Quale campionato

Cosa ci ha detto la Serie A in otto giornate, chi può vincerla e chi no: giro di voci sulle squadre che più ci hanno esaltato, deluso, sorpreso.

Otto giornate sono un lasso di tempo abbastanza ragionevole da poter stilare un primo bilancio sul campionato. Il fatto, poi, che manchi un padrone assoluto, lo rende più indecifrabile, ma assolutamente intrigante: così abbiamo chiesto a Simone Conte, Davide Coppo, Alfonso Fasano, Francesco Paolo Giordano, Nicola Mirenzi, Fulvio Paglialunga e Massimo Zampini di raccontare, ciascuno, una squadra. Del suo bilancio iniziale, e di quello che potrà accadere in futuro.

Se la Roma assomiglia al nemico – di Simone Conte

«Sì, ma io sto a pensà a Firenze». Scrivo queste righe due ore prima di Bayer Leverkusen-Roma di Champions League, e la frase tra virgolette è l’ultima cosa che ho sentito prima di rientrare in casa. L’ha detta il barista che lavora qui sotto quando gli ho chiesto se stasera guarda la partita. Ora, a parte il cliché del barista-voce del popolo nei pezzi sul calcio, che però in questo caso è vero, sono due giorni che sento esprimere questo concetto. Non è che all’improvviso la Champions non ci piace più. Anzi, siamo ancora così poco abituati a giocarla che rientriamo in quell’insieme di tifoserie che gridano fortissimo “The Champiooooons!” alla fine dell’inno quando giochiamo in casa. A Barcellona, per esempio, dove pochi mesi fa ho visto una partita di Champions, non lo fanno. Io credevo che si facesse così ovunque, e il risultato è stato simile a quando sei un luogo pubblico e tutti smettono di parlare mentre tu dici ad alta voce “BRUTTA INFEZIONE GENITALE”. Mi hanno guardato così. All’Olimpico invece lo gridiamo tutti, perché la Champions è bellissima, e perché mentre lo gridiamo già pensiamo a quando lo rivedremo su Youtube.

Ma la Champions non la possiamo vincere, lo Scudetto sì, e quindi tra due ore c’è una partita che è già quasi dentro o fuori, ma noi “stiamo a pensà a Firenze”. Perché se domenica la Roma vince contro la Fiorentina diventa capolista, cosa che non succede più o meno da un anno. Poi venne quella partita allo Juventus Stadium, e poi tutto il resto. Quest’anno la Juventus l’abbiamo già battuta ed è molto indietro in classifica, ma non c’è una persona che non pensi che anche quest’anno in qualche modo Torino sarà una tappa fondamentale della corsa Scudetto. Quello che è cambiato rispetto all’anno scorso è che stiamo iniziando a maturare la convinzione che si possano vincere le partite anche quando tutto indica il contrario, e l’artefice di questa mutazione ancora in essere si chiama Miralem Pjanic.

Categoria persone che ti fanno fare “ooooooooooh”.

Nella categoria “persone che ti fanno fare ‘ooooooooooh’ quando c’è un calcio di punizione” noi eravamo ancora fermi a Marcos Assuncao. Ora quando la Roma subisce un fallo a meno di 20 metri dalla porta, facciamo ‘ooooooh’. Non è tanto per la punizione in sé. È per quello che rappresenta. L’anno scorso, gli anni scorsi, abbiamo visto la Juventus vincere anche quando la partita sembrava bloccata fino alla fine, e noi guardavamo la partita sapendo che in qualche modo Pirlo o Tevez l’avrebbero sbloccata, che era inesorabile, che alla fine avrebbero vinto loro, la partita e il campionato. Ora, dopo 3 gol ci iniziamo a chiedere se Pjanic possa essere il nostro Pirlo e Dzeko il nostro Tevez, e non nel campo della tattica, ma in quello dell’inesorabile.

Per non perdere la ragione, quando partiamo per questa tangente cerchiamo corrispondenze nei numeri, e scopriamo che da quando Pjanic gioca in Italia, solo uno ha segnato su punizione più di lui. A inizio campionato il conto era 12 a 7 per Pirlo, ora è 12 a 10. Statistiche a parte, affinché questi paragoni abbiano un minimo di senso, il resto della Roma deve essere il resto della Juve dei campionati passati, e deve vincere come squadra la maggior parte delle partite. Per ora abbiamo avuto indicazioni contrastanti, e sebbene siano state più quelle positive che quelle negative, aspettiamo famelici la prossima partita per capire un po’ meglio che campionato sarà, perché se da due giorni diciamo «sì ma io sto a pensà a Firenze», da qualche settimana diciamo «se non vinci quest’anno non vinci più».

La doppia realtà del Milan – di Davide Coppo

Pensavo sarebbe andata meglio. Quando, nel giugno 2015, nell’attesa della Copa América, nel caldo milanese più caldo dei miei ventinove anni di vita, il Milan assunse ufficialmente Sinisa Mihajlovic come allenatore, decisi con entusiasmo che sarei tornato ad appassionarmi alle sorti della squadra che mi è capitato di tifare fin da bambino. Pensavo sarebbe andata meglio anche dopo le prime voci o i primi effettivi acquisti del mercato: Bertolacci, Bacca, Romagnoli, Niang, Luiz Adriano. Pensavo sarebbe andata meglio con questi investitori cinesi, con questo nuovo stadio, con questa zona Portello in cui a Milano non mette piede mai nessuno a meno che non abiti già al Portello che sarebbe stata trasformata in un piccolo quartiere milanista, e magari ispirata a una Ciudad del Real Madrid, un posto in cui comunque non metterei mai piede ma saprei lì, una Dubai rossonera in cui pianificare successi, accademie, cantere lombarde, e via dicendo.

Pensavo sarebbe andato meglio anche l’esordio in campionato, forse la partita più brutta del Milan di quest’anno; pensavo sarebbe arrivata meglio la prima vittoria, con un gioco più bello, e a partire da lì, da Milan-Empoli, posso dire che ho iniziato a pensare bene, benissimo di Luiz Adriano, del suo stacco di testa, di quel movimento ginnico così coordinato e scultoreo che ti fa dire, con un’espressione brutta, «questo è un attaccante di razza». Oggi posso dire che anche Luiz Adriano pensavo sarebbe andato meglio. Poi è stata tutta una fase calante: mi sono detto, fiducioso, che il gioco espresso nel derby sarebbe stato il mattone su cui costruire questo nuovo Milan, nonostante la sconfitta.

Torino FC v AC Milan - Serie A

Però poi il Milan è andato a Genova, a Genoa, e ha perso giocando una partita orribile, poi ha perso contro il Napoli a San Siro giocando una partita umiliante, e la Curva Sud ha iniziato a fischiare la squadra, la pagina Facebook della squadra – che dovrebbe essere piena, come ogni pagina Facebook di ogni grande squadra europea, di commenti cinesi e arabi e indonesiani che inneggiano a questo o quel giocatore – è piena di commenti cinesi e arabi e indonesiani che scrivono pure loro «Galliani vattene» come se fosse uno slogan da esportazione tipo «Forza vecchio cuore rossonero» o «You’ll never walk alone». Mihajlovic, forse l’allenatore con una più sviluppata idea di gioco e di spogliatoio che il Milan abbia avuto dal primo anno di Allegri in poi, è costretto quotidianamente a ripetere ai giornali che ha «la fiducia di Berlusconi», e il vero dramma in tutto questo è proprio il fatto che un allenatore del Milan, nel 2015, debba avere la fiducia di Berlusconi per essere sicuro di rimanere al suo posto.

Insomma, i sogni di Champions League, per ora, dovranno rimanere nel cassetto. E ci rimarranno insieme ai sogni di “progetto”, e insieme ai sogni di Scudetto nel 2016/17, probabilmente, viste le difficoltà economiche che la squadra affronterà senza gli auspicati soldi degli investitori. Ma nonostante tutto questo, nonostante le contestazioni (che sono sempre stupide) e nonostante una società che lentamente affonda nelle sabbie mobili dell’incapacità di trovare un punto di svolta, questo Milan è il miglior Milan, dal punto di vista del gioco, degli ultimi due anni. Naturalmente, dire che Inzaghi, a questo punto della stagione nel 2014, aveva realizzato più punti, è una scemenza colossale: Mihajlovic d’altronde si è trovato, in 8 partite, ad affrontare le prime tre squadre. E seppure i problemi ci siano – di organico soprattutto, ma anche una certa eccessiva rigidità tattica – mi sento di pensare che sì, pensavo sarebbe andata meglio, ma può ancora andare bene, anche se non benissimo.

Capire l’Inter, chiedendo a Perišić – di Nicola Mirenzi

Ho capito perché l’Inter ha comprato Ivan Perišić domenica scorsa al minuto ventidue della partita contro la Juventus. Sulla fascia destra, il croato punta Barzagli e lo salta con una disinvoltura che non aveva ancora mostrato nelle altre cinque partite che ha giocato in serie A, lasciando su ogni prestazione un punto interrogativo pieno di perplessità: ma perché Roberto Mancini l’ha inseguito con tanta insistenza per tutta l’estate?

Si è capito nei primi cinque minuti in cui è sceso in campo perché l’Inter abbia preso Felipe Melo (per dare personalità e carattere al centrocampo). Abbiamo compreso immediatamente il senso della scelta di Miranda e Murillo come coppia centrale di difesa (per fornire stabilità a una retroguardia che l’anno scorso aveva le gambe che gli tremavano dalla paura). Si è persino intravisto in filigrana – perché ancora siamo al di sotto delle aspettative – il potenziale di uno come Kondogbia a centrocampo (per iniettare vivacità in una manovra di gioco legnosa e prevedibile). Ivan Perišić, però, era rimasto pressapoco un mistero. Perché mai l’avranno desiderato così tanto?

Il tifoso interista, e lo scrivente tra quelli, si chiedeva il motivo per cui puntare su un calciatore così incolore, già pronto a iscriverlo nel lungo elenco dei promettenti bluff stranieri finiti per disgrazia a indossare la maglia nerazzurra. E invece.

Perišić & Jovetić vs Juventus.

Al minuto ventidue della partita contro la Juventus, Ivan Perišić si è acceso. Un, due. Improvvisamente, all’Inter è sembrato possibile contare su piedi buoni, svelti e pronti a sorprendere l’istinto dell’avversario, creando quei guizzi senza i quali c’è poco da fare: le partite, a lungo andare, non le vinci.

Nel centro del campo, l’Inter ha comprato la forza, ma non ha guadagnato fantasia. La palla gira lenta come una safety car nella pista di Montecarlo e la manovra è prevedibile come una telecronaca dello Zio Bergomi.

Per fortuna, un poco più avanti gioca Stevan Jovetić. Quando non ha potuto essere in campo, la sua mancanza è sembrata un cattivo presagio. Dopo aver realizzato tre gol in quattro partite disputate, ha dimostrato di avere quell’estro, quell’invenzione e quel ritmo che possono rovesciare i risultati della partite. Senza di lui, l’Inter avrebbe la metà dei punti che ha. Ed è ovvio che non può fare tutto da solo, il numero dieci montenegrino. Di certo, non può vincere un campionato senza che intorno a lui cominci a funzionare alla perfezione tutto il resto (sempre che l’Inter – e non è detto – si possa permettere di candidarsi al primo posto in classifica, fingendo che il Napoli, la Roma e la Juve siano al suo stesso livello).

Però, al minuto ventidue della partita contro la Juve ho visto accendersi la fiamma di Ivan Perišić. E mi è sembrato di intuire la trama e l’ordito con cui Roberto Mancini ha tessuto la stoffa della sua Inter versione due: una macchina ancora imperfetta, ma che pure sta entrando a regime. Con i suoi soldati semplici, e i suoi tiratori scelti.

Firenze senza capipopolo (finora) – di Francesco Paolo Giordano

Quello che si dice della Fiorentina è che non ha campioni in squadra. Perlomeno, non sufficientemente campioni per poter ambire a vincere il campionato. Non ha un Pogba, non ha un Higuain, nemmeno un De Rossi. Avrebbe fatto comodo un Batistuta. L’uomo dell’ultima leadership viola, prima di quella attuale. Infortunatosi lui, la Fiorentina uscì di scena. È un discorso che non manca di efficacia. Basta questo a congelare le speranze di successo? Chi può dirlo.

A me piace pensare che non sempre è il campione che fa grande una squadra. Ma che possa succedere il contrario: che un ottimo contesto di squadra faccia grande un singolo. La Fiorentina ha un’ottima organizzazione di gioco, si muove bene, con ordine, ha giocatori funzionali e ben assortiti: tutti sanno cosa devono fare, con e senza pallone. La solidità difensiva (i viola sono la miglior difesa del campionato, con sei gol subiti, assieme all’Inter), la corsa di Kuba e Alonso, la diga Badelj-Vecino in mezzo al campo, le giocate sulle punte – in tutti i sensi – di Borja Valero.

E allora succede che il talento venga esaltato. Uno di questi, mi viene da dire, è Ilicic. Ha quasi 28 anni, le premesse che aveva posto nel primo anno a Palermo sono in parte evaporate. Però ha colpi eccelsi e nello scacchiere di Sousa ha modo per metterli in mostra. A Napoli, entrato a gara in corso, l’impatto è stato terrificante. Prima del suo ingresso, la Fiorentina ha fatto girare bene il pallone, ma sempre lontano dagli ultimi 16 metri. Con lui in campo, Kalinic si è presentato per due volte di fronte a Reina. Sguinzagliato, in entrambi i casi, da Ilicic.


Sondaggio: più bello il gol o l’assist?

L’altro giocatore, e non devo dirvelo io, è proprio Kalinic. Arrivato in sordina, pagato relativamente poco (5,5 milioni di euro). Un’età non giovanissima (gennaio 1988, come Ilicic), un’esperienza nel Blackburn non esaltante, un confino troppo duraturo, di quattro anni, in un campionato minore come quello ucraino. Arriva a Firenze e segna cinque gol in sette partite. Dimostrando grandi qualità – il gol al Napoli, l’assist per Verdù contro l’Atalanta -, e una straordinaria capacità di essere nel vivo della manovra, nonostante resti il punto di riferimento offensivo.

Nella vacatio regis che il campionato sta registrando, non mi sorprenderei di vedere la Fiorentina in altissimo a lungo. Fino a quando, è dettato dalla possibilità che Ilicic e Kalinic, ma anche qualsiasi altro, sappiano fare il salto di qualità e diventare trascinatori. Troppe volte ho sentito: ha fallito per colpa dell’ambiente. Il contrario, perché no?

Juventus bifrons – di Massimo Zampini

Il bicchiere mezzo pieno è non avere preso gol, per una volta, e per pochi centimetri, al primo tiro in porta avversario. Che poi, nel caso di specie, si sarebbe rivelato pressoché l’unico.

Il bicchiere mezzo vuoto è – anche quando la squadra gira, reagisce, prende possesso della partita e gli avversari non esistono praticamente più – costruire poche occasioni pericolose e, quando ci si riesce, avere una bassissima percentuale di realizzazione, una delle più basse d’Europa.

Il bicchiere mezzo pieno è la linea difensiva, con Barzagli una spanna sopra gli altri: a 34 anni fa il terzino, chiude chiunque gli si presenti davanti, si propone quando può. Con questo aggiustamento trovato quasi per necessità, a seguito dei problemi di Lichtsteiner e Caceres, Allegri riesce a inserire i tre centrali dei record degli anni passati senza però rinunciare alla amata linea a 4: se l’anno scorso gli insostituibili erano a centrocampo – e allora ecco la scelta di impiegarne 4 contemporaneamente, avanzando Vidal -, quest’anno i trascinatori devono essere Buffon più quei tre dietro.

Juventus v Sevilla FC - UEFA Champions League

Il bicchiere mezzo vuoto sono i talenti che dovrebbero prendere in mano la squadra e sostituire i leader ormai partiti. Ancor più che su Morata, discontinuo ma vorrei vedere voi, se vi foste rotti il perone da una settimana, il discorso cade sempre su Pogba: parte largo – troppo largo? – a sinistra, va a fiammate, sparisce, si nasconde, poi va centrale, salta tre uomini e riprende fiducia. Sarà il numero di maglia, la squadra in costruzione, l’addio dei leader al suo fianco, il ruolo defilato, saranno le responsabilità cresciute esponenzialmente in pochi mesi, ma non è ancora lui. Crescerà. E quando crescerà, il bicchiere sembrerà molto più pieno.

Il bicchiere mezzo pieno è, dopo le belle vittorie di Champions, sfiorare il successo sul campo di una diretta concorrente; è Khedira che sta prendendo in mano il centrocampo; è Cuadrado che salta l’uomo, cambia ritmo, crea superiorità, anche se la differenza tra essere Cuadrado ed essere un fuoriclasse assoluto è nel numero di realizzazioni (e di assist decisivi); è, pian piano, la rosa che torna al completo, perché nessuno ha una panchina con Neto, Rugani, Alex Sandro, Hernanes, Pereyra, Lemina, Sturaro, Zaza e Mandzukic, in attesa dei due esterni destri di difesa.

Il bicchiere mezzo vuoto, in attesa del ritorno in condizione degli infortunati, da Marchisio in giù, è un esterno quotato come Alex Sandro in campo solo per una partita (in cui ha messo in mezzo una decina di cross) e qualche minuto qua e là. È presto, forse, ed Evra sta facendo il suo.

Il bicchiere mezzo pieno è che il Napoli è organizzazione più Higuain, la Roma è solida e già pronta, la Fiorentina gioca bene e con coraggio, le milanesi prima o poi rivinceranno, ma non vediamo nessuna potenzialmente più forte di noi.

Il bicchiere mezzo vuoto è che il “potenzialmente” non conta niente, in classifica siamo molto indietro e vinciamo troppo poco.

E vincere, come è noto, da queste parti non è solo una cosa importante.

In medio stat Napoli – di Alfonso Fasano

La retorica de “in medio stat virtus” è stata riveduta e corretta dal Napoli e da Maurizio Sarri. Gli azzurri di questo inizio di stagione hanno fatto il salto di qualità proprio in quella zona di campo dove, con e per colpa di Benitez, avevano fallito negli ultimi due anni. Il nuovo Napoli, prima dei fuochi d’artificio offensivi, è ordine e organizzazione. È equilibrio nel mezzo. Pochi accorgimenti, ma un cambiamento radicale nel modo di interpretare le partite. Perché se guardo alla difesa vedo che, oltre al ritorno di Reina, c’è solo un Hysaj in più.

Ecco che allora, insieme a (o prima di?) quelle straripanti degli attaccanti, sono le grandi prestazioni dei centrocampisti a incorniciare questo primo, ottimo spezzone di stagione. Dai due di Benitez ai tre di Sarri, il passo è stato unico ma non breve. Vedere, per credere, alle voci Hamsik e Jorginho. Benitez, nel suo biennio, ha scritto per loro due parabole similari: prima esaltati da modulo e progetto, poi limitati proprio da quegli stessi meccanismi tattici che avrebbero dovuto lanciarli. Oggi, sono entrambi due calciatori nuovi, recuperati al loro ruolo e per questo (ri)valorizzati nelle loro qualità. Poi c’è lui, il terzo uomo. L’unico vero, grande innesto dell’ultimo calciomercato.

La “lavatrice” napoletana.

Allan è una specie di washing-machine, con buona pace di Strootman al quale ho rubato il soprannome. È l’uomo di equilibrio che mancava al Napoli: recupera il pallone e, soprattutto, non lo perde più. Lo “lava”, per l’appunto, restituendolo pulito all’azione azzurra. Anche quando è scolastico ed elementare, Allan fa la cosa giusta. Con e senza palla. Contro la Fiorentina, soprattutto nella ripresa, il suo contributo è stato eccezionale anche in termini numerici, con cinque palloni recuperati e tre contrasti vinti.

In questa prima parte di stagione, Allan “è stato” il Napoli: avvio a passo d’uomo, partite sottotono e poi l’esplosione. Si è esaltato, ha fatto esaltare me e anche la squadra. Fino a livelli di rendimento nuovi, assoluti e per certi versi anche inattesi: i tre gol in campionato per l’ex Udinese, il filotto Lazio-Juve-Milan-Fiorentina per gli azzurri. Roba bella, che benedice l’utopia Sarri e lancia il Napoli nel novero delle pretendenti al titolo. Lo dicono i numeri (due gol subiti nelle ultime sette partite, diciotto fatti), lo dice la splendida partita giocata, e vinta, contro una grande Fiorentina. Il Napoli riveduto e corretto c’è e ci sarà.

Divertirsi a Sassuolo – di Fulvio Paglialunga

Alla domanda «di quale squadra vorresti essere tifoso adesso?», forse, costretto a dirne una in deroga alla mia, risponderei «del Sassuolo». Non c’è molto da lambiccarsi per trovare le motivazione: gioca con una leggerezza tale da trovarsi lassù e ridere fortissimo. Lassù si intende a tre punti dalla vetta, praticamente in Europa. E senza dirlo a nessuno, quasi tenendolo come un segreto. D’accordo, sull’ultima vittoria c’è l’ombra di un rigore furbo, ma fermarsi a quello toglie pezzi di racconto all’impresa: il Sassuolo dopo otto giornate (15 punti) è vicino alla metà dei punti della stagione scorsa (38), ha battuto Napoli e Lazio e fermato la Roma.

È una provinciale, ma con stile: Di Francesco al massimo ordina umiltà, ma mai una chiusura totale, non usa surrogati del catenaccio perché preferisce che la sua squadra sia in campo per occuparlo in modo attivo, si difenda tenendosi anche alta quando serve. Da allievo di Zeman non ha mai rinunciato al gioco, ma nemmeno coltivato che l’idea folle sia quella di rinunciare alla fase difensiva: si potesse dire senza toccare la presunta sacralità del boemo, parleremmo di un allievo che sta perfezionando il maestro.

Il 2-2 dell’Olimpico.

Soprattutto la squadra ha un’idea di fondo che non prescinde (non accade a nessuno) dagli interpreti, ma nemmeno ne diventa dipendente. Il Sassuolo di un anno fa, quello dei 38 punti e qualche soddisfazione, aveva per esempio in squadra Simone Zaza e lo ha lasciato partire senza involversi, tenendosi però Berardi che garantisce rendimento anche subito dopo essere stato alle prese con noie muscolari (due partite saltate per stiramento, due spezzoni utilizzati per riprendere il ritmo).

Il Sassuolo è un progetto. Stesso tecnico, nessun colpo di testa, giocatori che sanno tutto quello che Di Francesco vuole e che hanno voglia di misurarsi con un calcio più alto, ma che nel frattempo fanno la gavetta. Domenica ha giocato da titolare Falcinelli, non giovanissimo (24 anni) ma ancora in tempo per mettersi in mostra e reduce da un anno in prestito a Perugia, ad alti livelli. Il resto sono alleanze con i grandi club, questo essere una sorta di squadra B di lusso e ottenere giocatori da Juve e Roma, affidarli a chi è in grado di farli crescere, restituirli finiti, incassare un po’ e nel frattempo ottenere risultati che fino a poco fa facevano sorridere un po’.

Quelle cose del tipo: «Ma come, il Sassuolo in serie A». Sì, oggi pure a tre punti dalla vetta. Senza dirlo a nessuno, ma che divertimento.

 

Nell’immagine in evidenza, Daniele De Rossi, sorridente, durante il match di campionato contro il Sassuolo. Paolo Bruno/Getty Images