Hanno ucciso Grantland, ma Grantland è ancora vivo, e non è una frase a effetto o poetica, ma vuol dire che il suo archivio è ancora tutto online, al solito indirizzo grantland.com. Di Internet non si butta niente, e quasi niente riesce a sparire, e anche se Espn deciderà di non rinnovare l’acquisto dell’indirizzo, l’intero corpus di articoli verrà probabilmente salvato su qualche server grazie all’intervento di qualche adepto. Queste operazioni, solitamente, avvengono quando ci troviamo di fronte a siti di culto, con una fanbase, o una base di lettori, affezionati oltremodo, in una maniera non limitata alla fruizione dei contenuti, ma che contiene abbondanti cucchiaiate di ammirazione, venerazione, invidia. Grantland, certamente, rispondeva a tutti questi canoni.
Ci sono diversi tipi di invidia, e quella a cui penso in queste ore è un’invidia di segno positivo, e di conseguenza propositivo, forse emulativo. Significa che scrivo queste righe, oggi, su questo sito di questa rivista (che sia Undici o Studio è indifferente), anche grazie a Grantland. Se non ci fossero stati Grantland e il suo esempio, probabilmente, un po’ di cose nel mondo dello sportswriting, non soltanto in Italia, non sarebbero successe. Leggevo, in queste ore di fine ottobre, diversi articoli sulla fine di Grantland, annunciata da Espn il 30 ottobre, circa cinque mesi dopo il mancato rinnovo di contratto di Bill Simmons e la sua esclusione dal gruppo: elogi, requiem, best-of’s, editoriali polemici, ogni tipo di pezzo (forse il migliore è quello di New Republic); mi sono accorto che questa specie di invidia verso Grantland – soprattutto verso un mondo in cui Grantland è potuto nascere e vivere 4 anni, che comunque è il miglior mondo che posso immaginare oggi – persiste anche nel modo in cui si sta sviluppando la sua scomparsa. Su New Republic, ad esempio, si può leggere: «Writers Sean Fennessey, Juliet Litman, Mallory Rubin, and Chris Ryan joined their former boss Bill Simmons, who launched Grantland in 2011 back when he and ESPN were happily married, at HBO earlier this month. Film critic Wesley Morris joined the New York Times Magazine in September, while Rembert Browne’s last day at Grantland was today—he had announced earlier in October that he was joining New York. Grantland’s editorial director, Dan Fierman, joined MTV around the same time». Non fa effetto? A me sì, soprattutto se provo a sostituire i nomi di New York Times Magazine e New York con dei possibili corrispettivi nazionali. Naturalmente è un esercizio che non può portare a molto, e soprattutto che un dottore consiglierebbe di non fare, per il bene della pressione arteriosa e della fiducia in un futuro migliore, giornalisticamente parlando.
Mi trovai a scoprire quanto la narrazione di eventi sportivi potesse essere trasformata in qualcosa di divertente e brillante
Ricordo molto bene i giorni in cui Grantland andò online. Erano i miei primi mesi alle prese con questo lavoro, e come spesso accade, in molti ambiti, mi stavo lanciando da una liana all’altra per capire cose volessi fare davvero, per testare la resistenza di quelle liane al mio peso, la nostra compatibilità. Provai a leggere ogni giorno le pagine politiche, mi appassionai a certe tirate polemiche, rare brillanti analisi, e me ne stancai presto; allora cercai di capire le cause della grande-crisi-occidentale e delle riforme che l’Europa e i suoi governi discutevano, e iniziai a leggere Keynes, e mi stancai ancora più presto; finché non mi imbattei in Grantland. Nella piccola redazione di Studio, in un piccolo loft di Milano sud, mi trovai (ci trovammo, con colleghi-amici che in questi giorni stanno, come me, riempiendo i loro profili Facebook o Twitter o le pagine delle testate per cui oggi scrivono di omaggi a Bill Simmons e alle sue firme) a scoprire quanto la narrazione di eventi sportivi potesse essere trasformata in qualcosa di divertente e brillante, qualcosa che pur rimanendo narrazione sportiva potesse appropriarsi di decine di elementi culturali diversi: dai sincretismi con la pop culture che Grantland stesso dichiarava nel suo “sottotitolo”, ai corteggiamenti con la letteratura più alta, con forme narrative come l’autofiction, con lo humor.
L’effetto Grantland, in questa minuscola nicchia italiana, fu immediato: unì in breve tempo, con il suo esempio e i tentativi di emulazione, decine di firme che, mi dico oggi, aspettavano soltanto l’innesco della reazione culturale attivata da Simmons. I composti chimici erano pronti, e Grantland li fece detonare. Come scrisse Francesco Costa in un vecchio articolo uscito su Studio, non è che prima di Grantland ci fosse il vuoto assoluto: gli esempi c’erano, erano celebri, erano John McPhee sul New Yorker, erano anche giovani e volenterosi siti italiani. Grantland però sfondò un muro che era il muro della costanza: elevò la narrazione di eventi sportivi e lo iniziò a fare ogni giorno.
Tutto quello che ha fatto Grantland è stato improntato al coraggio
Naturalmente, se l’effetto-Grantland si può e si deve relegare, in Italia, ancora alla sfera della nicchia, sarebbe sbagliato guardare a Grantland, in retrospettiva, come a una piattaforma letta da pochi fanatici: circa un anno fa gli utenti unici mensili si aggiravano intorno ai 5 milioni, ad esempio. Che è un grande numero di utenti. Che però, se paragonato ai 25 milioni di Deadspin, la pagina sportiva di Gawker Media, è quasi irrisorio. Che però, ancora, se paragonato al resto del traffico del network Espn, è un numero troppo piccolo. In fondo, tutto quello che ha fatto Grantland è stato improntato al coraggio.
Erano coraggiose, per iniziare, le affermazioni di Bill Simmons il giorno del lancio del sito, a giugno 2011. Sosteneva, nel pieno di giornate passate a stringere mani e accordi con potenziali sponsor del sito, che Grantland non sarebbe sottostato alla dittatura del clic: «It’s the quantity over quality trap. Everyone’s chasing page views and I’m not sure that’s always the way to go». Aggiungeva una nota non scontata: «If you want quality, you have to pay. And writers deserve to be able to make a living off their work».
Il coraggio – e un po’ di pazzia e di arroganza – è anche ravvisabile dalla linea editoriale e dalla libertà di scrittura del sito, fin dalle prime settimane. Ricordo – e posso facilmente rintracciarli nella preziosa cartella “Grantland” dei preferiti – reportage di 17.000 battute su un doppio concerto di Nickleback e Creed, sotto il titolo di ” A Night With the World’s Most Hated Bands”; un longform molto, molto lungo su Erik Spoelstra e il basket nelle Filippine; la storia di Luís Suarez raccontata come se fosse una parabola biblica (e inizia così, ed è una delle migliori storie di Luís Suarez mai scritte: «At the beginning of time, Luis Suarez bit God, and God was like, “ouch,” and God’s “ouch” became the universe. And God convened a three-person disciplinary committee to review the incident. And Luis Suarez said unto the disciplinary committee that he would accept a 1-million-year ban, but 10 million years seemed like overkill just for accidentally creating the universe»); uno straordinario racconto interattivo, firmato Brian Phillips, da una delle più dure corse di cani da slitta attraverso l’Alaska; il miglior ricordo di Robin Williams; un’analisi, attraverso le storie di Terry Richardson, American Apparel e Vice Magazine, del maschilismo negli anni Zero; l’articolo che leggo ogni volta in cui mi dico che non dovrei occuparmi così tanto di sport, firmato Bill Simmons; una folle, inventata, lunghissima e super-divertente email di Guardiola a Xavi, all’indomani della vittoria complessiva del Bayern sul Barcellona per 7-0, in cui si parla di un sarto greco centenario, delle guardie di Buckingham Palace, di Arsène Wenger, dei burrito, di Iron Man 3, e certamente della semifinale di Champions League.
Grantland ha toccato vette di Pura Scrittura come quasi nessun’altra testata ha mai fatto
Mentre scrivo queste righe sto sorridendo, perché ho appena ri-aperto e in parte ri-letto tutti questi articoli di Grantland che ho appena citato, per inserire i link nella pagina in cui sto scrivendo, appunto, queste righe. E certamente anche questa è una delle eredità più potenti di Grantland: farmi ridere mentre leggo per la decima volta di Guardiola che scrive a Xavi «as you know, Xavi, I will begin to coach FC Bayern Munich next season. I have already commissioned several sober but slim-fitting new suits to wear on the sideline as I manage the club that has upstaged and humiliated you. And since time has blown us to this juncture from the golden flower we once shared, I thought we might exchange a word before the breeze takes us up once more».
Quello che ha fatto Grantland in questi quattro anni – nonché, probabilmente, il motivo per cui ha chiuso – è stata un’impresa folle, sconsiderata e bellissima. Se posso permettermi di aggiungerci un po’ di epica, Grantland ha toccato vette di Pura Scrittura come quasi nessun’altra testata ha mai fatto. Ha indicato una strada da seguire che nessuno, oggi, è in grado di seguire interamente, probabilmente non lo sarà nemmeno il segretissimo-futuro-progetto-di-Bill-Simmons-a-HBO. Di certo ha fissato un canone che possiamo seguire come una cometa: immagino di non essere l’unico che, mentre cerca una forma per scrivere una frase, pensa «se fosse su Grantland, come sarebbe?». Più importante ancora della chiusura di Grantland c’è la condizione stessa alla base della sua chiusura: il fatto che Grantland è esistito. E che il suo archivio continuerà a esistere. E che può ancora fare molto. Oggi, ad esempio, ero piuttosto di cattivo umore quando ho iniziato a scrivere questo articolo. Ora non lo sono più.