Future rugby

A 40 anni è scomparso Jonah Lomu, leggenda degli All Blacks. Da solo, ha cambiato la fisionomia del rugby, ma anche della sua diffusione nel pianeta.

La prima cosa che viene in mente pensando a Jonah Lomu non è la sua incredibile meta contro l’Inghilterra, ma un pesce. L’anno è il 2000 e se oggi il rugby è un dignitoso sport di nicchia che sale talvolta agli onori della cronaca, quindici anni fa era decisamente molto meno seguito, figuriamoci in Italia, che proprio quell’anno debuttò nel 6 Nazioni, meritando qualche trafiletto sui giornali.

Nel 2000 Jonah Lomu stava già lottando per restare in campo, ma soprattutto era già una star, probabilmente la prima vera icona che il rugby abbia mai avuto, mancava giusto quel pizzico d’internazionalità per trasformarlo in un volto riconoscibile in tutto il mondo. A dargli l’ultima spinta ci pensò l’Adidas con uno spot geniale, proprio in quell’anno. Nel filmato Lomu deve salvare un pesce e riportarlo nel suo ambiente naturale, schivando passanti e prendendo a spallate i furgoni, mente dei passanti commentano la vicenda come se fosse un supereroe. Detto così potrà sembrare buffo, e un po’ lo era, ma quella pubblicità riassumeva perfettamente la potenza, l’agilità e la bontà d’animo di un campione dal passato difficile, sbocciato precocemente e fermato troppo presto.

Lo spot Adidas con protagonista Lomu, 2000.

Fu grazie a quella pubblicità che molti, soprattutto in Italia, conobbero per la prima volta Jonah Lomu, il più giovane All Blacks di sempre. Per una volta il protagonista non veniva dal calcio, dall’atletica o dal basket, ma da quello strano sport con la palla ovale che tutti confondevano con il Football Americano. Per chiunque all’epoca giocasse a rugby fu il segno definitivo di una consacrazione, per tutti gli altri era “quello che veste di nero e urla prima delle partite”, ma andava bene così, perché magari gli veniva la curiosità e una partita se la guardavano.  La potenza di quella immagine fu tale che oggi, nel giorno della scomparsa, accanto ai video commemorativi delle mete più belle c’è anche quella pubblicità.

Jonah Lomu and the New Zealand All Blacks perform the Haka prior to

Siona Tali “Jonah” Lomu era nato nel ’75 ad Auckland ed aveva origini tongane. Se pensiamo alla Nuova Zelanda ci vengono in mente panorami mozzafiato, natura incontaminata e la tranquilla vita da isolani, ma la realtà è un po’ diversa. Il giovane Siona viveva in una delle zone più pericolose ed emarginate della città, da piccolo assistette alla morte dello zio, trucidato a colpi di machete.

Il padre beveva, la madre cercava di fare del suo meglio per tenere in piedi la famiglia. Lomu dal canto suo passò molto tempo per strada o cercando di difendersi dal padre quando voleva picchiarlo in preda ai fumi dell’alcol. Nonostante la partenza difficile, fortunatamente la vita di Lomu prese ben presto la via del rugby, d’altronde quando sei un neozelandese grosso come un armadio e alle superiori corri già i 100 metri in 10 secondi e 8 decimi, cosa vuoi fare?

«Il conflitto con mio padre mi ha preparato al rugby – disse una volta in un’intervista – mentre giocavo, quando pensavo fosse troppo dura, pensavo a mio padre e ciò bastava a farmi andare avanti. La rabbia mi faceva andare avanti».

Tributo a Jonah Lomu.

Inizialmente Lomu veniva schierato come numero sette, ma un bel giorno, in quella che definì «la miglior scelta della mia vita», chiese di giocare ala, riscrivendo per sempre le regole del gioco. Guardando il rugby moderno, così pieno di atleti enormi che corrono come un centometristi e che si schiantano contro altra gente enorme e altrettanto preparata, potrà sembrare strano, ma il rugby degli anni ’90 era giocato anche da persone che avevano un fisico quasi normale. Certo, erano allenati, sapevano come gestire il pallone ed erano dotati di una forte indole combattiva ma, così come in altri sport, il gioco era assai meno fisico rispetto al suo equivalente odierno.

Jonah Lomu non si limitò a scombinare le carte sul tavolo, ci passò letteralmente sopra. Il suo è stato il primo esempio di ala grossa e veloce, un personaggio in grado di affrontare a viso aperto non un giocatore, ma un’intera squadra e di fare mete che fino a quel giorno non si potevano neppure immaginare. Non era particolarmente raffinato nel gioco, era semplicemente più grosso, più forte e più veloce degli altri e da solo poteva condizionare l’intero assetto tattico della squadra avversaria, creando spazi che solo lui poteva sfruttare. 119 kg per 1 metro e 92, e mentre con un simile peso molti faticherebbero a camminare, lui volava.

È stato il primo esempio di ala grossa e veloce, un personaggio in grado di affrontare un’intera squadra

Grazie alle sue doti approdò appena diciottenne alla Nazionale neozelandese di rugby seven e, con tutto quello spazio a disposizione e la sua velocità nelle gambe, faceva più danni di una volpe in un pollaio. Lomu non solo era veloce, non solo era enorme, aveva anche un talento innato per il “frontino”, ovvero quel gesto con cui si allontana un avversario che sta cercando di placcarci. In uno dei tanti tributi video che circolano in queste ore c’è una scena in cui con due frontini fa volare per aria altrettanti giocatori della nazionale figiana come fossero stracci mossi dal vento, con una facilità scandalosa.

Categoria “avversari sbalzati per aria da Jonah Lomu”.

I primi a intuire le sue doti furono i selezionatori neozelandesi che, nonostante la sua scarsa esperienza nel campionato lo convocarono per un test match contro la Francia. Aveva 19 anni, un mese e 14 giorni, questo lo rendeva il più giovane debuttante di sempre con la maglia dei Tuttineri, un record ancora imbattuto e non l’unico della sua carriera. La partita non andò benissimo e anche nel ritorno la Francia vinse di poco. Anni dopo Lomu disse che la sua inesperienza aveva senza dubbio alcuno influito sulla la partita; ma il bello doveva ancora venire, e arrivò durante la Coppa del Mondo del 1995.

Quei Mondiali passarono alla storia per tanti motivi: erano i primi dopo la riammissione del Sud Africa, furono il simbolo di una riappacificazione fra le due anime del Paese, e furono il palcoscenico su cui Lomu guidò una macchina del tempo e mostrò a tutti come sarebbe stato il rugby entro qualche anno: potente, brutale, veloce. Era come vedere una partita di minirugby in cui gioca un bambino che è cresciuto prima degli altri.

Lomu mostrò a tutti come sarebbe stato il rugby entro qualche anno: potente, brutale, veloce

Per capire la sua forza basta ricordare questo: si narra che prima del match con l’Inghilterra nell’hotel della Nuova Zelanda arrivò un fax, c’era scritto: «Ragazzi, ricordatevi che il rugby è un gioco di squadra. Quindi, per cortesia, passate tutti e 14 la palla a Jonah». Potrà sembrare solo la divertente uscita di un fan, ma per uno sport in cui il gruppo è sacro come il rugby vuol dire che sei riuscito a rompere le regole del gioco. Una volta in campo i compagni dettero, in un certo senso, retta al fax: il risultato fu una delle mete più famose di sempre. Quella sua cavalcata sulla fascia, terminata con due inglesi per terra e una passeggiata su Mike Catt è stata per anni un’onta terribile sul curriculum dei giocatori della Rosa, e la cartina tornasole della nuova epoca in cui il rugby si apprestava a entrare.

Quando si dice “passeggiare sugli avversari”, letteralmente.

Al di là della tecnica e del campo, Jonah Lomu è stato importante perché è stato il primo volto del rugby a uscire dalla nicchia, a diventare ambasciatore della palla ovale nel mondo. Negli anni ’90 Lomu era sui giornali, nei talk show, persino un videogioco fu battezzato col suo nome, ed ebbe l’onore di essere riprodotto con una statua di cera al Madame Tussaud’s di Londra. Senza Lomu, probabilmente, in molti non saprebbero cosa sono gli All Black, cos’è l’haka, cos’è una meta. Il numero di bambini cresciuti sognando di segnare sette punti come i suoi è incalcolabile. Sonny Bill Williams, l’All Black che dopo la finale di quest’anno ha regalato la sua medaglia a un tifoso, ha dichiarato: «Jonah Lomu rappresenta lo spirito isolano. Si può dire che sia stata la prima superstar del rugby, ma la cosa che più mi ha sempre colpito è quanto fosse fiero delle sue radici isolane, sapere dove è arrivato e come ci è arrivato ha dato a tutti un forte senso di appartenenza e speranza. Ci ha fatto capire a cosa tutti noi potessimo ambire».

All Blacks Steve Surridge, left and Jonah Lomu pac

Lomu ha affrontato la malattia come era solito fare con le difese: a testa bassa, credendoci sempre. Quando gli diagnosticarono la sindrome nefrosica, un morbo che coinvolge i reni e che costringe i soggetti a un intensivo programma di dialisi, lui non si perse d’animo, superò la dialisi, il dolore, il trapianto, la riabilitazione, tutto pur di poter tornare di nuovo a schiacciare la palla in meta con un paio di persone attaccate. Per un po’ di tempo le cose sembrarono andare bene, si parlò addirittura di un ritorno alla “maglia nera”. Alla fine, purtroppo, il trapianto si rivelò inefficace, e nel 2011 quasi perse la vita dopo la cerimonia di apertura dei mondiali di rugby a causa di un blocco renale. L’attesa per un secondo trapianto, per Lomu, è stata troppo lunga..

Ciò che lo ha reso ancora più grande non è stato ciò che ha fatto, ma ciò che non ha potuto fare. Come alcune grandi figure nel campo dell’arte, il suo talento si è spento troppo presto, lasciando dietro di sé una scia di «e se». Ha avuto, senza dubbio, una carriera ricca di splendide mete, ma con le sue capacità avrebbe potuto fare cose incredibili, mettere in bacheca almeno un’altra Coppa del mondo e chissà quanti Super 12 e Tri-Nations. E invece “solo” 63 presenze in nazionale, 37 mete, una finale mondiale e una vita vissuta sempre a contatto con lo sport che amava, in un modo o in un altro. Jonah Lomu forse non è stato il giocatore più forte, ma è stata la prima e forse unica rockstar del mondo del rugby, la più bella e brillante meteora che abbia mai sfiorato il pianeta della palla ovale.

 

Nell’immagine in testata, Lomu nel 2001, in un test match contro l’Irlanda vinto 40-29. Ross Land/Getty Images. Nell’immagine in evidenza, Lomu nel 1999. Mark Dadswell /Allsport