Adem Ljajic: a boyhood

Che ne sarà di Adem Ljajic? A 24 anni e alla terza squadra italiana deve scegliere se diventare grande, o rimanere artista senza disciplina

In Boyhood, forse il film più insolito eppure allo stesso tempo più classico degli ultimi anni, Richard Linklater mette in scena in una camera oscura il dialogo centrale nel quadro della bildung del protagonista. Nel luogo deputato alla concretizzazione dell’arte attraverso la tecnica e la scienza, il giovane Mason si confronta con Mr. Turlington, il professore di fotografia, riguardo al crepaccio che distanzia l’avere una passione e del talento dal mettere il talento a servizio della disciplina per fare della passione un’occupazione. Mason è sulla prima sponda del crepaccio, ha un talento naturale e ama la fotografia al punto di passare le sue ore nella camera oscura, ma non ha disciplina, ed è il professore l’agente narrativo incaricato di fargli fare il grande salto.

Nei quasi tre minuti di confronto, imbracciando una dopo l’altra ogni arma presente nell’arsenale della grande mitologia motivazionale, Mr. Turlington ricorda come «nessuna persona di talento può avere successo professionale senza disciplina, impegno e un’etica del lavoro veramente buona» e che «il mondo è troppo competitivo, e ci sono troppe persone di talento disposte a lavorare duro, e altrettante non di talento disposte a lavorare ancora più duro». Ma soprattutto, dopo aver chiesto a Mason cosa volesse realmente fare nella vita, e aver ricevuto in risposta un immaturo «fare fotografie, fare arte», il professore inonda di luce l’intero discorso intorno al binomio aspirazioni-e-impegno con una semplice domanda: «Che cosa possiedi tu che nessun altro ha?».

FC Internazionale Milano v Frosinone Calcio - Serie A

Mason è un adolescente texano appassionato di fotografia, ma sarebbe potuto essere anche un ventenne del Sangiaccato di Novi Pazar dotato del talento necessario per diventare uno dei calciatori più forti della sua generazione. Un ventenne che alla domanda del professore di fotografia avrebbe probabilmente risposto con lo stesso tono svogliato «fare calcio, fare arte», ma soprattutto un ventenne che non ha ancora capito, o forse ha capito anche fin troppo bene, di possedere qualcosa che nessun altro ha. Questo ventenne si chiama Adem Ljajic.

Il primo dei professori di fotografia che Ljajic incontra nella sua boyhood è il più celebre allenatore del pianeta: Sir Alex Ferguson. È il 2008 quando, dopo aver visionato alcuni incontri del Partizan Belgrado, lo scozzese decide di portare a Manchester Zoran Tosic e Adem Ljajic, due degli ultimi prodotti del vivaio, storicamente fucina di eccellenze, dei bianconeri. Il Partizan chiede per i suoi due giovani un totale di 17 milioni di sterline, che Ferguson sembra disposto a spendere a patto che i due si rechino a Carrington, l’imponente training centre dello United, per un periodo di prova necessario per una più completa valutazione. Alla fine di questo periodo, però, a restare a Manchester è soltanto Tosic. Ljajic, ancora minorenne e con molta meno esperienza nel calcio professionistico del compagno di squadra e di viaggio, viene rimandato a Belgrado per completare il suo percorso di crescita, anche se virtualmente è da considerarsi un giocatore dello United.

Un Adem Ljajic quindicenne.

Posa, con la maglia rossa in mano, insieme a Ferguson, Tosic e a Nemanja Vidic (che ha suggerito il suo acquisto), si fa immortalare come un ragazzino qualsiasi in gita all’Old Trafford negli spogliatoi tra le maglie di Rooney e di Cristiano Ronaldo, viene addirittura intervistato dal sito web ufficiale dei Red Devils in qualità di futuro giocatore. In questa intervista, in cui viene definito «il più fulgido giovane talento serbo», Ljajic risponde con la spensieratezza di chi è giovane, talentuoso e già a un centimetro dal successo. Quando l’intervistatore gli chiede se può descriversi come giocatore per dare un’idea ai tifosi dello United su che tipo di asset Ferguson abbia investito 10 milioni di sterline, la risposta è una risata e una descrizione sintetica, quasi lapidaria: «Penso di essere bravo tecnicamente. Mi piace dribblare, e sono veloce». Per definire se stesso come calciatore il Ljajic che, diciassettenne, si appresta a vestire una delle maglie più pesanti del mondo, utilizza soltanto caratteristiche veicolate dal puro talento. La tecnica, il dribbling, la velocità, sono tre qualità naturali, esulano dall’impegno e dall’etica del lavoro, e sono essenzialmente funzionali al fare arte in senso calcistico. Non dice di possedere niente che nessun altro abbia, e tocca a Tosic, presente all’intervista in qualità di interprete, il compito di dare una descrizione più ampia sul compagno.

A Manchester si definì così: «Penso di essere bravo tecnicamente. Mi piace dribblare, e sono veloce».

Anche se non è sceso in campo neanche un minuto, Ljajic torna in patria lasciando dietro di sé un denso alone di hype. I giornali inglesi preconizzano per lui un ruolo centrale nello United del futuro e gli appiccicano a più riprese l’etichetta di «little Kakà», in quanto il brasiliano non solo è l’idolo del giovane serbo (che prenderà in suo onore la maglia numero 22 sia alla Fiorentina che all’Inter), ma è anche ritenuto il giocatore di livello mondiale a cui più assomiglia. Il primo Ljajic ha infatti nella progressione palla al piede, nella quale può far risaltare le sue migliori qualità (dribbling e rapidità) il suo gesto tecnico preferito, e nessuno in quegli anni ha lasciato un’impronta su quel modo di intendere il campo di calcio come un’autostrada a mille, strettissime, corsie più di Kakà.

FC Internazionale Milano v Genoa CFC - Serie A

Alla fine del 2009 però, quando dovrebbe concretizzarsi il passaggio definitivo al Manchester, succede l’impensabile. Ljajic non è riuscito a ottenere il permesso di lavoro necessario per giocare in Inghilterra, Ferguson ha cambiato idea su Ljajic perché di giocatori bravi tecnicamente, a cui piace dribblare e veloci ne ha già abbastanza e non ha visto in lui niente di speciale, Ferguson ha cambiato idea su Ljajic perché il compagno Tosic ha fortemente deluso con la maglia dei Reds, lo United è in crisi finanziaria e non può permettersi di spendere 10 milioni di sterline per un giocatore che ha ancora tutto da dimostrare. Per una o più di queste ragioni, l’affare, che pure sembrava già interamente formalizzato, salta.

Mentre l’intero mondo Partizan va in subbuglio, con l’allenatore Stevanovic che parla apertamente di possibile shock psicologico sul giovane, e il presidente Djuric che ingaggia una querelle a distanza con i dirigenti dello United, dall’altra parte dell’Adriatico Pantaleo Corvino, dirigente factotum della Fiorentina, capisce di avere un’occasione irripetibile. Sfruttando canali già aperti con la dirigenza del Partizan in occasione dell’acquisto di Stevan Jovetic e Nikola Gulan, il ds viola piomba a Belgrado con in mano una valigetta con dentro 6 milioni e mezzo di euro, bruciando sul tempo una concorrenza diventata titubante dopo la rinuncia di Ferguson al giocatore. Il Partizan, pur rinunciando a molti soldi rispetto all’affare con lo United, decide di accettare temendo che il giudizio di uno dei più importanti allenatori del mondo si riveli un pesante feedback negativo per la carriera del giovane. Neanche il tempo di asciugarsi le lacrime per non essere diventato un giocatore del Manchester United, e Ljajic è già a Firenze, in una squadra ambiziosa e qualificata per gli ottavi di finale di Champions League, ma che si rivelerà in quei mesi ineluttabilmente a fine ciclo.

Ottobre 2012, la Fiorentina batte la Lazio: nel gol che segna, ci sono tutte le qualità di Ljajic.

Il secondo professore di fotografia di Ljajic, più che al Mr. Turlington di Boyhood, assomiglia a Terence Fletcher, il professore-sergente di Whiplash, ed è Sinisa Mihajlovic. Con Mutu inizialmente squalificato e Jovetic infortunatosi nel precampionato (salterà poi l’intera stagione), Ljajic ha la grande occasione di prendersi fin da subito un posto di primissimo piano nel mondo del calcio, ma il risultato è deludente. Mihajlovic lo sprona più di quanto sproni qualsiasi altro giocatore, arrivando a dichiarare in conferenza stampa che i problemi sul piano del rendimento del giovane connazionale sono da ricercare nella troppa cioccolata mangiata e nel troppo tempo passato al computer, e benché il giorno seguente Ljajic segni il suo primo gol in maglia viola, dal dischetto contro la Lazio, il suo bottino totale a fine stagione sarà di sole tre reti, tutte nel girone di andata (oltre a questo, un altro rigore contro il Parma e il gol della vittoria, primo di una serie di gol da fuori area che diventeranno il suo marchio di fabbrica, nella rimonta da 0-2 a 3-2 in casa contro il Brescia).

FLORENCE, ITALY - JANUARY 09: Adem Ljajic of ACF Fiorentina in action during the Serie A match between ACF Fiorentina and Brescia Calcio at Stadio Artemio Franchi on January 9, 2011 in Florence, Italy. (Photo by Gabriele Maltinti/Getty Images)
I capelli lunghi di Adem Ljajic diciottenne, nel 2011 a Firenze (Gabriele Maltinti/Getty Images)

L’anno successivo per Ljajic è un crescendo di svogliatezza, indolenza e malumore da parte dei tifosi (che lo iniziano a chiamare Nutellino in seguito alle accuse di Mihajlovic) nel vederlo giocare. Nel frattempo la Fiorentina annaspa e, nonostante in panchina venga chiamato Delio Rossi, la stagione 2011/12 vede i viola a un passo dalla retrocessione a tre giornate dalla fine del campionato. La sera del 2 maggio al Franchi il Novara, altra squadra invischiata nella lotta per non retrocedere, è in vantaggio per 2-0 alla mezzora, e Rossi decide di richiamare in panchina Ljajic, punito per lo scarso impegno, nella speranza di salvare, se non la categoria, almeno la faccia. Quello che succede nei successivi trenta secondi è una delle pagine più brutte degli ultimi anni di calcio italiano: il giovane serbo applaude l’allenatore mentre esce dal campo, forse rivolgendogli qualche parola di troppo, quest’ultimo in tutta risposta ha un crollo nervoso e si avventa, in mondovisione, sul suo corpo, tempestandolo di pugni.

Nonostante Montolivo, in un ultimo impeto d’orgoglio prima di trasferirsi al Milan, salvi la partita con una doppietta, Rossi viene puntualmente esonerato, mentre Ljajic viene messo fuori rosa fino a fine stagione, in attesa di essere ceduto in estate. Nel frattempo, per non farsi mancare niente, viene tagliato fuori anche dal giro della nazionale dal nuovo commissario tecnico della Serbia, che, ironia della sorte, è di nuovo Mihajlovic, dopo essersi rifiutato di cantare l’inno nazionale, probabilmente per rispetto della propria regione di origine, il Sangiaccato di Novi Pazar, ai confini col Kosovo e storicamente in conflitto col governo centrale di Belgrado.

Il meglio di Ljajic nella sua ultima stagione in viola.

Il terzo professore di fotografia, però, è finalmente quello giusto. La Fiorentina affida la prima panchina dell’era post-corviniana a Vincenzo Montella, che blocca tutte le trattative in uscita relative al serbo e disegna un abito tattico che calza perfettamente alla coppia composta da Jovetic e dallo stesso Ljajic. La stagione 2012/13 è quella della consacrazione: a Firenze si gioca il calcio unanimamente ritenuto il più bello del campionato, grazie soprattutto ai due ex del Partizan, che si rivelano una coppia letale, chiudendo entrambi la stagione in doppia cifra. A febbraio, nella più imponente dimostrazione di forza del calcio di Montella, segnano entrambi una doppietta nella partita vinta per 4-1 contro l’Inter che accredita i viola come seri contendenti per un posto in Champions, sogno che svanirà poi con il gol di Mexes in Siena-Milan a una manciata di minuti dalla fine del campionato.

Soltanto un’estate dopo essere stato un esubero con pochissimo mercato, su Ljajic ci sono il Real Madrid, il Milan e la Roma, disposte a pagare subito per averlo nonostante il contratto in scadenza l’anno successivo. Con la delusione di Montella, che vede scomparire la possibilità di schierare la coppia Ljajic-Giuseppe Rossi, che avrebbe probabilmente sublimato la sua idea di gioco, Ljajic viene ceduto negli ultimi giorni del mercato estivo a una Roma determinata a risalire le gerarchie del calcio italiano con il nuovo allenatore Rudi Garcia.

PARMA, ITALY - SEPTEMBER 24: Adem Ljajic of AS Roma celebrates after scoring the opening goal during the Serie A match between Parma FC and AS Roma at Stadio Ennio Tardini on September 24, 2014 in Parma, Italy. (Photo by Marco Luzzani/Getty Images)
Pregare dopo un gol: Adem è di Novi Pazar, città serba in cui i bosgnacchi sono l’84 per cento della popolazione. (Marco Luzzani/Getty Images)

La Roma effettivamente torna prepotentemente protagonista, ottenendo due secondi posti consecutivi, ma Ljajic, nonostante segni 15 gol complessivi, solamente uno in meno di quelli segnati in tre stagioni e mezzo a Firenze, non dà mai l’impressione di poter fare veramente la differenza in quella che è a tutti gli effetti una grande squadra. Ci sono le progressioni palla al piede, gli assist, i bei gol, i periodi in stato di grazia, ma ci sono anche i gol sbagliati, le difficoltà nell’adattarsi al 4-3-3 di Garcia, le corsette svogliate per il campo. In entrambe le stagioni giallorosse Ljajic disputa un ottimo inizio di stagione per poi scemare, fino a scomparire, strada facendo: i sei gol del campionato 2013/2014 vengono tutti segnati prima di febbraio (e tre, la metà, tra agosto e settembre), mentre l’ultimo degli otto gol di quello successivo viene messo a segno l’8 febbraio.

Specialmente nella sua seconda stagione a Roma è evidente quanto sia difficile per il serbo imporsi in modo netto e definitivo. Il 7 dicembre 2014, dopo una doppietta in Roma-Sassuolo 2-2 che permette alla Roma di non perdere altro terreno dalla Juventus capolista, il Corriere dello Sport titola in prima pagina “Miracolo Ljajic”. Sembrano esserci tutti i presupposti affinché Ljajic diventi il protagonista di una Roma ambiziosa e potenzialmente vincente, ma sarà invece l’ultimo squillo di una stagione che affonda presto nel limaccioso mare dell’anonimato calcistico. Un copione che non cambia neanche con la cessione in prestito all’Inter avvenuta nello scorso agosto, in quanto anche in maglia nerazzurra stanno continuando ad alternarsi, in rispetto della sua storica discontinuità, prestazioni tali da farlo ritenere imprescindibile e altre tali da farlo ritenere superfluo.

I primi mesi da interista.

Alle porte dei suoi venticinque anni, Adem Ljajic non ha ancora concluso la sua formazione umana e calcistica. È ancora un giocatore stretto tra un potenziale sconfinato e una realtà dei fatti che richiede troppo duro lavoro e un’assoluta continuità per emergere definitivamente e nettamente dalla massa di buoni giocatori tecnici, veloci e bravi nel dribbling di cui è pieno il calcio.

Quando era ancora minorenne, mentre la stampa inglese lo definiva “little Kakà”, al Partizan Ljajic veniva chiamato dai compagni di squadra “Cira”, poiché ricordava loro Dragan Ciric, giocatore talentuosissimo ma indolente, che sul finire degli anni Novanta fallì il passaggio dal calcio domestico al grande calcio europeo, deludendo con la maglia del Barcellona. Prima ancora di trovare la risposta alla domanda «che cosa possiedi tu che nessun altro ha?», Ljajic dovrebbe trovare la risposta a una domanda a cui l’ancora giovane età permette di replicare: «Chi vuoi essere da grande, Kaká o Dragan Ciric?».

 

Nell’immagine in evidenza, Adem Ljajic durante Inter-Genoa dello scorso 5 dicembre. Marco Luzzani/Getty Images