La più bella sconfitta della storia del Galles ha i contorni nitidi del calcio scientifico contemporaneo e il retrogusto vago della leggenda medievale. Meriterebbe di essere cantata dai menestrelli di Camelot e analizzata negli almanacchi. La prima qualificazione della nazionale gallese a un campionato europeo, strappata nonostante il 2-0 subito in Bosnia, è solo il capitolo finale di un’epopea iniziata 57 anni fa a Svezia ’58, finora l’unico grande torneo disputato. E come ogni epopea non può che prendere le mosse dal soprannaturale, o quantomeno dall’incredibile.
Tutto inizia nel settembre 2010, quando il meteo calcistico di Cardiff segna piogge monsoniche di gol subiti, fioritura precoce di figuracce e tribune spopolate: il 112esimo posto nel ranking Fifa è un habitat ideale per semiprofessionisti come la nazionale di St. Kitts & Nevis, ma i dragoni rossi non sono abituati a quelle condizioni ambientali, la loro sopravvivenza è a rischio. Così, a un passo dall’estinzione, la Federazione decide di fare qualcosa e si affida a Chris Mitchell, di professione né bomber né mister, bensì designer. Nel punto più basso della loro antica storia calcistica iniziata nel 1876, i druidi della Welsh Football Association pensano di invertire la rotta con un sortilegio: cambiando logo sulle magliette e voltando la testa del dragone araldico per «rivitalizzarlo». Basta guardare al passato lontano, quando i castelli erano in piedi e i pali delle porte quadrati. Meglio che il Ddraig Goch si concentri sul futuro e si lasci alle spalle le umiliazioni di avversari senza blasone pronti a prenderlo a pallonate manco fosse un ramarro. Oggi che i dragoni possono scorrazzare felici e qualificati per i verdi rettangoli di gioco d’Europa e godersi il clima paradisiaco dell’ottavo posto nel ranking mondiale a un passo dal Brasile, è evidente che la magia ha avuto effetto. Ma per chi non crede al potere del fantasy, la sfida è cercare di capire come da quel calderone di brocchi e veleni sia sgorgata una squadra in grado di prendere solo 2 gol in otto partite di girone, centrando una qualificazione che non era riuscita neppure a campioni del calibro di Ian Rush, Mark Hughes e Ryan Giggs.
Il primo ingrediente della pozione magica è molto concreto e si chiama programmazione. Banalmente, sei o sette undicesimi dei titolari di oggi giocano insieme dai tempi dell’Under 21. Bale, Ramsey, Gunter, Church, Hennessey, Ledley, King sono tutti figli della stessa nidiata, benedetta dal caso ma anche dal coraggio di un allenatore ruvido come John Toshack, abbastanza pazzo da far esordire dei diciassettenni e da trasformarli in titolari inamovibili in mezzo a vecchi pirati d’area di rigore come Bellamy e Hartson. La giovinezza è un’arma, non una debolezza. E la lezione si tramanda di ct in ct: così Gary Speed fa di Ramsey il capitano più giovane della storia, e Chris Coleman schiera Harry Wilson a 16 anni e 207 giorni. Tra parentesi, il nonno del ragazzo, che aveva scommesso sulla sua convocazione in nazionale quando Harry aveva soli due anni, incassa così 125mila sterline. Sortilegio anche questo?
John Toshack fu abbastanza pazzo da far esordire dei diciassettenni e da trasformarli in titolari inamovibili
Il secondo ingrediente è la determinazione. Gente strana, i gallesi: non hanno eroi cinematografici in kilt e cornamuse, non hanno quadrifogli e indipendenze da festeggiare, né guerre civili a portarli sulla ribalta. Dimenticati, confusi con gli odiati inglesi, canzonati per i toponimi illeggibili. Logico che abbiano sviluppato una tigna tutta celtica, che pervade questo angolo di montagne e costa fatto di miniere di carbone, cantieri e il Pil pro-capite più basso del Regno Unito. D’altronde in Galles si rifugiarono i britanni che resistevano ai sassoni invasori, figuriamoci se potevano bastare 57 anni di delusioni calcistiche per far desistere 3 milioni di fieri testoni.
A Svezia ’58 nei quarti di finale ci volle il primo gol iridato di Pelè per piegare John Charles e compagnia: ci scrissero pure un libro, “When Pelè broke our hearts”, di Mario Risoli. Prima di Euro ’76 il Galles vinse pure il girone di qualificazione, ma le regole erano diverse e lo spareggio con la Jugoslavia finì male. Fuori anche da Spagna ‘82 e Messico ’86, quando fu la fatale Islanda a spezzare per due volte i cuori gallesi. Muscoli cardiaci destinati a soffrire anche prima di Usa ’94, quando nella gara decisiva contro la Romania Paul Bodin sbagliò un rigore e in America volarono Hagi e Popescu. Per non parlare dello spareggio perso contro la Russia per Euro 2004. Insomma, una via crucis di “quasi” e di “peccato” che doveva per forza avere una fine. Perché, come commentavano i tifosi a caldo dopo la qualificazione tanto agognata, «bisogna assaggiare l’amaro per apprezzare il dolce».
L’ultimo anno di Bale con la sua Nazionale.
In pentola, per la pozione, ci va anche un pizzico di sana e moderna capacità gestionale. Non bastava il Millennium Stadium di Cardiff, uno degli impianti più avveniristici d’Europa. Serviva un vero e proprio quartier generale che creasse una vera idea di nazionale, trasmettesse valori e diventasse una scuola calcio. La svolta è stato il Dragon Park, il centro sportivo eretto nell’ambito dell’HatTrick program con cui la Uefa contribuisce finanziariamente alla costruzione di impianti nei vari Paesi. Quando nel 2013 il naturalmente acidissimo Michel Platini inaugurò il gioiellino da 5 milioni di sterline a Newport, fu chiaro: «Il centro è una buona cosa, ma senza buoni giocatori ed educatori non si vincono le partite». I gallesi se lo segnarono come promemoria. Organizzarono corsi da allenatore, lanciarono il centro di data-analysis del Welsh Football Trust e iniziarono un grande lavoro culturale sulle giovanili. Il risultato, le Roi lo vedrà a casa sua il prossimo giugno…
Corsi da allenatore, un centro di data-analysis del Welsh Football Trust e lavoro culturale sulle giovanili
L’ingrediente principale, ovviamente, sono i giocatori. Gorau chwarae cyd chwarae, sta scritto sullo stemma: il miglior gioco è quello di squadra. Ma senza i campioni anche il più entusiasmante motto in gallese lascia il tempo che trova. Il campione in questa squadra c’è e si chiama Gareth Bale. Con sei gol su nove realizzati nel girone di qualificazione, è quel che Ryan Giggs era negli anni Novanta o quel che Best fu per l’Irlanda del Nord: un lampo di talento nella bonaccia degli onesti mestieranti. Atleta purissimo, meno leader di Giggs e meno sregolato di Best, Bale si è portato appresso in questi anni il peso del prezzo pagato dal Real Madrid per strapparlo al Tottenham. Ma i 109 milioni del cartellino glieli rinfacciano quando gioca al Santiago Bernabeu, non quando con la maglia dei Dragoni si invola a quasi 37 km/h. Il centrocampista dell’Arsenal Aaron Ramsey è l’altro volto di questa squadra, l’uomo che si inserisce e detta i tempi. Così come Ashley Williams, il capitano, è il pilastro di una difesa rodatissima e difficile da scardinare. Rodatissima anche perché fondata sullo zoccolo duro dei giocatori dello Swansea, da sempre il principale bacino delle convocazioni.
Infine, a garantire l’amalgama di tutti gli ingredienti è stato qualcosa di intangibile, il dolore. Quello che solo il suicidio improvviso e apparentemente immotivato di un allenatore può far provare. Gary Speed aveva giocato 85 partite con il Galles e si era seduto una decina di volte in panchina come ct, quando nel novembre 2011 decise di impiccarsi nel suo garage. La squadra avrebbe potuto sfaldarsi, affondare di nuovo. Merito di Chris Coleman se i suoi ragazzi hanno saputo reagire e giocare anche in memoria di quel loro allenatore fragile che da sempre si vedeva come un bicchiere ineluttabilmente mezzo vuoto. È in nome di Speedo che certi giocatori hanno smesso di essere viziati («C’è chi chiede di cambiare stanza se le onde del mare sono troppo rumorose», sbottò Toshack). È anche in nome di Speedo che sabato sera a Zenica, dopo il fischio finale e la notizia della sconfitta di Israele, i tifosi gallesi sono scoppiati a piangere. Loro, quelli della prima generazione ad avercela fatta, hanno intonato Can’t take my eyes off of you, la canzone preferita del loro ct triste. Poi, da Wrexham a Cardiff, hanno sorriso: «E ora chi lo dice alle nostre mogli che l’estate prossima si va tutti in vacanza in Francia?»