Effetto Celtics

Boston contro Milano, davanti agli 11mila spettatori del Forum, ha ricreato l’atmosfera Nba. Perché, per certi versi, non si tratta solo di basket.

Mi rendo conto di cosa sia l’Nba quando inizio a scorgere il Forum. Maglia verde. Maglia verde. Cappellino verde. Giacca verde. Maglia verde. Il colore dei Boston Celtics è praticamente ovunque. Qualche bancarella si è sistemata a pochi metri da uno degli ingressi principali. Anche qui, il verde predomina. Del rosso dell’Olimpia, non ci sono tracce. Conto un paio di canotte di Milano, è tutto. All’interno, poi, il colpo d’occhio è ancora più significativo: alzi lo sguardo e il verde Celtics è lì, come se ci fosse da anni, decenni, immutabile.

Le immagini della partita.

«Certo che siamo dell’Olimpia, ma l’Nba è un’altra cosa», mi dice un gruppo di ragazzi in completo verde, ovviamente. Voglio scoprire cos’è quest’altra cosa, perché attira in Italia l’interesse di più di cinque milioni di persone, 300 milioni in tutto il mondo. Mi dico: ok, dall’altra parte dell’Atlantico ci sono i migliori al mondo. Se negli States guardano al calcio europeo come modello più funzionante, il discorso potrebbe valere anche per la pallacanestro, a continenti inversi. Due bambini, che non avranno avuto più di otto anni, sentenziano: «È impossibile che Milano vinca». Come, 9.700 chilometri più a ovest, un bimbo dei Los Angeles Galaxy potrebbe dire della sua squadra prima di un match contro il Real Madrid. Sarà questo.

Inizio a capire come in questo discorso non conti solo il valore di un quintetto, di una squadra o di un brand come quello Celtics, quando entro nel Forum. L’organizzazione è affidata completamente all’Nba. Dietro i banconi si parla più inglese che italiano, pass e biglietti hanno il logo riconoscibile della lega americana. L’Nba è un’industria che muove la sua struttura, perfettamente funzionante, tale e quale oltre i confini statunitensi. Li chiamano Nba Global Games: dopo Milano, Boston giocherà a Madrid, mentre in Cina si sfideranno Hornets e Clippers. L’industria non è solo la vendita di diritti tv, magliette, gadget e quant’altro in tutto il mondo: nell’ultimo anno, i ricavi dall’estero per l’Nba sono stati stimati in 350 milioni di dollari. È un’organizzazione, difficilmente replicabile.

New York Knicks v Boston Celtics

Quando entrano in campo i Celtics, non entrano solo i giocatori. Entrano le cheerleaders, la mascotte Lucky, vestito come la figura del logo del club, un gruppo di ragazzi con la scritta “Boston” a cui è stato appiccicato un nome improbabile. Tutti si preparano allo show. Sento questa parola, show, volteggiare, la afferro. All’inizio, gli sguardi degli spettatori del Forum – quasi al completo, nonostante i prezzi piuttosto elevati – sono tutti per i cestisti in riscaldamento: le schiacciate e le giocate più spettacolari sono accompagnate da un “oooh” di ammirazione. È ovvio che è quello che si aspettano tutti. Quando, più avanti nella partita, Smart se ne va indisturbato e appoggia la palla a canestro nel modo più semplice, il pubblico prima si produce in un coro di delusione, poi comincia a fischiare. Where’s my Nba stuff, man?

Non è disprezzo, la questione è che, in quel momento, chi era sugli spalti era stato completamente assorbito da qualcosa che gli era nuovo, e dunque sorprendente. Lo capisci dalle prime battute del match, quando i decibel del Forum oscillano in base a quanto succede in campo: silenzio-ovazione-silenzio-ovazione-silenzio-ovazione. Come fosse una partita di tennis: il silenzio, quasi religioso, con cui si ammirano le fasi di gioco, l’eccitazione per come si conclude l’azione. Da una parte Thomas, che realizza 18 punti, dall’altra Gentile, 19.

Brooklyn Nets v Boston Celtics

Poco prima dell’inizio del match, a prendersi la scena sono le cheerleaders. Invenzione puramente americana, ma recepita, in discreta misura, anche in Italia. Immagino che saranno loro a intrattenere il pubblico nei tempi morti, cioè time out e intervalli. Invece, in tutta la serata saranno solamente due le volte in cui si esibiranno, per il resto si limiteranno a fare da contorno. È qui il punto: non riempire le pause, ma costruire uno show coerente e funzionale che sia scandito dalle pause. Attrattivo: il pubblico ne è genuinamente coinvolto. Te ne rendi conto all’intervallo: in qualsiasi partita ti alzi e vai al bar, qui in pochissimi lasciano il proprio posto. Persino controllare Whatsapp riesce difficile.

E allora, di cosa si compone questo show? Esibizioni di Lucky e degli altri ragazzi: dunk spettacolari, con l’aiuto di tappeti elastici, vere e proprie acrobazie per andare a canestro; lancio di magliette (a proposito, un piccoletto avrà avuto un passato da quarterback per la capacità di gittata) e piccole palle di basket; coinvolgimento degli spettatori con possibilità di vincere premi, con sfide consistenti in tiri da tre, più canestri in minor tempo, o semplici domande sull’Nba per chi non ha grande dimestichezza con il pallone tra le mani. Più, durante il match, battimani vari e qualche versetto di canzone sparato ad alto volume (“Who let the dogs out”, la più gettonata).

Lui è Lucky.

Non ne capisci il senso, e il funzionamento, finché non lo vedi a pochi passi da te, e allora sì che prendi coscienza di come tutto questo sia studiato nei minimi particolari e contempli una preparazione non casuale. Basta cogliere la differenza tra le due mascotte, quella di Boston e quella di Milano. Lucky è sempre al centro della scena, è allenato per esibirsi in schiacciate spettacolari, ha movenze teatrali, interagisce con il pubblico. La mascotte milanese no. Non sappiamo nemmeno il suo nome, visto che non viene mai citato.

Alla fine, Boston vince 124-91. A sedici secondi dalla sirena finale, si alza un applauso spontaneo. Il pubblico sfolla via, soddisfatto. Quando si allontana dal Forum, ha ancora sciarpe attorcigliate al collo, maglie in evidenza e cheering hand. Non è stata solo una partita di basket, per uno spettatore, quello italiano, poco avvezzo a eventi di questo tipo. La centralità del pubblico, il fatto che sia stato coinvolto appieno dal meccanismo dello show. Uscendo, voglio fare due domande. La prima: a volte capita che venga fatto qualcosa di simile in Italia? La seconda: ti piacerebbe che venisse introdotto anche qui? Mi basta fare solo la prima domanda. «Purtroppo no», è la risposta.

 

Nell’immagine in evidenza, i Boston Celtics prima dell’inizio di una gara al Garden di Boston. Mike Lawrie/Getty Images