La mia Albania

Gianni De Biasi ha centrato la prima qualificazione agli Europei nella storia della Nazionale balcanica. Riflettendo su Tirana, i suoi giocatori, il suo lavoro.

Non ha più voce, «ho dormito due ore e mezza, ancora non ci sto capendo niente, qui in hotel abbiamo tirato fino a tardi». Gianni De Biasi sembra uno che ha corso i cento metri, ha dato tutto, ha ancora il fiatone e si è voltato a scrutare il suo traguardo, il confine alle spalle. Le parole gli escono più roche e ruvide del solito, la dolcezza sta nel mezzo. Marlon Brando con la raucedine. «No aspetta, sai come mi sento? Come un bambino che aveva chiesto i regali a Babbo Natale e la mattina scende in salotto a scartarli. È bellissimo».

«Mi sento un bambino che la mattina scende in salotto a scartare i regali di Babbo Natale»

L’Albania si è svegliata agli Europei. Anche a Tirana la notte è finita da poco. Canti, balli sotto la pioggia, l’abbraccio con la storia è così, tenero e avvolgente. Pure in mezzo al traffico e ai clacson. Al 3-0 sull’Armenia è cominciata la rumba, e andrà avanti fin quando ce n’è. Oggi, domani, una settimana almeno. Fino alla prossima estate. «Voglio dire questo: la qualificazione credo sia un incentivo, dà speranza, dice che i sogni si possono anche realizzare, non restano solo obiettivi». Ora l’uomo dei sogni che viene da Sarmede, profondo Veneto, si fa più serio e corregge il tiro con una rivoltellata a parole: «Quando sono arrivato in Albania, quattro anni fa, qualcuno sorrideva. Ma io dissi: voi potreste essere i primi albanesi che fanno qualcosa di importante. Ieri sera l’ho ricordato. A dire il vero glielo avevo ricordato anche prima. Andiamoci dentro decisi, gli ho detto. È stata una cosa meravigliosa».

Il 3-0 all’Armenia, la partita che ha decretato la qualificazione.

Prima che arrivasse De Biasi, l’Albania non era mentalmente attrezzata per affrontare gli avversari. Con lui qualcosa è cambiato: le vittorie hanno dato fiducia, la competenza ha fatto il resto. «L’Albania è un paese in fermento che viene fuori da anni di difficoltà, e la cosa contagiosa è che hanno voglia di crescere. È molto importante. Per anni sono rimasti indietro, e invece adesso stanno venendo fuori e vogliono arrivare dove non sono arrivati mai». A settembre di un anno fa, quando l’Albania si impose sul Portogallo in trasferta, dentro alla testa dei giocatori di De Biasi qualcosa deve aver fatto clic. Il gol lo fece Balaj, ma è come se segnasse tutto il popolo. Quello non era stato un successo dettato dalla legge del calcio, che qualche volta premia il più debole per un vezzo di democrazia. Oggi lo sappiamo: era stata la prima tessera del puzzle nel grande destino europeo dell’Albania.

Albania v Serbia - UEFA EURO 2016 QualifierA quella sono seguite vittorie ordinarie e altre cervellotiche, e anche qualche delusione, quelle non mancano mai, persino peggio di uno splatter anni Ottanta. La prima contro il Portogallo, questa volta nella partita di ritorno. Al 92’ Miguel Veloso mette dentro il gol che sembra la vendetta perfetta. L’altra con la Serbia, da incassare nei minuti di recupero come un jab al mento, con Kolarov e Ljiajic nei panni dei picchiaduro. «Due sconfitte così, delusioni forti, robe da manicomio». C’è da diventare pazzi dietro alle altalene del calcio. Fortuna che De Biasi è un veneto dal cuore puro. Quando giocava faceva il mediano. Una volta, quando ancora allenava il Modena e gli dicevano che con quella squadra lì sarebbe arrivato in Uefa, ha spiegato: «Ero un mediano classico, quello che gioca contro il 10. Ho giocato contro Rivera a San Siro, una roba che ti dà una carica mostruosa. E poi io ero molto determinato, tecnicamente non straordinario, ma molto determinato». Figuriamoci da allenatore. Che, ha detto un’altra volta, «è un mestiere difficile, spesso ingrato, che ogni tanto ti dà qualche soddisfazione. Ma solo ogni tanto».

Ci vogliono le componenti giuste, e De Biasi in Albania le ha trovate tutte, al punto da diventare una specie di santone da ascoltare e capire, comprendere e praticare come si farebbe con il jogging. Gli daranno la medaglia d’onore. Lo hanno già premiato con la laurea all’università di Tirana. «Ho fatto un discorso di dodici minuti, ma quello non ve lo do. È una visione sociologica dell’Albania, l’ho studiata a ho cercato di capirla al meglio, e poi parlo di quello che la squadra ha fatto per il popolo. Ho detto anche che mia moglie e mia figlia sono la mia strada maestra, la mia stella polare, cose così, ed è vero».

Anche se potrebbe sembrare, in De Biasi non c’è nulla di nostalgico. Quel dolore della lontananza per le cose, per le storie passate, per i bei tempi che non ci sono più e belli magari proprio non erano, in De Biasi non si avverte semplicemente perché non c’è. Non si stava meglio quando si stava peggio. Si va via, si cambia. Ci si rinnova. «Nostalgico macché. Sono molto legato ai valori dell’anima, che sono quelli che poi alla fine fanno fare il salto di qualità». La sua Albania ha giocato così, d’anima e spada, di cuore e sudore. Una volta ha detto che del calcio italiano era stufo, per questo è andato via. «Ma era un discorso più ampio, generale, a seguito del fallimento ai Mondiali. Certo l’Italia di Antonio Conte fa tanto, c’è voglia di lavorare e di fare, c’è davanti un cammino sicuro». Crediamogli.

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Gianni De Biasi crede nel futuro. Lo vede, lo annusa, lo segue. Non come uno di quei maghi da strapazzo che millantano la sapienza in un mazzo di carte, ma come il contadino che conosce le lune e le stagioni e il profumo di pioggia minuti prima che arrivi. In un’altra bella intervista ha detto che «in Albania, a parte la strada, oggi spunta qualche campo sintetico. Insomma si può fare di più, ma per me conta altro, la voglia di darsi un obiettivo, avere passione. In Italia ce n’è sempre meno. Guardo i ragazzi e li vedo cercare un capobranco dietro il quale andare. Ai miei lo dico sempre: avete una sola vita, vivete la vostra, non quella di un altro». Ha provato a dargli un motivo per non cedere all’indolenza, non cedere nemmeno questa volta, e l’Albania ha detto sì, va bene, ti seguiamo Gianni.

«Cosa ho visto negli occhi di questi ragazzi? Voglia di stupire, voglia di rivincita nei confronti della vita. Tanti hanno mollato lì il loro paese per andare a cercare fortuna da un’altra parte, chi in Svizzera, in Germania, chi in Svezia. E poi all’estero, le difficoltà estreme, la guerra. È una rivincita che conta. Questo aspetto ha un peso importante». L’altro è l’ottimismo. «Il futuro? È una strada lunga lunga che ho davanti, visto che sono un ragazzo di cinquantanove anni».