È il 15 gennaio del 1967, il Green Bay Packers Willie Wood effettua uno degli intercetti più importanti della storia del gioco: sulla pressione degli avversari, Len Dawson dei Kansas City Chiefs è costretto a lanciare alla propria sinistra: è un lancio imperfetto, e che a distanza di anni Dawson ritiene «(Maybe) the No. 1 play I wish I could have back». Willie Wood arpiona l’ovale e scatta agile verso la meta avversaria, viene placcato a pochi metri dall’obiettivo, ma la sua corsa rimane una delle immagini più iconiche della storia del gioco. Uno scatto abbacinante che confonde gli avversari, una serie di finte di corpo difficili da metabolizzare per provare a rispondere e fermare la corsa del numero 24 giallo-verde. Nonostante la giocata sia entrata nella storia, Wood non se ne ricorda. Non ricorda nemmeno di averlo giocato quel primo Super Bowl. Seduto su di una sedia a rotelle, in un centro d’assistenza di Washington – la sua città Natale -, non ricorda nulla di quanto accaduto quel giorno. In principio bloccato dalle ginocchia, è stata poi la demenza a rubargli ogni funzione cognitiva e, probabilmente, ogni tipo di ricordo.
L’intercetto di Wood passato alla storia
A 79 anni lo trovi seduto nella sua stanza ad ascoltare del jazz anni ’50 con in testa ancora un cappellino dei Green Packers. Se gli si chiede delle foto intorno a lui, momenti di vita come il giorno del proprio matrimonio o dell’introduzione nella Pro Football Hall of Fame, Wood rimane inespressivo. Uno dei player più importanti della storia del gioco può rimanere interi giorni senza parlare, con lo sguardo perso nell’infinito che si apre silenzioso fuori dalla finestra. Quando qualcuno gli ricorda che «you were the best of the best», risponde con una laconica domanda: «I was?». È assurdo pensare a come siano distanti le storie dei due protagonisti di una giocata talmente centrale nella storia del football. Il vincente di allora pare aver perso la vita, sfuggitagli di mano a causa di una sorte avversa e del tempo che è passato, infame, troppo veloce per stargli dietro. Mentre Wood resta seduto nella sua stanza, dallo spazio angusto e dalle pareti candide e silenziose, Dawson si fa fotografare nella sua casa tipicamente americana e alto-borghese. Anche lui come Wood è entrato nella Hall of Fame, ha vinto qualche titolo con i Kansas City, è diventato un commentatore televisivo di successo e un radio broadcaster. Ad ottant’anni è un’istituzione del Midwest sportivo.
Quella giocata, unitamente al primo Super Bowl della storia il Supergame con i campionati di AFL e NFL fusi in un’unica lega, ha portato Wood sul tetto del Los Angeles Memorial Coliseum, vincitore della gara e del duello face to face. La vita, invece, ha pensato bene di prendere strade differenti: Dawson non ha più visto Wood dal 1967, ma come lui ha avuto numerosi compagni di squadra con problemi simili a quelli dell’ex Green Bay, «I think maybe from concussions and things like that. It’s, well, it’s a rough game». Dawson è consapevole che il gioco è stato gentile con lui, gli ha risparmiato sofferenze e paure. Come in un twist dal finale thrilling, le storie dei due ex giocatori si ribaltano, il vincitore di un tempo cade senza riuscire a rialzarsi, mentre il perdente di quel giorno di gennaio del 1967 ha scalato la vetta per arrivare il più in alto possibile. Un post carriera dorato che Wood non ha mai visto, rinchiuso in quattro mura asettiche, affossato dalla violenza del gioco che amava. William Verneli Wood è sempre stato un uomo dalla stazza imponente, uno che avrebbe facilmente schiacciato in un canestro da basket; un ragazzo che ha sempre eccelso nel football sin dalla Armstrong High, un complesso scolastico storico frequentato anche da Duke Ellington. Cresciuto da una madre single, dopo aver lasciato il junior college ed essere cresciuto nell’Università della California del Sud, a metà degli anni ’50 fu il primo quarterback afro-americano della Pacific Coast Conference.
Wood non ha mai saltato una gara in 12 stagioni per i Packers, ha giocato il Pro Bowl otto volte (l’All Star Game dell’Nfl), intercettato 48 passaggi e guidato i propri compagni con la propria tenacia e acume tattico. Molti dei suoi compagni non erano spaventati da coach Lombardi, ma da Willie, dal suo sguardo severo in caso di errore. Wood è stato un leader che al momento del proprio ritiro nel 1971, dopo aver vinto 5 volte la Nfl, è diventato coach con la naturalezza del passaggio ad una stagione matura, entrando nello staff dei San Diego Chargers. Dal 1975 diventa head coach dei Philadelphia Bell, considerato il primo coach afro-americano del football moderno. Nel 1980 finisce ai Toronto Argonauts, nella Canadian Football League, prima come assistente e successivamente come head coach. Una volta ritiratosi nel 2001, i segni di un cedimento si sono fatti evidenti quasi immediatamente: una serie di operazioni per ridurre l’infiammazione alle ginocchia e alla spina dorsale, gli vengono sostituiti il ginocchio destro e l’anca. Ha giocato 176 Nfl gare, effettuato centinaia di tackles negli anni, a partire dai tempi dell’ high school.
Secondo il figlio, Willie Wood Jr., tutto è cominciato con la riabilitazione dai vari interventi. Appena finito con uno, c’era una nuova operazione da effettuare. Un giorno la polizia di Washington si presenta alla porta di famiglia: mentre guidava, Wood aveva all’improvviso perso l’orientamento, senza ricordare la strada per tornare a casa. «He loved what he did on the football field. I never heard him say, “I wish I never played”». Ad oggi i medici non sanno ancora spiegare con certezza assoluta se il suo crollo mentale sia dovuto all’età, al football o ad una combinazione di entrambe le cose. Molti ex giocatori soffrono di encefalopatie traumatiche croniche. Demenza e problemi mentali vengono attribuiti spesso ai ripetuti colpi alla testa, ma ogni diagnosi è possibile soltanto dopo la morte. Nel 2007 Wood ha lasciato il suo appartamento per entrare in un centro d’assistenza. In un’intervista effettuata poco dopo lo spostamento ha dichiarato che il momento più bello della giornata era il risveglio, a cui faceva immediatamente seguito quello peggiore: «Realizzare che sarei rimasto seduto lì tutto il giorno».
Willie Wood è l’uomo che ha impresso il proprio nome nella storia, ci sono le immagini a raccontarne i movimenti e la forza prorompente. C’è anche il ricordo di chi quella giocata l’ha vissuta in campo, sugli spalti o seduto sul divano di casa. In molti la ricorderanno per sempre, ma non Willie: lui non ricorda nulla. Vince Lombardi, coach dei Packers, ha detto: «That was the steal of the game, Willie Wood at his finest».