è da anni in cima tra i campionati per più alta percentuale di stranieri: quest’anno i calciatori inglesi sono appena 176 su 526.

Negli ultimi tempi, poi, i giornali inglesi più autorevoli hanno provato a trovare una risposta alle difficoltà dei club inglesi. Scaturite, secondo loro, da un’insufficienza manageriale. In particolare, le critiche più frequenti parlano di “inadeguatezza difensiva”. L’unica squadra inglese ad aver raggiunto le semifinali di Champions negli ultimi tre anni è stato il Chelsea, nel 2014: in quella stagione, seppur chiusa al terzo posto, i Blues avevano subito solo 27 reti. Tra l’anno precedente e quello successivo, nessuna squadra di Premier è riuscita a incassare meno di 30 reti: circostanza da non sottovalutare, se si guarda ai gol subiti delle finaliste dell’ultima Champions (21 il Barcellona, 24 la Juventus). Tra il 2009 e oggi, la media di reti concesse dalle inglesi si è elevata: da 0,7 a 1 a partita. Negligenza nella cura dei meccanismi difensivi, in primis, ma anche qualità dei singoli non eccelsa: per molti, il 34enne John Terry è ancora il miglior difensore della Premier.

L’ultimo successo di un’inglese in Champions League: è il 19 maggio 2012, il Chelsea batte ai rigori il Bayern Monaco 4-3 dopo l’1-1 dei 120′.

Con questo, si combina una “tactical naivety”, una svagatezza tattica. Giocare con lo “stile Premier” sembra essere un concetto superato, almeno nel confronto con le concorrenti europee. «Mi diverte ancora guardare le partite di Premier, ma a volte mi dispero quando le inglesi giocano in Champions – la critica di Gary Neville -. La maggior parte delle avversarie europee sono meglio organizzate e più forti fisicamente, e anche più valide sul piano tecnico. Parliamo sempre di intensità e durezza del calcio inglese, dobbiamo smetterla. Guardo Jordi Alba, e mi viene da dire che è molto aggressivo. Così Mascherano, così Thiago Silva. Guardate la determinazione del Barcellona. Basta nasconderci dietro l’idea di una Premier tosta».

Le squadre d’Oltremanica sono a metà del guado: non hanno ancora deciso cosa voler diventare. Sono legate a un certo tipo di gioco, ma inglobano continuamente giocatori che non vi appartengono, e pure allenatori: nella Premier attuale ci sono solo sei tecnici inglesi (su venti, statistica pazzesca: in Italia gli allenatori stranieri sono tre). La vecchia identità è superata. Ma nessuno ha capito con cosa sostituirla.

 

Nell’immagine in evidenza, Bastian Schweinsteiger dopo la sconfitta del Manchester United contro il Psv. Dean Mouhtaropoulos/Getty Images