Classe Novanta

Trenta giovanissimi talenti per il calcio del futuro, con un focus più stretto su sei italiani. Sono quelli non ancora "esplosi", almeno non sulle prime pagine dei giornali. Noi li abbiamo scelti, e studiati grazie a Wyscout.

Il mondo è loro perché loro è il futuro. Sono trenta ventenni o poco più, e vengono un po’ da tutto il mondo. Saranno il calcio dei prossimi anni, e ce n’è per tutti i gusti. Stelline affermate alla Martial o alla Çalhanoğlu, talenti ancora da scoprire come Pione Sisto o Hirving Lozano. E poi i prodotti di casa nostra. Quelli più pregiati, più forti, più costosi. Undici ha scritto di loro, con la collaborazione preziosa di Wyscout. L’ha fatto perché ne sapessimo un po’ di più e ci preparassimo, tutti insieme, a quando diventeranno grandi per davvero.

90-11

Alessio Romagnoli (’95) – di Fabrizio Gabrielli

Domenico Vocale, che lo ha allenato quando era un ragazzino che frequentava il campetto del San Giorgio Nettuno, ha raccontato di avergli fatto giocare, una volta, una partita particolare: solo contro cinque avversari. Alessio aveva raccolto la sfida di difendere la sua porta. Nessuno era riuscito a segnare.
Quando l’ho visto al suo esordio con la maglia del Milan, in un derby estivo, fermare un tiro a botta sicura di Marcelo Brozović con la naturalezza e l’aplomb con cui si caccia un’ape o si rifiuta un invito alla rissa, ho immaginato Alessio Romagnoli, come quindici anni prima, simile a un Bruce Lee che schiva o para i colpi di una masnada nemica senza dare l’impressione di soffrirne il carico emotivo, senza avvertirne la pericolosità.
L’atipicità di Romagnoli non risiede nel prezzo che la Roma ha imposto al Milan per il suo cartellino, ma in un certo qual modo ne è, al contempo, causa ed effetto. In Italia non sembrano esserci, tra le nuove leve nate a metà anni Novanta, difensori centrali così tatticamente e tecnicamente maturi, eccezion fatta per Rugani: la mancanza di offerta per un mercato dall’ampia domanda genera quindi il primo livello di atipicità di Romagnoli, che è il suo prezzo – assurdo se ponderato sulla scorta dell’esperienza, anche in campo; meno assurdo nell’ottica di un investimento a lunga gittata.

Il meglio di Alessio Romagnoli, in una compilation

Dal fatto che i rossoneri abbiano pagato così tanto per assicurarsi i suoi servigi, a sua volta, muove i passi il secondo livello di atipicità di Romagnoli, vale a dire l’hype – anche volutamente, è il marketing bellezza – creato attorno al suo nome, al numero che ha scelto (il 13 che fu di Nesta), al futuro che gli abbiamo già immaginato srotolarsi sotto i piedi (come Nesta? Meglio di Nesta? Miha ha già detto che è addirittura «più tecnico»).
È vero che lo abbiamo visto in campo, praticamente, per una sola stagione, quella passata alla Sampdoria. Una stagione, però, monstre in cui i doriani hanno incassato solo 42 reti in 38 partite, un risultato che ne fa la quinta difesa più solida di tutti i tempi in Serie A: e se il capitano Gastaldello è stato spinto a lasciare la Genova blucerchiata perché chiuso da uno di dieci anni più giovane un motivo deve pur esserci.
Romagnoli, per quanto acerbo (sebbene l’anagrafe sia un ufficio snobbato dal talento), ha la personalità di chi sa leggere le situazioni difensive: quella che ingaggia con gli attaccanti, che controlla sempre dalle spalle, faccia alla porta avversaria, è una sfida di psiche prima che di muscoli; di scelta minuziosa del tempo d’intervento, di chirurgia nel tocco che manda fuori fase la punta, di anticipi secchi. Senza contare l’abilità che ha nella gestione delle seconde palle, forte anche di un passato da centrocampista centrale, background che gli ha lasciato in eredità una tecnica mediamente più elevata dei suoi colleghi di reparto.
Ha una predilezione per il tackle, che intraprende con impeto ma pure misuratezza: in ogni partita che gli ho visto giocare, quando affonda in scivolata il cronista sottolinea il rischio dell’intervento, anche se poi quella che finisce per regalare è la sensazione di non stare mai davvero per rischiare qualcosa.
Difendere, per Romagnoli, è una vocazione trasformatasi in passione, più che il contrario: per questo non gli piaceva giocare terzino sinistro, come era solito impiegarlo Rudi Garcia, perché «si attacca di più ma si giocano meno palloni».
Per averlo il Milan voleva pagarlo quanto le fragole ma ha dovuto accontentarsi del prezzo delle ostriche: ora sta a Romagnoli bloccare palloni, e incamerare elogi e detrazioni nella sua cavità palleale; dimostrare insomma di celare, dietro le braccia tatuate e la faccia da ragazzino, una perla.

Youri Tielemans (’97)

Raro, rarissimo incontrare un classe 1997 con la personalità e la maturità tecnica di Youri Tielemans. Centrocampista arretrato o mezzala, ha grande sicurezza nella gestione della palla, visione di gioco e soprattutto capacità uniche nel passaggio, soprattutto filtrante. Paragonato a Pirlo, è simile ma più veloce e scattante nello stretto. Sa affrontare bene l’uno contro uno, il filtrante in zone affollate, ma anche il cambio di gioco repentino, con lunghi e precisi lanci. Nell’ultima stagione, in cui non è riuscito a conquistare la Pro League, ha affinato le proprie doti realizzative: 6 gol nelle 39 partite giocate in campionato, più 2 in Coppa del Belgio, scoprendo un tiro dalla distanza potente e preciso. È diventato il più giovane calciatore belga di tutti i tempi a esordire in Europa, debuttando a 16 anni e mezzo in Champions League contro l’Olympiakos, nel 2013.

Tielemans tira da lontano.

Maximilian Meyer (’95)

Lo Shalke 04 sforna giovani talenti, e non si chiamano soltanto Julian Draxler e Joel Matip: il più giovane della lista è Maximilian Meyer, nato nel settembre del 1995, e quindi neo-ventenne. Centrocampista offensivo, trequartista o ala, è dotato di una velocità straordinaria che lo rende molto pericoloso offensivamente. Ha anche un’ottima tecnica, sviluppata, ha dichiarato, allenandosi a futsal dopo le normali sessioni di calcio. Ha un’ottima capacità di inserimento, e per questo è stato paragonato a Mario Götze: nelle ultime due stagioni ha segnato 11 reti in Bundesliga. Si è fatto notare già da giovanissimo: nel 2012 ha vinto il titolo di miglior giocatore dell’Europeo Under-17, che la Germania ha perso in finale contro l’Olanda. Ha esordito con la Nazionale maggiore nel 2014, in un’amichevole pre-Mondiale. Inserito nella pre-selezione di 30 giocatori, non viene infine convocato.

Aymeric Laporte (’94)

È nato nel 1994 in Aquitania, vicino Bordeaux, gioca in Nazionale (U-21, per ora) francese, ma gioca nell’Athetic Bilbao, la squadra più “autarchica” d’Europa. Prima di lui, soltanto un altro francese aveva vestito quella maglia, ed era stato Bixente Lizarazu. Inizia nella Cantera dei baschi nel 2010, esordisce in prima squadra con Marcelo Bielsa nel 2012, ma diventa titolare fisso con Ernesto Valverde, la stagione successiva. Schierato da centrale o terzino, nonostante l’altezza (189 cm) ha una buona velocità. Bravo a utilizzare la testa e i piedi, si è saputo distinguere per la capacità di lanciare gli attaccanti e cambiare gioco. Nella stagione 2013/14, in cui l’Athletic è arrivato quarto in Liga, è stato inserito nel top 11 dell’intero campionato. Ha una clausola di rescissione di 50 milioni di euro.

90-2

Danilo Cataldi (’94) – di Fabrizio Gabrielli

Danilo Cataldi ha l’intercalare di un ragazzo che sembra uscito da una canzone de I Cani, la faccia furba del leader carismatico di un branco periferico quando entra a far parte di un branco più scafato composto da leader conclamati.
L’esuberanza e l’inscalfibilità di ghiaccio del capitano della Primavera Campione d’Italia, quando è entrata a contatto con la superficie liquida della prima squadra, della Serie A, si è sciolta in rivoli di buoni sentimenti e senso d’appartenenza: trovo che la scelta di postare sui social network una foto dello spogliatoio piuttosto che un’istantanea della sua maglia numero 32 ornata della fascia di capitano sia eloquente non solo dell’umiltà (auspicabile, ma non scontata) di questo ragazzo, bandiera in pectore di una squadra che ha sempre faticato a trovare bandiere al suo interno, ma anche del suo atteggiamento in campo. Danilo Cataldi è prima di tutto funzionale, nella fattispecie a un collettivo: e nelle squadre di Pioli si tratta di un aggettivo più connotante di molti altri che hanno a che vedere con la sfera semantica dell’individualismo.

Danilo Cataldi batte bene anche le punizioni.

Nella prima gara ufficiale della stagione, la Supercoppa a Pechino, il tecnico lo ha impiegato (senza grandi esiti) a ridosso delle punte, à la Mauri: una prova che ci restituisce la misura di quanto Danilo sia ancora distante dal potersi assumere le responsabilità creative e fantasiose dell’ormai ex capitano.
Al contrario, la sua posizione in campo prediletta e più congeniale sembra essere quella di mezzala destra in un centrocampo fluido, in cui ci si scambiano le posizioni, perché ha buone doti di incontrista, che pressa nel recupero della palla, ma anche un’accelerazione propulsiva, simile a quella di Parolo, che gli consente di tenere alta la squadra e il livello di pericolosità.
Per capire come sia diventato il potenziale simbolo della nuova Lazio, il ragazzo bello e maledetto con lo sguardo ragazzino e i tatuaggi che compare nella foto-da-boy-band con la quale la Lazio ha lanciato l’anno scorso la sua nuova-vecchia maglia, il capitano più giovane nella storia dei biancocelesti (che ha dovuto accettare la fascia da Mauri perché altrimenti Radu «me menava»), per cercare di immaginare come potrà edificare il proprio futuro, bisognerebbe guardarlo in azione con la maglia del Crotone, nella stagione 2013-14, quella della consacrazione: i germogli della prossima fioritura sono tutti là.
Uomo chiave, insieme a Crisetig, del centrocampo che è stato scuola di vita per un altro romano con la vocazione a simbolo come Florenzi, Cataldi è sempre al centro della manovra, sempre coinvolto: la quantità di third-passes, di passaggi precedenti un assist, ne fa il centro cerebrale – seppur poco esuberante – del gioco. Cataldi raramente si impegna in un uno contro uno, poche volte accenna il dribbling; però vede le linee di passaggio come se avesse gli occhiali a infrarossi, quando può verticalizza e dalla sua ha un’educazione alla balistica interessante (il suo primo gol tra i professionisti, contro il Pescara in B, è un tiro di esterno destro in corsa pregevolissimo; e il gol dell’effimero vantaggio di Radu nell’ultima finale di Coppa Italia nasce da un suo calcio di punizione dalla fascia).
Gli endorsement per Cataldi provengono quasi tutti dal recinto ristretto degli in becco all’aquila: dai laziali per i laziali. Ma sulla sponda biancazzurra del Tevere, come insegna la storia recente di Felipe Anderson, le esplosioni e le infiorescenze sono estemporanee, o non sono. Il roster del centrocampo, con Biglia Lulić e Parolo, lo castra un po’ in partenza. Ma ci sono tutte le premesse affinché Danilo Cataldi diventi, negli anni, il più simbolico calciatore della Lazio. E il primo che sembri uscito da un disco de I Cani.

Anderson Talisca (’94)

Una stagione d’esordio così la sognano tutti: Anderson Souza Conceição, detto Talisca, nato nel 1994, ha segnato 9 gol in 32 partite nella Primeira Liga portoghese, dando una grossa mano al Benfica per la conquista del titolo. Gioca principalmente da trequartista, ha un sinistro potente e preciso.

Munir El Haddadi (’95)

Ha sempre segnato molto, fin dalla Juvenil B del Barcellona, continuando nella Juvenil A e nella Uefa Youth League, dove diventa capocannoniere del torneo (2014). Nonostante l’altezza (173 cm) è molto forte di testa. È veloce, e dotato di un ottimo uno contro uno. Ha già esordito in prima squadra e in Nazionale maggiore. Per lui, quest’anno, già quattro presenze con la maglia azulgrana.

Munir nelle giovanili del Barcellona. Al minuto 0.52 c’è una cosa che vi consigliamo di non perdere.

Ángel Correa (’95)

Acquistato dall’Atletico Madrid nell’estate 2014, deve fermarsi per quasi un anno per rimuovere un tumore al cuore. Rientra a febbraio per il Campionato Sudamericano U-20, dove trascina l’Argentina alla vittoria. Compatto e veloce, vede bene la porta e ha un ottimo dribbling in velocità.

Il gol in Champions di Correa.

Dennis Praet (’94)

Quattro stagioni da professionista nell’Anderlecht, le ultime tre da titolare, classe 1994. Centrocampista offensivo con una classe unica, visione di gioco e soprattutto grande sicurezza e personalità con il pallone tra i piedi. È esile ed elegante, e tuttavia concreto ed efficace. Ha un tiro di destro molto preciso, che l’ha portato a segnare, nell’ultima stagione, 8 reti in 37 partite. Ottimi anche i passaggi filtranti. Ha vinto tre campionati in Belgio, e tre Supercoppe.

Qualche gol di Dennis Praet.

Alen Halilovic (’96)

Esploso giovanissimo nella Dinamo Zagabria (a 16 anni nel 2012), il Barcellona lo compra per 17 milioni nel 2014. Disputa la prima stagione in Segunda con il Barcellona B da titolare. È un centrocampista offensivo che si abbassa molto per prendere la palla; stupiscono le sue accelerazioni improvvise e la capacità di tenere incollata al piede la palla nello stretto. Insieme al dribbling, sono caratteristiche che ricordano quelle di un suo compagno di squadra al Barcellona, Lionel Messi. Quest’anno gioca in prestito allo Sporting Gijón. Con gli asturiani, in questo inizio di stagione, sei presenze, un gol e due assist.

Per brevità chiamato “golazo”

90-3

Federico Bernardeschi (’94) – di Fulvio Paglialunga

L’ansia da paragone ha già fatto diventare Federico Bernardeschi il nuovo Baggio. Sì, porterà il dieci della Fiorentina sulle spalle, fa preferibilmente il trequartista, ma è meglio che sviluppi il suo talento senza l’ombra del confronto. Che forse pure rifiuterebbe, essendo fin troppo impegnato a giocare nel ruolo di se stesso e non in quello che chiede la platea. Non può che essere così, per uno che già quando era negli Allievi Viola mostrò la sua determinazione con un “no”: scelse di non firmare la liberatoria per partecipare al reality di Mtv che seguiva i giovani talenti. «Mi distrarrebbe: devo solo giocare», e la penna riposta in tasca, nessuna firma, nessuna telecamera su lui. Disse Giovanni Galli, il diesse che lo ha preso giovanissimo: «Se questo carattere si trasforma in determinazione e non in presunzione, Bernardeschi può arrivare ad alti livelli».
Ora le telecamere arrivano, perché il valore non sfugge e la speranza di avere un gioiello in casa è alimentata da ogni prodezza, anche una doppietta in amichevole. Al Barcellona, nei primi dieci minuti, in una di quelle partite che sono calcio estivo e però caricano le aspettative, decidono su chi mettere gli occhi prima che tutto cominci a diventare serio, con i punti in palio.
Bernardeschi ha ventuno anni: è nato nell’anno in cui Baggio mandava alto il rigore nella finale di Pasadena, è un’altra cosa rispetto al “codino”. Più che lanciare il pallone, accelera, più che cercare il filtrante, cambia passo ed entra nelle difese altrui. E tira, da lontano, con una naturalezza che sorprende ogni volta: è accaduto, ad esempio, nella sua prima partita in Europa League (contro il Guingamp), quando si è girato e ha tirato (e segnato) con un movimento che poteva sembrare da area piccola e invece era a venticinque metri dalla porta.
Calcia e segna con semplicità, anche se non parte vicino alla porta. Quando dalla Fiorentina è passato da quell’allevamento di futuri campioni che è il Crotone (laddove hanno giocato anche Florenzi, Cataldi, Pellè) si è presentato con nel curriculum ventuno gol in ventisei partite giocate con la Primavera. In B, in Calabria, ne segna dodici in trentotto gare. Ma è già nel calcio degli adulti (infatti si guadagna due stage con la Nazionale di Prandelli), e non ha ancora vent’anni.

Federico Bernardeschi segna e si diverte contro una squadra niente male: il Barcellona

Forse non sarebbe un giocatore da scoprire, se solo avesse avuto fortuna nel campionato passato: invece quando si stavano aprendo spazi nella Fiorentina di Montella (ché Gomez e Rossi erano infortunati) e stava cominciando a dimostrare di poter stare lì in mezzo, dove giocano i campioni, ha dovuto fare i conti con il doloroso imprevisto. Frattura scomposta del malleolo, durante un allenamento. Quel 3 novembre, un lunedì, gli è costato un gran pezzo di stagione, tempi lunghi di recupero e un po’ di magone per l’occasione perduta. E ha caricato di significati la stagione appena iniziata, per il ragazzo di Carrara con il padre amico di Buffon. Quel ragazzo che ama i tatuaggi e i selfie (dopo la sconfitta in amichevole della Fiorentina con il Psg ha postato su Instagram un autoscatto con Ibrahimovic citando l’autobiografia dello svedese), che gira in Smart e che quest’anno cercherà di non perdere l’attimo. Non per diventare il nuovo Baggio, ma per far vedere chi è Federico Bernardeschi. Un giocatore moderno e pronto a scappare con la palla al piede. Uno che tira e segna. Sfacciato al punto di dire no alla tv, ma anche di dire «voglio la 10» appena lasciata libera da Aquilani. Pensandoci, potrebbe bastare.

Hakan Çalhanoğlu (’94)

Ha soli 21 anni ed è già un veterano della Bundesliga. Hakan Çalhanoğlu è nato in Germania e ha iniziato, da professionista, nel Karlsruher SC. Dopo la prima stagione lo ha comprato l’Amburgo, lasciandolo un altro anno nel club, dove esplode definitivamente. Nel 2013/14 fa il salto in Bundes con l’Amburgo, e segna 11 reti. Lo compra poi il Bayer, dove, tra campionato e coppe, gioca 60 partite con 18 reti. È un 10 che sa anche allargarsi in fascia, dotato di un buon cross e un buon passaggio. La sua caratteristica migliore è il tiro, in movimento e soprattutto su punizione, per cui è stato paragonato a Juninho Pernambucano: un mix spesso letale di potenza e traiettoria tagliata. In Nazionale ha scelto la maglia della Turchia fin da giovanissimo: nel 2015 ha giocato con la selezione maggiore 7 partite, segnando 4 reti.

Lucas Ocampos (’94)

È nato nel 1994 ma gioca da titolare da quando aveva 17 anni, nel River che disputava la Primera B nel 2011. Il Monaco l’ha portato in Ligue 2 per 14 milioni, è rimasto un altro anno e mezzo in Ligue 1, prima di andare al Marsiglia di Bielsa a gennaio. Sa giocare su tutto il fronte offensivo, sia da trequartista che da esterno, e unisce a un fisico possente (è alto 187 cm) una rapidità di dribbling e tiro notevoli. È mancino e gli piace rientrare da destra verso sinistra; salta l’uomo facilmente e ha un tiro potente e preciso. L’uno contro uno è la sua arma migliore. È stato paragonato a Cristiano Ronaldo e, in virtù di queste caratteristiche, a ragione. Ha sempre segnato molto: nel Principato ha disputato 98 partite con 15 reti. In questa stagione, a Marsiglia, può definitivamente esplodere.

Un gol niente male contro il Groningen.

Saido Berahino (’93)

Nato a Bujumbura, Burundi, nel 1993, rimane orfano da parte paterna nel 1997, quando il padre viene ucciso nella guerra civile. Fugge in Inghilterra per raggiungere la madre, il fratello e la sorella nel 2003, e inizia a giocare a calcio e basket. Si aggrega allo youth centre del West Bromwich Albion, e compie tutta la trafila delle giovanili. Dopo una discreta stagione da titolare nel WBA post-Lukaku, esplode nell’ultima Premier League, con 20 gol in 45 partite. È una prima punta possente nonostante l’altezza (180 cm), con un’ottima finalizzazione e una buona velocità. Ricorda, nello stile di gioco, quelli che ha indicato come suoi modelli, Eto’o più di Drogba. Nell’Inghilterra Under 21 ha finora giocato 11 partite segnando 10 reti. È già stato convocato per la Nazionale maggiore.

Il meglio di Berahino

90-4

Marco Sportiello (’92) – di Fulvio Paglialunga

Il numero uno, al momento della scelta, ha chiesto il trentasette: «È l’anno di nascita di mio nonno Pasquale, un modo per ricordarlo». Marco Sportiello è un ragazzo così: poche interviste, e pure tenere. Uno che si sorprende ancora, come se i riflettori accesi fossero un caso. Come fosse un portiere passato da lì quasi distrattamente e ingaggiato al volo. Ci accadeva da ragazzini quando mancava un elemento per finire le squadre per strada. Se così è andata anche per Marco, è accaduto quando era bambino, tifava Milan e giocava con il cugino. Dicono fu una idea degli zii, quella di fargli fare il portiere. E così, come un ragazzo messo per caso tra i pali, sembra essere ancora. Invece fa il titolare in Serie A, c’è arrivato mentre tutti si domandavano chi avrebbe messo l’Atalanta in porta una volta ceduto consigli al Sassuolo e la Dea invece aveva già deciso.
Non c’è miglior posto, se sei giovane, bravo e giochi a calcio, dell’Atalanta: per questo Sportiello adesso è uno dei migliori portieri italiani in circolazione, sicuramente uno di quelli con il rendimento più alto nella scorsa stagione. Perché a Bergamo è arrivato presto: era il ’99 e aveva sette anni. Ora ne ha ventitré ed è grande da un po’, perché prima di arrivare in Serie A ha fatto il giro da Seregno, in D, Poggibonsi, in Seconda Divisione e Carpi, in Prima. Poi, a casa. Dove diventa titolare perché l’Atalanta ha capito che può farlo. Un anno da primo portiere, dopo una stagione a sprazzi e pure buoni. L’esordio, il 12 gennaio 2014 contro il Catania, è una serie di fotogrammi raccontati al Match Day ufficiale della settimana dopo: la varicella che ferma Consigli, la canzone di Mondo Marcio (“Il primo”) ascoltata prima di salire sul pullman della squadra, gli amici del paese in curva, la partita che poteva anche non finire mai perché era bello starci, poi il gol di Bonaventura e la speranza invece che tutto finisse subito per portare a casa la vittoria, la maglia che stava per lanciare in Curva a un amico e che poi ha tenuto per sé, come ricordo, l’ascesso dentale a rendere insonne una notte che forse lo sarebbe stata comunque per l’emozione.
Poi è arrivata l’esperienza, l’anno scorso l’esordio era già un ricordo lontano e in una stagione da titolare si possono anche mettere a curriculum i rigori parati a Palacio e Higuaín, oltre a tutte le qualità messe in mostra. Chi guarda con occhio allenato le partite di Sportiello lo trova quasi perfetto nei fondamentali e in miglioramento con la palla tra i piedi, ma pronto a far parlare di nuovo di portieri italiani, proprio quando si pensava si stesse esaurendo un filone che appartiene alla storia del nostro calcio. Cresciuto (e tanto: è 192 centimetri) guardando Sebastiano Rossi, ora – come tutti i prodotti più giovani del nostro pallone pronti a diventare calciatori di pregio – sente voci dall’estero e ancora non cede al richiamo, perché uno che sceglie il numero di maglia pensando alla data di nascita del nonno non ha fretta. Si gode, piuttosto, la propria semplicità e aspetta un’altra stagione da protagonista. In cui chi ha scelto di passare da Seregno invece di avere fretta e reclamare spazio nel calcio dei grandi saprà aspettare ancora, giocarsi tutto. Attendere la maglia azzurra, proprio mentre siamo aggrappati a Buffon e in attesa di un ricambio con un respiro lungo. Sì, può essere Marco Sportiello, il numero uno che ha scelto il trentasette.

Le migliori parate di Marco Sportiello

Gabriel Barbosa (’96)

Al Santos parlano di “nuovo Neymar”, ma Gabriel sembra essere leggermente diverso. Ha il numero 10 sulle spalle, è velocissimo e di Neymar ha il dribbling, ma sa giocare anche da prima punta ed è bravo come uomo d’area. Potrebbe diventare quel centravanti d’area che il Brasile aspetta da tempo.

Skills e cose belle di Gabriel Barbosa

Pione Sisto (’95)

Nato in Uganda ma cittadino danese, è stata una delle stelle del Midtjylland campione di Danimarca. Centrocampista di fascia capace di un buon dribbling, sa inserirsi bene e tirare punizioni pericolose. Ha disputato l’Europeo U-21 con la Danimarca, ma ha già esordito anche in Nazionale A.

Anthony Martial (’95)

È una giovanissima (1995) prima punta che, dopo aver monopolizzato le prime pagine per le cifre (50 milioni subito più 30 di bonus) del suo super-trasferimento dal Monaco al Manchester United, ha iniziato a farlo anche per le prestazioni in campo. È veloce e attacca molto bene la profondità, avendo anche una buona difesa della posizione. Nell’ultima stagione nel Principato ha segnato 12 gol in 40 partite. Nei primi mesi trascorsi ad Old Trafford, già quattro reti in cinque match tra campionato e coppe. Ha trovato anche il tempo per esordire nella Francia di Deschamps.

Martial allo United: niente male come inizio.

Breel-Donald Embolo (’97)

Giovanissimo, classe 1997, e già con un’invidiabile esperienza nazionale ed europea. È alto 184 cm ma è molto agile, ha iniziato come centrocampista e si è poi spostato in avanti, anche se non è un centravanti puro. Per questo, ha un ottimo controllo nello stretto, unito alla velocità negli spazi e al fiuto per il gol che l’hanno portato, nell’ultima stagione, a segnare 15 gol in 35 partite con il Basilea. Ha segnato il suo primo gol in Champions League contro il Ludogorets, a 17 anni e 263 giorni.

Alphonse Areola (’93)

Di proprietà del Psg, è stato il portiere della Nazionale Francese U-20 campione del mondo nel 2013. Nella stagione successiva va in prestito al Lens con cui vince la Ligue 2, e nel 2014/15 difende i pali del Bastia con cui ottiene un ottimo 12° posto. È estremamente reattivo e un buon pararigori, come ha dimostrato sia al Mondiale U-20 sia nell’ultimo campionato francese. Al Villarreal, a cui è stato ancora prestato per questa stagione, può dimostrare tutte le sue qualità.

90-5

Daniele Rugani (’94) – di Francesco Cosatti

«Un bravo ragazzo». Un marchio per pochi nel mondo del calcio, che può essere anche difficile da sopportare. Per chi se ne vuole approfittare – sul campo e no – e per chi ci deve convivere, ogni giorno, in ogni allenamento e in ogni situazione della vita. Ancora di più se sei all’inizio di una carriera da predestinato. Più complicato che essere un bad boy, a cui è quasi tutto permesso. Ma Daniele Rugani è cosi: difensore centrale di professione, da sempre un maniaco del proprio lavoro, uno di quelli che rivede in tv tutte le partite in cui ha giocato, attento all’alimentazione con una dieta molto rigida, niente bibite, niente alcol. Arrivava agli allenamenti in bicicletta, poi si è comprato una Smart. Nessun tatuaggio, gentilezza ed educazione d’altri tempi, un bel sorriso sempre stampato in faccia, solo a scuola un po’ di fatica. E allora se sei così, tutto dipende dal carattere, dalla testa. E quella, Daniele Rugani da Lucca, ha dimostrato di avercela. A 21 anni ha già visitato la Cina due volte (Pechino e Shanghai, due supercoppe vinte con Conte e Allegri) nel mezzo l’Empoli, e Sarri. La Serie B con promozione, e la Serie A con salvezza da protagonista assoluto: 39 presenze tra campionato e Coppa Italia. Per quelle europee c’e da aspettare la Champions League, quella che adesso vedrà proprio da vicino. Direttamente in campo, o al massimo dalla panchina. Un’altra cosa rispetto alla tv dove ha seguito l’ultima esaltante stagione della sua squadra del cuore. Tra l’altro a casa di amici, perché la signora che lo ha accolto quando poco più che bambino si è trasferito a Empoli – una seconda mamma – e dove ha vissuto negli ultimi anni, non aveva l’abbonamento alla pay tv.

Anticipi, posizione e colpi di testa di Rugani. C’è anche qualche gol.

Dopo l’esordio da titolare con la Juventus (a Danzica, contro il Lechia nel giorno del suo compleanno) lo aspetta una stagione decisiva per la sua crescita. Un salto in avanti dopo le 39 partite con l’Empoli senza mai far arrabbiare troppo l’arbitro, senza un cartellino giallo. Modi troppo carini per un difensore? Forse si, per questo Massimiliano Allegri, che stima molto questo bravo ragazzo, vuole vederlo crescere dal punto di vista caratteriale. Metterlo alla prova contro gli attaccanti più forti, quelli che giocano in Champions. E di maestri da cui imparare a Torino c’è un network intero: la BBC, Barzagli, Bonucci e Chiellini. Scuola Italia di colore bianconero. L’università della difesa da qualche anno in Serie A, il corso giusto per diventare il centrale del futuro – vicino a  Romagnoli – in Nazionale per i prossimi 10 anni almeno. D’altronde se due giorni dopo la finale di Champions League persa con il Barça, Andrea Agnelli – che per i difensori ha sempre un’attenzione speciale – ti cita come il futuro della Juve, non puoi non essere un predestinato. Anche grazie a un passato da eccezionale apprendista del ruolo, dopo aver iniziato da piccolissimo a centrocampo. Chiedere a Sarri, che per Rugani nutre amore da papà, e ai suoi allenamenti per la difesa. Immaginatelo per ore legato con il nastro biancorosso dell’achtung muoversi insieme a Hysaj, Tonelli, e Barba o Laurini per sincronizzare i movimenti, e ripartire da capo quando questo si spezzava. Il tutto filmato dal drone, che dall’alto vede tutto. E dall’alto di Daniele, vede tutto la famiglia. Il papà Ubaldo, tifosissimo bianconero che ha trasmesso al figlio anche altre passioni: il tennis, innanzitutto. Ce ne sono di coppe di tornei giovanili a casa Rugani, e i due spesso si sfidano sulla terra rossa del club di casa, e sempre insieme sono andati al Roland Garros. E poi la pesca, che li fa stare lunghe ore in compagnia. Fuori dal mondo, tra fiumi, laghetti artificiali e il mare della Versilia in attesa che le carpe abbocchino, senza troppi pensieri. Perché Daniele è fatto così: dalla Juve, all’Empoli alla Juve alla Nazionale, la storia cambia. E Rugani non vede l’ora di scriverla, senza errori. Non  «’so ragazzi». Lui è un bravo ragazzo.

Lucas Vietto (’93)

Ha esordito come professionista nel Racing de Avellaneda a soli 18 anni, sotto la gestione di Diego Simeone. Dopo tre anni in Argentina, terminati con 18 reti in 73 partite, il Villarreal lo acquista per circa 6 milioni di euro. Al centro dell’attacco del Submarino Amarillo, nella stagione 2014/15, si dimostra in grande crescita: tra Liga, Copa ed Europa League realizza 20 reti in 48 partite. Venduto Mario Mandzukic, l’Atletico Madrid decide di puntare su di lui come punta e lo acquista da Villarreal per circa 20 milioni di euro. A Madrid ritrova El Cholo, l’allenatore che lo lanciò. È una punta centrale minuta, ma un vero rapace d’area, capace di farsi trovare pronto e sfuggire alla marcatura molto facilmente. Nel campionato sudamericano U-20, quest’anno, ha trascinato l’Argentina alla vittoria con 2 gol in 4 partite.

Il primo gol di Vietto con i Colchoneros. In una partita di discreta importanza.

Nabil Fekir (’93)

Nabil Fekir, 22 anni, è l’ennesimo prodotto dell’eccellente centro giovanile del Lione. Trequartista francese di origini algerine, è esploso relativamente tardi: l’esordio in prima squadra avviene nella stagione 2013/14, ma la consacrazione arriva nell’ultima Ligue 1. Qui, schierato tra le linee, ha saputo mettere in mostra le sue qualità: il dribbling, agevolato dall’altezza ridotta (è poco più di un metro e settanta), gli assist, la classe e l’eleganza di movimento, soprattutto i gol. In 34 partite disputate in campionato, è andato a segno 13 volte: numeri degni di un ottimo attaccante. Con Alexandre Lacazette, punta da 27 gol, ha formato una coppia d’attacco tra le più prolifiche della Francia. E Nabil Fekir ha vinto, infatti, il premio come miglior giovane della Ligue 1. Potremmo vederlo, infortunio permettendo, anche in Champions League.

Arkadiusz Milik (’94)

È una punta potente, ingombrante (189 cm) eppure elegante e precisa, è un attaccante moderno, il concentrato delle migliori qualità di un giocatore offensivo. Pare che non gli manchi nulla: colpo di testa, visione di gioco, tiro da fuori, freddezza in area. È un classe 1994, ha segnato 23 gol in 33 partite con l’Ajax nell’ultima stagione (ed è stato riscattato proprio dai lancieri, con cui era in prestito dal Leverkusen) e in Nazionale fa coppia fissa con Lewandowski.

20 settembre 2015: Milik segna all’Excelsior con una gran botta da fuori.

90-6

Domenico Berardi (’94) – di Francesco Cosatti

Il suo mito è Leo Messi, di cui guarda ogni partita. Vietato contraddirlo, su chi sia il più forte al mondo. Eppure Domenico Berardi, 30 gol in Serie A a 20 anni e 9 mesi, ci ha messo meno partite di Messi per raggiungere quella cifra. 71 partite il campione del Barça per i 30 gol nella Liga, 59 il talento calabrese. Un record che si tiene stretto. E stretta vuole tenersi la maglia azzurra, quella della Nazionale maggiore, nella stagione che porta all’Europeo. In Francia, se ci arriverà, lo farà da attaccante del Sassuolo. Non proprio un top team. Una sfida in più che però affronta in modo diverso dal passato. Perché gli ultimi mesi sono stati mesi di cambiamento. In tutta questa estate i sorrisi non sono mai mancati, e neanche i gavettoni con i compagni di squadra il primo agosto, giorno del suo 21 compleanno. La “stellina”, come lo chiamava Di Francesco al raduno estivo di tre anni fa, è cresciuta, la riconferma al Sassuolo è stata vissuta come un premio al suo lavoro. La scelta migliore per continuare a maturare, e chi l’ha visto giocare nelle prime uscite stagionali si è accorto eccome del cambiamento del ragazzo. Non è ancora il momento del grande salto, non è ancora il momento di Torino, maglia bianconera. Berardi vuole fare gol, e per farlo serve giocare. Al Mapei Stadium nessuno può dir nulla, allo Juventus Stadium avrebbe visto troppe partite dalla panchina. Moderna e comoda, ma non per lui. Berardi ha voluto restare a Sassuolo per giocarsi al massimo le sue chance europee con la Nazionale. Conte non aspetta altro che i suoi gol. Allegri avrebbe preferito per lui invece una piazza diversa. Più probante dell’isola felice emiliana, per alzare l’asticella delle difficoltà. Per vederlo maturare in un ambiente diverso da quello che l’ha accolto, e poco a poco coccolato da quando ha 16 anni. Una sorta di tana in cui ha iniziato a vivere e sentirsi un calciatore professionista. Lontano dalla sua Calabria, ma in solitario, come un lupo della Sila in trasferta. Meno interviste possibili, presenze ufficiali a eventi della società ridotte al minimo. Una casa in centro a Modena, un vicino di casa come Missiroli, quasi un fratello maggiore, a cui si è legato. L’amico migliore con cui condividere gioie e dolori, dubbi e videogiochi. Il mondo di Berardi è vietato agli estranei. L’unico oblò verso l’esterno le foto con la fidanzata Francesca, pubblicate sui social. Abbracci e sorrisi da veri innamorati, senza troppi pensieri. Quelli che invece a volte annebbiano la testa di Domenico in campo. Gesti di reazione, costati squalifiche e polemiche. E qualche dubbio sul carattere dell’Under 21. Una pressione psicologica mal sopportata. Ecco perché l’isolamento, zero voglia di attenzione e riflettori. Nessuno a cui dover rispondere. Questo fino a qualche mese fa. Poi Domenico pian piano si è aperto al mondo, si è sentito più leggero, come fa certe volte in campo quando scatta verso il fondocampo e poi si accentra. E punta la porta. E cerca un compagno oppure fa gol. Lo sanno bene i tifosi del Napoli, sconfitto all’esordio al Mapei Stadium grazie al 25 neroverde scatenato. Lo sanno benissimo quelli del Milan, 7 reti subite in due partite. Lo sa meglio di tutti Max Allegri, che fu esonerato dai rossoneri dopo la trasferta  a Sassuolo, e che adesso lo aspetta alla Juve. Ma per Berardi non c’è fretta. Da Cosenza alla Serie A è stato tutto veloce. Per la Champions, per sfidare il suo mito del Camp Nou c’è tempo. Sassuolo è il trampolino per l’Europeo francese. Una scelta controcorrente. Per vincere serve un colpo alla Messi. O alla Berardi.

Domenico Berardi in un video che ha un titolo programmatico: Italian Genius

Hirving Lozano (’95)

Ventenne che si è messo in mostra con il Pachuca e soprattutto con la Nazionale messicana al campionato Concacaf U-20 del gennaio 2015, in cui è diventato capocannoniere con 5 reti in 5 partite. Attaccante dalla velocità straordinaria, è destro ma può anche giocare sul fronte offensivo sinistro.

Scoutnation spiega per bene Hirving Lozano

Emre Can (’94)

Centrocampista centrale completo, sa giocare in posizione difensiva e offensiva. Dopo le giovanili al Bayern Monaco, nella stagione 2013/14, è passato al Bayer Leverkusen. Qui ha preso la maglia numero 10 ed è stato impegnato in un ruolo più avanzato dell’attuale, segnando 4 reti in 39 partite. Al Liverpool Rodgers l’ha schierato più “indietro”, e ha dimostrare di essere un ottimo interditore: anche grazie al fisico possente: 184 cm per più di 80 kg. È stato uno dei migliori dei Reds nel 2014/15. Il mese scorso ha esordito nella nazionale maggiore tedesca.

Héctor Bellerin (’95)

Terzino destro di vent’anni, arrivato all’Arsenal dalla Cantera del Barcellona, è molto completo. Capace di un’ottima fase difensiva grazie alla sua velocità, sfrutta bene la stessa caratteristica negli inserimenti offensivi. Theo Walcott, in un’intervista, ha rivelato che lo spagnolo detiene il record di sprint tra tutti i Gunners.

La roba migliore di Héctor Bellerin

Jetro Willems (’94)

Uno dei classe 1994 più esperti d’Europa: titolare nel PSV da diciassettenne, è il più giovane giocatore olandese di sempre ad aver giocato in Europa. Terzino sinistro molto possente e molto poco alto, è dotato di un’ottima tecnica e un buon lancio lungo. A 21 anni ha giocato più di 100 partite da professionista.

Samuel Umtiti (’93)

Considerato uno dei talenti europei più brillanti nella fase difensiva, è un camerunese naturalizzato francese. Gioca principalmente da difensore centrale, ma sa fare anche il terzino sinistro. È forte fisicamente, abile nell’anticipo e nella lettura dei passaggi avversari. Da tre anni, oramai, è titolare nel Lione, e ha giocato anche 7 partite nella Nazionale Under 21 ed è stato Campione del Mondo U-20. Nell’ultima stagione è stato una colonna del pacchetto arretrato dell’Olympique, terminato secondo con la seconda miglior difesa dell’intera Ligue 1.

 

Dal numero 6 di Undici
Illustrazioni di Luca Laurenti