Palloni d’Oro che non lo furono

Quindici giocatori che non hanno mai ricevuto il più ambito premio individuale ma che, forse, avrebbero meritato.

È un riconoscimento seguito, considerato, globale. Il Pallone d’Oro seduce, è così da sempre, sarà così anche oggi. Vincere il premio più ambito da ogni calciatore equivale a vincere un trofeo, individuale anziché collettivo: l’affermazione di un singolo passa anche e soprattutto da qui. Ecco perché vogliamo rendere merito a 15 nomi, dal 2000 in poi, che non se lo sono mai aggiudicato, perché alle loro stupefacenti carriere manca solo questo pallone dorato.

 

Thierry Henry

«I don’t recognise myself in the players I see today. There’s only one who excites me, and that is Thierry Henry. He’s not just a great footballer, he’s a showman, an entertainer». La descrizione definitiva di Henry la dà George Best, uno non avvezzo a ricercare paragoni. Ma, di fronte al francese, è impossibile non riconoscere le caratteristiche di spettacolarità, unite a un’onnipotenza in campo che pochissimi possono vantarsi di aver avuto. «Per i difensori, era imbarazzante: segnava quando voleva. Poteva prendere il pallone in mezzo al campo e segnare un gol che nessun altro al mondo avrebbe potuto segnare», ha detto Wenger. Ammirare Henry in campo è un’esperienza talmente abbagliante da oscurare persino il suo ricco palmarès, in cui figurano cinque campionati, una Champions, un Mondiale e un Europeo. L’Arsenal degli Invincibili era invincibile perché tale era Henry, capocannoniere in Premier per quattro volte in cinque anni (dal 2002 al 2006). Anni in cui è andato vicinissimo a vincere il Pallone d’Oro: secondo nel 2003, terzo nel 2006.

Clarence Seedorf

Nelle dieci stagioni passate al Milan, soltanto una volta Clarence Seedorf non ha disputato la Champions League. C’è un luogo comune, a proposito di Clarence Seedorf, secondo cui l’olandese mostrasse tutta la sua classe e la sua efficacia soltanto nei cosiddetti “match-che-contano”. Naturalmente, il luogo comune è fallace: ribaltandolo, si potrebbe invece affermare come Seedorf spiccasse, per personalità e decisività, soprattutto nelle partite più importanti, con una costanza rara da incontrare nella maggior parte dei giocatori dell’epoca, o attuali. Il fatto che, dalla prima stagione lontano dall’Ajax, alla Sampdoria, all’ultima italiana, la 2011/12, non abbia mai giocato meno di 30 partite all’anno dimostra il suo costante peso in ogni squadra in cui ha militato. Pezzi di bravura come il gol al Bayern Monaco del 2007, o il missile del 3-2 in rimonta all’Inter, sono capitoli di storia moderna del calcio. Non soltanto i trofei alzati da protagonista (tra cui 4 Champions League): la classe con cui addomesticava ogni pallone, la visione di gioco (di Seedorf assistman si è forse parlato da sempre troppo poco), la facilità di gioco in spazi stretti, lo rendono uno dei primi nomi da considerare quando si parla di un ipotetico “Pallone d’Oro alla carriera”.

Andrea Pirlo

Andrea Pirlo è, senza dubbio, tra i tre calciatori italiani più talentuosi degli ultimi vent’anni. Non sarebbe strano vederlo titolare in un’impossibile formazione composta dai migliori Azzurri della storia del nostro calcio. Soprattutto, in una generazione in cui, per caso o sfortuna o demeriti, i fuoriclasse non sono riusciti a replicare del tutto sul piano internazionale quanto di buono (eccellente) fatto con la maglia di club (sì: Del Piero e Totti), Pirlo invece c’è riuscito. Ci sono pochi dubbi sul fatto che sia, fuori dai confini nazionali, il calciatore italiano più venerato. È “the Maestro”: in lui il mondo vede una sorta di replica calcistica del Rinascimento, una cartolina di sensibilità e capacità artistiche italiane che da sempre hanno affascinato il mondo – e fatto la fortuna di questo minuscolo stato. È artistico ogni suo gesto: dalla parabola dei celebri assist a lob da fuori area, alle punizioni chiamate, anche qui in modo piuttosto fascinoso, “maledette”, al flemmatico dondolio con cui sa disorientare gli avversari in marcatura alta, al chip con cui si permette di sbeffeggiare, in un quarto di finale di un Europeo, la nazione che ha inventato il calcio. Più che un Pallone d’Oro, Andrea Pirlo meriterebbe un trattato.

Samuel Eto’o

Ci sono stati anni, coincidenti circa con il suo periodo trascorso al Barcellona, in cui Samuel Eto’o è stato inarrestabile. “Inarrestabile”, ovvero: impossibile da fermare. Succede, a certi giocatori, in certi momenti: in questi primi 5 mesi di Serie A, Gonzalo Higuaín lo è; Lionel Messi lo è da anni; Ibrahimović lo è stato. Casillas, intervistato nel 2009 sul passaggio di Eto’o all’Inter, disse: «Era il mio incubo». Più che inarrestabile, forse si sposa bene con quella parte di carriera di Eto’o la parola “ineluttabile”. C’era, in quegli anni, qualcosa di poco umano nella sua capacità di trovare il gol (129 in 199 partite, in blaugrana). Il fatto che palloni fossero “passati” da Ronaldinho, Messi, Pedro, Bojan, Henry, rendeva il tutto ancora più spaventoso.

Didier Drogba

È capitato di sentir dire, a proposito di Drogba, che “due-tre gol decisivi non fanno un Pallone d’Oro”. Dipende da quanto sono decisivi, probabilmente. Se il Pallone d’Oro fosse solo un riconoscimento al talento, nella lista dei vincitori figurerebbe una decina scarsa di nomi (negli ultimi anni, a dire il vero, funziona così). Se invece, al pari del talento, teniamo in considerazione il carisma, l’autorità, la capacità di prendersi la squadra sulle spalle, chi meglio di Didier Drogba? Puoi essere nel tuo anno di grazia, e segnare sempre: ma no, sarebbe troppo facile. Drogba, uno che la voglia di vincere te la spiattellava in faccia – chiedere a Ovrebo -, non ha scelto la sua annata da 29 gol in Premier per vincere la Champions, ma quella da 5, il 2012: suo il gol al Barcellona nella semifinale di andata, sua la zuccata al Bayern in finale quando non sembrava ci fosse più nulla da recuperare, suo il rigore decisivo.

Raúl González Blanco

Prima che Messi e Ronaldo – d’ora in avanti, i soliti due – stracciassero almanacchi a forza di segnare troppe reti, c’era stato un ragazzo gracile a cui il gol veniva spontaneo, come se dovesse solo pronunciarne la parola. Raúl, che per parecchio tempo ha conteso a Inzaghi il record di reti segnate in Champions, è stato l’antesignano dei numeri da paura: 29, 29, 32, 29, 25 i centri stagionali messi a segno tra il 1998/99 e il 2002/03. Una macchina da gol senza il tasto di spegnimento, in grado di superare persino Alfredo Di Stéfano in cima ai bomber all time del Real Madrid. Con cui ha vinto tutto, da trascinatore: sei campionati spagnoli, tre Champions League, due Intercontinentali, per limitarsi alle competizioni maggiori. Ha segnato in due finali diverse di Champions, unico a riuscirci nella storia del Madrid, nel 2000 e nel 2002: due anni, dove, però, in contemporanea c’erano Europei e Mondiali. In quello di mezzo, il 2001, la giuria del Pallone d’Oro lo ha votato per secondo, dietro Michael Owen. Fosse stato presente mentre la Spagna aveva smarrito la nomea di Nazionale perdente, ci sarebbe stato ben altro epilogo.

Steven Gerrard

Se il Pallone d’Oro viene spesso assegnato non soltanto sulla base delle qualità assolute, ma anche e soprattutto (almeno prima del duopolio Messi-Ronaldo) per i trofei vinti in quella determinata stagione, allora Steven Gerrard deve averci sperato, forse, nel 2005, dopo la vittoria della Champions League a Istanbul contro il Milan. In quella occasione viene nominato Mvp della gara nonostante una prestazione buona ma non eccelsa: forse, se avesse avuto il tempo di calciare il quinto calcio di rigore, le cose sarebbero andate diversamente. L’impressione è che Gerrard non abbia mai trovato lo spazio giusto, in termini anche di fortuna, per risultare il migliore di una singolare annata, pur essendo stato, per più di un decennio, una presenza fissa in un’ipotetica squadra ideale mondiale. Anche la Premier League 2013/14 sfumata all’ultimo, probabilmente, non avrebbe aiutato. Tuttavia, 186 reti in 710 partite meritano senza dubbio un certo tipo di riconoscimento.

Gianluigi Buffon

Pochi dubbi nel considerare che Buffon sia il portiere più forte degli ultimi vent’anni. Ma il Pallone d’Oro ha visto un unico vincitore in quel ruolo: il leggendario Lev Jashin, nel lontanissimo 1963. Buffon è arrivato secondo nel 2006, dietro Cannavaro, in un Mondiale in cui è stato decisivo con quella fantastica parata su Zidane in finale. Ma la grandezza di un giocatore non la si vede solo nelle vittorie, ma anche nelle sconfitte. E Buffon questo lo ha mostrato più di tutti: forse la sua più grande delusione professionale, la finale di Champions persa nel 2003, è anche una delle sue prestazioni più incredibili. La parata sul colpo di testa di Inzaghi nel primo tempo è qualcosa di marziano, come pure il modo in cui neutralizza il rigore di Seedorf nell’all-in finale. Perché è questa la verità: per affermare la sua grandezza, uno come Buffon non ha bisogno di trofei.

Andrés Iniesta

Probabilmente il 2010 lo avrebbe visto vincitore, se il ticket dei soliti due non avesse monopolizzato il Pallone d’Oro dal 2008. In qualsiasi altra epoca Don Andrés avrebbe vinto, perché ha tutti i connotati tipici del vincitore: classe, capacità di essere decisivo, vittorie sul campo, racchiuse in quel gol all’Olanda nella finale dei Mondiali 2010, anno in cui arrivò secondo nelle preferenze del premio dietro Messi (sarebbe arrivato terzo due anni dopo). E poi, se Iniesta tra club e Nazionale ha giocato in due delle squadre più belle di sempre – oltre che vincenti -, buona parte del merito è suo. Eleganza, tempi di gioco, visione soprannaturale.

Xavi Hernández Creus

Arrivato tre volte terzo, sul piazzamento 2010 nuvoloni grigi si sono addensati come nel più plumbeo dei cieli di gennaio. La stagione del sextete ha rappresentato la più epica delle annate per un calciatore mai vissuto. Sei trofei nazionali ed internazionali con il Barcellona, Mondiale vinto con la nazionale spagnola più forte di sempre e solo terzo posto nell’edizione numero uno del rinnovato premio (la Fifa lo rileva, co-organizzando l’evento con France Football, fondendolo con il FIFA World Player). Certo è complesso definire in maniera univoca quale fosse il calciatore spagnolo cui andasse assegnato un premio per il ciclo sfavillante dell’invincibile armata roja, ma se si fosse deciso almeno una volta di darlo a Xavi, che di quella squadra era al tempo stesso ingranaggio centrale e motore, vertice e base, nessuno si sarebbe stupito. Tutto sarebbe rientrato nella più ovvia e corretta delle conclusioni.

Lilian Thuram

In un calcio ormai lontano ha unito l’energia e l’estetica, in maniera universale, con la forza fisica e l’intelligenza. Uomo e mente superiore per un  macrocosmo mellifluo come quello del calcio,  Lilian Thuram-Ulien ha rappresentato il ponte ideale per un passaggio tra ere differenti. Venuto dalle terre d’oltremare, solo apparentemente lontane dalle rive metropolitane di una nazione in fermento: il difensore guadalupense ha rappresentato la fortificazione invalicabile su cui si è costruita una delle nazionali più importanti di sempre. Multietnica e progressista, vincente e spigolosa. Thuram vanta il record di presenze totali nelle fasi finali del campionato europeo (16), un 7imo posto nella classifica del Pallone D’Oro ’98, inserito nella formazione ideale di Euro 2000, mentre per due volte il suo nome è figurato nell’All-Star Team del campionato mondiale (1998 e 2006).

Paolo Maldini

Come ci si approccia al mito? Alla bellezza del singolo gesto in una forma pura come quella che era capace di esprimere Paolo Maldini? Tetragono nel suo contrastare una società che, pur avendo amato intensamente, si trova oggi allo sbando. Il figlio di Cesare ha vinto tutto, o quasi – Mondiale 2002?-, quello che poteva vincere; è arrivato sul podio del Pallone d’Oro con una decade di distacco (’93-’04), mostrando al mondo quanto valgano il sacrificio e il lavoro quotidiano per un atleta. Paolo Maldini è certamente tra gli italiani a non aver vinto il premio Fifa (fu France Football) quello per cui più rumorose vibrano le urla di vendetta. Quanto pagheremmo oggi per vederlo ancora scivolare preciso e pulito tra le gambe degli avversari, arpionando palloni nella maniera di una baleniera decisa ma al contempo gentile?

Zlatan Ibrahimović

Il ragazzo del ghetto ha avuto tutto. Rosengard è oggi “la città di Zlatan”, quel posto poco accogliente in cui è cresciuto è diventato ora famoso grazie a lui. Ha portato l’ approccio insolente delle periferie al centro del grande calcio. La forza detonante che sprigiona in ogni movimento, ha fatto di lui uno dei calciatori più terrorizzanti che ci si possa trovare ad affrontare su di un campo verde. Di conseguenza si è attirato tutto l’odio – spesso in forma di amore tradito – dei tifosi di mezza Europa. Ibra ha vissuto per troppo tempo con la pancia vuota e ha cercato di riempirla con i trofei, i premi e gli allori. Gli è mancata troppo spesso la Champions, la preda perfetta e mai raggiunta; l’ultimo tassello da incastrare in una vita, sportiva e non, altrimenti perfetta. Quanto renderemo grazie per averlo visto muoversi tra selve di difensori impauriti come il più pericoloso dei predatori?

Ryan Giggs

La corsa leggera, l’incidere deciso, le finte ad ipnotizzare l’avversario. La maglia rosso sangue che sfreccia continua tra i filmati âgée che lentamente si fanno più moderni. Primatista di presenze con lo United nelle competizioni UEFA. Tutta la vita divisa tra Red Devils e nazional gallese. Talmente rapido che il 18 novembre 1995 è riuscito a segnare il gol più veloce della storia del Manchester United, dopo appena 15 secondi contro il Southampton. Tredici campionati inglesi, due Champions League distanti otto anni l’una dall’altra, una Coppa Intercontinentale, un Mondiale per club. Solo una parte di un palmarès impressionante ma che non ha mai portato a grandi premi individuali.

Dennis Bergkamp

I suoi migliori anni, almeno numericamente parlando, risalgono al pre-2000. Nelle sue prime 5 stagioni all’Arsenal, dal 1995 al 1999, Dennis Bergkamp non è mai sceso sotto i 10 gol segnati, tuttavia il numero delle sue presenze, pur negli anni Zero, non è mai calato: Bergkamp giocò 31 partite anche nell’ultima stagione della sua carriera, l’undicesima a Londra. Tre Premier League vinte: nel 1997/98, nel 2001/02, nel 2003/04 con l’Arsenal degli Invincibles. Al di là dei numeri, la bellezza estetica nel vedere Dennis Bergkamp muoversi, toccare il pallone di prima, rientrare in un dribbling o passare il pallone in verticale, per gli inserimenti di centrocampisti o attaccanti, era un’esperienza quasi unica.