L’ultimo dei dilettanti

Steve Merrick, l'uomo che passò in un colpo dalla miniera alla Nazionale e che rifiutò ricchi ingaggi: «Gioco a rugby perché mi piace, questo è quanto».

Capita abbastanza spesso di vedere famiglie in cui il talento non sia equamente distribuito tra i figli. È la vita. Ed è quello che è successo ai Merrick, un’onesta famigliola australiana che dal lontano 1800 vive a Singleton, un paesino di minatori a due noiosissime ore d’auto da Sidney. Dale Merrick non è un uomo, è una polisportiva: eccellente giocatore di rugby Union e League, ovvero a quindici e a tredici, ottimo golfista e altrettanto competente giocatore di cricket. Suo fratello Steve, classe ’68, invece se la cava solo nel rugby Union, ma ha dalla sua una dote altrettanto importante: non molla mai.

Steve non è attirato dal rugby League, gli sembra strano. Poi un bel giorno, a diciotto anni, assiste a una partita di suo fratello e rimane folgorato dalle ruck, dalle maul e dalla continuità di gioco. È questione di un attimo, decide di provarci. Nel 1987 entra a far parte della seconda squadra dei Singleton Bulls.

L’inizio non è facile, ci mette un po’ ad adattarsi. Il gioco è diverso, il ritmo è diverso, ma come il minatore che scava la roccia a picconate, colpo dopo colpo Steve si guadagna il ruolo di mediano di mischia. I compagni dell’epoca lo descrivono come “fiero e imprevedibile”, talmente fiero che sotto la sua regia i Bulls vinceranno nel corso degli anni ben cinque campionati.

Ma questa non è la storia di un team modesto che batte i grandi campioni grazie alla forza del gruppo e alla guida di un buon leader, ma quella di chi, scegliendo con convinzione di non fare qualcosa, è diventato un mito.

La carriera di Steve procede alla grande, le sue indubbie qualità gli permettono di essere notato da alcuni osservatori e nel 1993 viene convocato per alcuni test match tra una rappresentanza del New South Wales contro Tonga e Sud Africa. L’anno successivo vince il premio come miglior giocatore del New South Wales e milita in una selezione australiana contro l’Irlanda, non è la nazionale, ma poco ci manca.

1996. Steve Merrick nello spogliatoio del Singleton, dopo una partita.
1996. Steve Merrick nello spogliatoio del Singleton, dopo una partita.

E poi arriva il Mondiale 1995, il primo senza apartheid, quello della storica vittoria del Sud Africa sulla Nuova Zelanda, quello di Mandela e della misteriosa malattia che ha colpito gli All Blacks prima della finale. Steve non è tra i convocati. Pazienza, pensa, l’importante è continuare a giocare a rugby, divertirsi con gli amici e comunque a Singleton c’è tanto, tanto da fare. Il carbone mica si estrae da solo. Ma il dio del rugby non ha finito con lui e fa squillare il suo telefono proprio mentre sta preparandosi a uscire e guidare un camion verso la miniera. All’altro capo della cornetta una voce squillante: «Ciao, sono Bob Dwyer, allenatore dell’Australia». «Ragazzi, siete degli idioti, non ho tempo per gli scherzi», e Steve riattacca seccato.

Il telefono squilla di nuovo.

«Ragazzi ho detto basta, non ho tempo…»«Steve non è uno scherzo, sono Bob Dwyer, dovresti dare la disponibilità per alcuni test match del New South Wales, potrei aver bisogno di te».

Mentre la vita a Singleton scorreva placida e immutabile, sacco di carbone dopo sacco di carbone, un’ondata di rinnovamento scuoteva il mondo del rugby australiano. La nazionale aveva infatti rimediato una sonora sconfitta contro l’Inghilterra ed era stata avviata una vera e propria epurazione dei “colpevoli” tra i quali figurava George Gregan, storico mediano di mischia dei Wallabies e simbolo del rugby down under. Adesso Steve ha l’onore e l’ingrato compito di provare a sostituirlo.

Steve Merrick scende in campo prima contro Otago, poi contro Queensland e fa ciò che sa fare meglio: dare il massimo. Ne esce con una meta e il titolo di Man of the match. Ad attenderlo all’aeroporto questa volta non c’è soltanto sua moglie, ma la convocazione per la nazionale che avrebbe dovuto sfidare la Nuova Zelanda il 22 luglio 1995 per la Bledisloe Cup, lo storico trofeo che ogni anno viene messo in palio fra le due squadre. Steve Merrick è il Wallaby numero settecentoventidue.

Il mondo del rugby è stupito da questa convocazione e gli esperti di tutto il mondo attendono con molta curiosità il debutto di questo illustre sconosciuto di fronte ai cinquantamila spettatori dell’Eden Park, uno degli stadi più tosti del mondo anche per i veterani, figuriamoci per l’ultimo arrivato.

Il giorno della partita, Merrick si sveglia e osserva il suo compagno di stanza, il leggendario Tim Horan, assorto a guardare fuori dalla finestra. Piove a Eden Park. Piove da fare schifo, una di quelle piogge orribili e deprimenti che i giocatori di rugby associano al pallone scivoloso, al fango negli occhi e alle gambe rese pesanti dalla melma. Horan si gira lentamente verso di lui e gli dice: «Il tuo primo Test Match, a Eden Park, con questo tempo. Fossi in te, mi butterei dalla finestra».

Alla vigilia del suo primo Test Match, il suo compagno di squadra gli disse: «Fossi in te, mi butterei dalla finestra»

Nel frattempo un altro temporale, molto più silenzioso ma non meno potente, sta scuotendo le fondamenta del rugby e Merrick ne viene a conoscenza durante l’allenamento, poco prima del fatidico match. Alcuni compagni lo prendono da parte e con aria cospiratoria gli rivelano che probabilmente sta nascendo una nuova lega di rugby professionistico pronta a firmare contratti milionari per i giocatori che decidono di salire subito a bordo, che chi accetta potrà tenersi la cifra pattuita anche se poi non se ne dovesse fare più niente. Soldi facili, facilissimi a cui però Merrick ride in faccia. «Non ci posso credere che mi state proponendo una cosa del genere, io gioco a rugby perché mi piace, questo è quanto».

Arriva finalmente il momento di scendere in campo, il tempo degli scherzi è finito. Proprio di fronte al novellino si piazza Jonah Lomu e per tutta la durata della tradizionale Haka lo fissa, gli urla contro e strabuzza gli occhi. «Lì per lì non volevo guardarlo — rivelerà più tardi Steve — volevo ignorarlo, poi però ho alzato la testa e l’ho visto fare tutte quelle facce strane, non me lo dimenticherò mai».

Alla fine degli ottanta minuti i neozelandesi si dimostrano troppo forti per l’Australia che però sostiene una buona prova e perde ventotto a sedici. La cosa non demoralizza la volontà di Merrick che, a fine partita, affronta a modo suo il risultato con un gesto tra l’assurdo e l’impossibile. Si accorda col custode dello stadio e ottiene il permesso di fumarsi una sigaretta nello spogliatoio, lontano dalle telecamere.

1787

Nessun timore però per i suoi polmoni che gli danno fiato e lo sostengono anche nel match di ritorno che si conclude con un sonoro trentaquattro a ventitré. Un Lomu in ottima forma trascina gli All Blacks verso la seconda vittoria passando sopra agli avversari, Merrick incluso che rimedia un brutto infortunio alla spalla dopo un contatto con Zinzan Brook e Frank Bruce, due personaggi con cui tutto sommato puoi ritenerti fortunato se ne esci solo con una clavicola distrutta. Questo però non gli impedisce di fare una cosa che tutti i rugbysti sognano dopo ogni partita, un gesto all’apparenza normale ma dal significati importantissimo, ormai relegato al mondo delle squadre di seconda categoria e quasi del tutto scomparso nel rugby professionistico e nella sua (giustissima) ossessione per l’alimentazione, le regole e il comportamento.

Si riempie di antidolorifici, si trattiene il meno possibile per i riti formali del post-partita, monta in macchina e torna a Singleton per bere una birra, forse due, con gli amici che stentano a credere che il giocatore dei Wallabies che hanno appena visto in televisione stia ordinando una pinta lì con loro.

Rimarginate le ferite e completate le cure, il nuovo mediano di mischia dell’Australia torna a guidare il camion nella miniera di carbone come se niente fosse, ignaro che nel rugby dell’emisfero sud sia in atto una vera e propria guerra civile. Quelle chiacchiere da spogliatoio si sono rivelate fondate, la neo-formata World Rugby Confederation ha già messo sotto contratto cinquecento giocatori con l’obiettivo di formare una nuova lega professionistica, in conflitto con un’altra neonata associazione, la Sanzar, ovvero l’unione delle federazioni australiane, neozelandesi e sudafricane, che può contare addirittura sul supporto di Rupert Murdoch per creare un campionato professionistico con le dodici migliori squadre dei tre paesi.

Come sempre accade quando ci sono di mezzo i soldi, la situazione si fa pesante. È un periodo caratterizzato da decisioni sofferte, amicizie troncate, intrighi, colpi di scena e Merrick finisce, suo malgrado, per farne parte.

L’Australian Rugby Union lo invita a Sydney insieme alla moglie e gli fa un’offerta degna di un giocatore di livello nazionale che si è appena distinto contro gli All Blacks. Il contratto però contiene una clausola ben precisa: Il ventiseienne Merrick dovrebbe trasferirsi a Sydney e giocare con i NSW Waratahs, abbandonando i suoi Bulls.

"The Spirit of country rugby", il dipinto che lo raffigura e che è presente nella sede dei Bulls.
“The Spirit of country rugby”, il dipinto che lo raffigura e che è presente nella sede dei Bulls.

Non conosciamo la cifra, ma siamo sicuri che fosse ben più alta del suo stipendio: non ci sono molti benefit nella busta paga di un autista di camion al servizio di una miniera di carbone. Non sappiamo neppure quanto tempo abbia impiegato Merrick a prendere la sua decisione o quanto dev’essergli sembrato difficile all’inizio. C’era in ballo il futuro della sua famiglia. Conosciamo però le parole che ha pronunciato dopo aver rinunciato all’ingaggio: «Nelle ultime quattro settimane ho fatto tutto ciò che ho sempre sognato di fare, se mi rompessi una gamba e dovessi smettere di giocare non sarei triste. Mi basta».

Sappiamo anche che fu la moglie a indirizzare la sua decisione, con una frase molto semplice: «Preferisco essere povera e felice».

Dopo questa scelta, George Gregan è tornato al suo posto nel quindici australiano ed è diventato il giocatore con più presenze in nazionale, smettendo solo nel 2007 dopo centotrentanove partite. Anche Merrick ha abbandonato in quel periodo, dopo vent’anni e ben trecento partite in forze ai Singleton Bulls. Adesso allena le giovanili. In miniera è passato dal camion alla supervisione e dà una mano nella club house. Passa più tempo sul campo che a casa, come del resto fanno tutti quelli a cui il rugby è entrato nel sangue.

Oggi, nella sede dei Bulls c’è un dipinto che lo raffigura, si chiama The Spirit of Country Rugby, ma a chi glielo chiede lui ripete che non pensa di aver fatto niente d’importante. Semplicemente un certo sport è andato in una direzione e lui in un’altra, tutto qua. Resta il fatto che per tutti Steve Merrick rimarrà sempre l’ultimo dilettante, l’uomo senza un prezzo.