Golden gol e altri disastri

Gol che valgono doppio, rimesse con i piedi e altre norme assurde del passato Fifa: ovvero di quando è meglio che le eccezioni non diventino regole.

Tra le infinite possibilità che si aprono al viaggiatore appena riemerso dalle viscere di Londra e ordinatamente sputato fuori dalla stazione di Leicester Square, la più invitante consiste nell’attraversare l’incrocio e proseguire dritto: Long Acre è una strada speciale. Quando, agli inizi del ‘900, Edward Stanford II decise di trasferire il negozio di cartine geografiche di suo padre nei pressi dell’imbocco ovest di Long Acre Street, su quella strada si contavano 41 edifici adibiti alla produzione di autobus. Nell’Inghilterra che viveva il massimo splendore del suo periodo coloniale, tutto parlava di avventura, e gli Stanford non mancarono di vendere le loro mappe, tra gli altri, a Robert Falcon Scott, capitano di (s)ventura diretto al Polo Sud in una tappa delle sue personalissime sfide al più fortunato collega norvegese, Roald Amundsen. Stanfords, il negozio di mappe e atlanti più grande del mondo, è tuttora al suo posto, all’inizio di Long Acre, ed è una delle cose migliori che si possano fare in un lunedì pomeriggio londinese.

Ma il nostro viaggiatore proseguirà oltre, perché lui è un adepto di una delle primizie più gustose della City: il passatempo con palla universalmente noto come the beautiful game. Vinta anche la tentazione di svoltare su James Street e concedersi ai colori di Covent Garden, egli troverà la sua metà duecento metri più avanti, sulla sinistra. The Freemasons Arms. È il posto dove è stato codificato per la prima volta il suo passatempo preferito, ed è, come spesso accade a queste latitudini, una public house. (Davvero difficile tenere il conto di quante cose, a Londra, siano state decise di fronte ad una ale).

Stanley Rous, presidente Fifa,sceglie i palloni per il Mondiale del '66 (Robert Stiggins/Getty Images)
Stanley Rous, presidente Fifa,sceglie i palloni per il Mondiale del ’66 (Robert Stiggins/Getty Images)

Nel piano interrato del Freemasons, una serie infinita di coppe, pergamene e altri cimeli ricorda al nostro amico che qui, in sei serate dell’autunno del 1863, una decina di uomini fondarono la Football Association, la prima federazione calcistica al mondo. La quale, in quanto prima, poté permettersi di omettere l’aggettivo English dalla sua denominazione ufficiale. A questo punto occorrerebbe dire che, secondo alcuni esperti, gli incontri sarebbero avvenuti non dentro l’attuale Arms, ma nell’edificio che si innalza all’incrocio tra Long Acre e Great Queen Street: in Freemasons Hall, capolavoro dell’Art Deco e sede storica della massoneria londinese. Ma soprassediamo, e torniamo al nostro viaggiatore, che nel frattempo sta trangugiando la sua seconda pinta. Gli uomini erano emissari di diverse scuole che si erano date ciascuna regole diverse per le proprie partite di pallone. In un’epoca di mappe e autobus (e quindi anche di partite in trasferta), si rendeva necessario un accordo su come si dovessero giocare i match tra club di ispirazioni teoriche differenti. In particolare, le due scuole dominanti erano quella di Cambridge, la prima in assoluto ad aver buttato giù – presso il Trinity College – alcuni princìpi di gioco, e quella di Sheffield, legata invece al primo club della storia del football. Al termine delle sei serate, il primo regolamento della neonata FA finì con l’assomigliare tantissimo a quello cantabrigense, in particolare in due punti-chiave: l’impossibilità di correre con la palla tra le mani e il divieto di colpire gli avversari sugli stinchi. A quel punto, tale W.F. Campbell, rappresentante della scuola di Blackheath e propugnatore di un gioco più “maschio”, si alzò e si tirò fuori dal consesso: «Signori, il football vero è un’altra cosa».

Iniziarono ufficialmente le vite separate di rugby football e association football, con quest’ultimo che poi sarebbe stato conosciuto anche come soccer (proprio da association). Ventitré anni dopo le leggendarie notti del Freemasons, le quattro federazioni del Regno Unito, guidate dalla FA, diedero vita all’International Football Association Board, con lo scopo di “custodire le regole del gioco”. Nel 1904 anche la neonata FIFA, dopo aver riconosciuto l’autorità dell’organismo, ne entrò a far parte, in una posizione di totale subordinazione rispetto ai fondatori. Una subordinazione che dura ancora ai giorni nostri: ad oggi non è possibile modificare alcun punto del regolamento del gioco del calcio senza l’assenso di almeno 2 delle 4 federazioni del Regno Unito. Si tratta di una delle caratteristiche che rendono l’Ifab uno degli organi sportivi più conservatori sulla faccia della terra; un’altra è la volontà esplicita di legiferare su tutto il calcio del mondo – ma proprio tutto – in modo che le regole del gioco siano le stesse in una finale dei Mondiali e in un qualsiasi incontro di una quinta o sesta serie nazionale. Ogni inverno, il Board si riunisce in una città diversa del mondo e valuta le proposte di modifiche giunte dalle diverse federazioni nazionali. In oltre un secolo di vita, le novità sostanziali apportate al gioco che la scuola di Cambridge aveva immaginato a metà ‘800 sono poche e si sono concentrate soprattutto nei primi decenni di sviluppo dello sport.

Settembre 1961: Stanley Rous appena eletto al trono della Fifa, Church House, Westminster, Londra (Keystone/Hulton Archive/Getty Images)
Settembre 1961: Stanley Rous appena eletto al trono della Fifa, Church House, Westminster, Londra (Keystone/Hulton Archive/Getty Images)

Le introduzioni di arbitri, rinvii dal fondo, calci d’angolo e calci di rigore, per esempio, avvennero già prima del 1900; le regole su sostituzioni e fuorigioco, invece, hanno visto revisioni sostanziali in tempi più recenti. Da diversi decenni, comunque, il massimo della concessione progressista che viene fatta è l’autorizzazione a condurre localmente degli esperimenti ritenuti “interessanti”, da estendere poi, eventualmente, a livello globale. Alcuni di questi esperimenti, negli anni, sono venuti decisamente male, finendo con lo sfondare il confine del farsesco. Vale la pena ricordarli insieme al nostro amico viaggiatore, che abbiamo lasciato dentro il Freemasons. Lui ormai è quasi brillo, e di tutto questo preambolo ha le tasche discretamente colme. Su uno scaffale non lontano dagli spillatori ha trovato un volumetto impolverato, si chiama “Le regole del gioco – Ovvero di quando è meglio che le eccezioni non diventino regole”. Lo sta sfogliando proprio ora.

Gioco di mani?

Dopo lo scisma che aveva provocato la definitiva separazione di calcio e rugby, uno dei primi interventi correttivi della FA fu teso a giustificare fino in fondo la natura stessa del football che, etimologicamente, deve essere giocato con i piedi. Nel 1866 fu quindi abolita la regola precedente che stabiliva che il pallone potesse essere passato anche con le mani «purché fosse bloccato entro il primo rimbalzo», e fu contestualmente istituito il ruolo specifico del portiere. Tuttavia un significativo retaggio del football played by hands sopravvive ancora. Si tratta della rimessa laterale, unica situazione in cui un giocatore di movimento è autorizzato a toccare il pallone con gli arti superiori. Questo elemento distopico del regolamento è stato combattuto a metà dagli anni ’90 da Sepp Blatter in persona, che si disse sicuro che «entro due anni la rimessa in gioco con i piedi sostituirà quella con le mani, consentendo un gioco molto più veloce di quello che conosciamo oggi». In effetti, durante la stagione 1994/95 in alcuni campionati minori – tra cui la Serie B belga e quella ungherese – venne permessa la ripresa del gioco dalla linea laterale con un kick-in. Il risultato pratico fu un fiorire di schemi su palla inattiva: ogni rimessa laterale era vista come un’opportunità per colpire di testa nell’area avversaria, proprio come succede con i calci di punizione, ma in questo caso senza nemmeno una segnalazione di fuorigioco da temere. La qualità complessiva dello spettacolo certamente non ne giovò. Con buona pace di Blatter, l’esperimento fu considerato fallito alla fine della stagione, e non è stato mai più riproposto.

Video da una serie inferiore inglese dove si sperimentò il kick-in nella stagione 1994/95. Minuto 5:55: rimessa laterale (cross), e gol.

Portiere sarai tu

La regola che introdusse la figura del portiere, in ogni caso, non definiva esattamente quello che pensiamo oggi quando parliamo di un estremo difensore. Diceva infatti che «il portiere può prendere il pallone con le mani in qualsiasi zona della propria metà campo, purché non corra tenendo lo stesso tra le mani». Successe che nei primi anni del ‘900 alcuni portieri si attrezzarono adeguatamente per sfruttare a loro vantaggio tale libertà regolamentare. Il grande Leigh Richmond Roose, gallese che difese i pali anche di Aston Villa e Arsenal, diventò un autentico specialista nell’avanzare fino alla linea di metà campo palleggiando, prima di lanciare verso gli attaccanti con le mani. La sua azione diventò così efficace che indusse più di un avversario ad appellarsi alla FA, perché Roose stava «rovinando il gioco». Le rimostranze furono accolte nell’estate del 1912, e da allora i portieri sono relegati abbastanza tristemente nelle proprie aree di rigore. Ma ci sono delle gradite eccezioni. In realtà nessun regolamento si è mai sognato di tarpare del tutto la fantasia dei numeri 1, e di impedirgli di uscire dal proprio piccolo mondo di competenza. Ci saremmo persi il gol di Taibi e le punizioni di Rogerio Ceni, ad esempio. Ma, soprattutto, ci saremmo persi David James schierato da attaccante. Memorabile il sabato di maggio di dieci anni fa quando, negli ultimi minuti di un Manchester City-Middlesbrough, David Pearce sostituì Claudio Reyna, un centrocampista, con Nicky Weaver, il secondo portiere dei citizens. Weaver prese regolarmente il proprio posto tra i pali, mentre James – il portiere titolare – andò a fare il centravanti, per creare scompiglio nell’area avversaria sfruttando i suoi 194 centimetri. Furono cinque minuti memorabili, con Calamity James a muoversi sgraziato sul prato, rischiando di far male a chiunque passasse dalle sue parti. Il City finì per raggiungere il suo scopo, e ottenne un calcio di rigore nei minuti di recuperò, ma Fowler lo sbagliò. Non pago, l’incorreggibile Pearce avrebbe riproposto una sostituzione simile nel 2009, in un Inghilterra-Azerbaijan Under 21, facendoci benedire una volta di più l’ontologica diversità del portiere.

James, attaccante con il numero 1

‘O tiriamo strano

Ancora City e ancora anno di grazia 2005. Ma questa volta il protagonista non è David James. È Robert Pires, che cerca goffamente di calciare un rigore “alternativo”, sfruttando il fatto che il regolamento consenta di passare la palla a un compagno – ma solo in avanti – in occasione di una massima punizione (che in questa sede proponiamo ufficialmente di cominciare a chiamare con il suo nome originario del 1891: kick of the death). L’incomprensione con Henry fu tanto imbarazzante quanto storica, al punto che nel video qui sotto, senza scomodare Cruyff e Olsen, ci pensa addirittura l’OFK Dunajska Luzna – una squadra della seconda serie slovacca – a mostrare alle due leggende come si fa.

Pirès-Henry

I calci di rigore, nella loro versione ufficiale di “tiri di rigore”, sono diventati una delle tre procedure per determinare la squadra vincente di una gara nel 1970, su suggerimento dell’ex arbitro tedesco Karl Wald, che pare non ne potesse più di lanciare monetine. Il regolamento prevede che i rigori siano utilizzati solo in tornei a eliminazione diretta, ma questa storia che una partita possa finire senza un vincitore non è stata accettata sempre di buon grado. In particolare, non andava giù agli americani che, nel 1996, stabilirono che ogni incontro della neonata Major League Soccer terminato in parità dovesse essere risolto con la versione yankee dei rigori, i celeberrimi shoot-out, mutuati a loro volta dalla vecchia North American Soccer League. 35 metri di distanza, 5 secondi di tempo e un numero infinito di tocchi possibili per battere il portiere, autorizzato a sua volta a uscire dai pali e ad andare incontro all’attaccante. Gli shoot-out non infiammarono mai il cuore degli americani e nel 2000 furono aboliti definitivamente, forse anche perché gli attaccanti d’oltreoceano avevano ormai esaurito il campionario di soluzioni fantasiose da mettere in atto.

I buffi shoot-out, nel 1980

Non è tutto oro quel che è golden

Jules Rimet fa estrarre i gironi del Mondiale 1938 al nipote (Staff/Afp/Getty Images)
Jules Rimet fa estrarre i gironi del Mondiale 1938 al nipote (Staff/Afp/Getty Images)

Negli anni ’90 anche i tiri di rigore vennero messi in discussione. La Fifa introdusse nel 1993 il Golden Goal come via alternativa per far terminare una partita: lo scopo era quello di favorire una maggiore propensione offensiva delle squadre durante l’extra-time per evitare – appunto – la lotteria dei rigori. Ma l’effetto ottenuto fu esattamente il contrario: il timore di subire un gol e di non potervi porre rimedio in alcun modo diede vita ad alcuni tra i tempi supplementari più noiosi che si ricordino. Forse solo in Francia la memoria del breve regno del golden goal suscita nostalgia, con le realizzazioni di Blanc al Paraguay e di Trezeguet all’Italia che suggellarono gli anni del dominio calcistico transalpino. Nel 2002 fu introdotta una variante meno drastica, il Silver Goal, che assegnava la vittoria alla squadra che si trovasse in vantaggio al termine del primo tempo supplementare. L’unica vittima di tale obbrobrio regolamentare è stata la Repubblica Ceca, che nella semifinale di Euro 2004 subì il gol del greco Traianos Dellas. Al termine di quella competizione, la Fifa abolì sia Golden che Silver Goal, che da allora continuano a vivere solo negli incubi dei difensori degli anni ’90 e in tutte le partitelle dei ragazzini in strada, risolte ancora oggi dal classico e romantico “chi segna vince”.

Ottavi di finale del Mondiale 1998, il golden goal di Blanc

Per concludere questa carrellata di mostruosità concepite per risolvere irrisolvibili situazioni di equilibrio, non si può tacere riguardo la Shell Caribbean Cup del 1994. 21 paesi caraibici (tra i quali poi avrebbero prevalso le isole di Trinidad e Tobago) si affrontavano in un torneo la cui prima fase a gironi non prevedeva pareggi: si procedeva sistematicamente con tempi supplementari e regola del golden goal. Nell’ultimo incontro del proprio girone, alle Barbados serviva una vittoria con almeno due gol di scarto contro Grenada per qualificarsi. Quando, a 10 minuti dal termine dei tempi regolamentari, le Barbados conducevano per 2-1, i calciatori realizzarono che sarebbe stato più conveniente per loro terminare la partita in parità, segnando un’autorete volontaria, per poi giocarsi il tutto per tutto nei 30 minuti di extra-time: per qualche incomprensibile motivo, infatti, gli organizzatori avevano deciso che un golden goal valesse doppio nel conteggio della differenza reti. Una vittoria per 3-2 al termine dei supplementari avrebbe avuto lo stesso valore di un 3-1 al 90°. I minuti successivi all’autogol del 2-2 sono annoverati tutt’ora tra i più surreali dell’intera storia del calcio: per evitare i supplementari, a quel punto rischiosi, ai grenadini sarebbe bastato segnare un gol in una qualsiasi delle due porte, indifferentemente, perché sia una vittoria per 3 a 2 che una sconfitta per 2 a 3 sarebbero valse il passaggio del turno. Alle Barbados toccò quindi l’impresa di difendere sia la propria porta che quella degli avversari per guadagnarsi i supplementari. Durante i quali avrebbero effettivamente segnato il gol “doppio”, quello della vittoria più folle di sempre.

Uno dei momenti più assurdi della storia del calcio

Open mic night

Stante la refrattarietà dell’Ifab all’introduzione della tecnologia in una partita di pallone, i tentativi di contaminazione scientifico-calcistica più spinti sono spesso venuti da terze parti. Con lo scopo di realizzare un documentario sul calcio, in occasione di un Millwall-Arsenal l’arbitro David Elleray fu munito di un invisibile microfono che registrò tutte le comunicazioni – anche quelle meno urbane – avvenute tra arbitro e calciatori durante il match. Era il 1989. L’effetto iper-realistico della trovata fu amplificato dal fatto che i calciatori non sapessero nulla dell’esperimento in corso. La vocina insospettabilmente acuta di Tony Adams che dà del «fucking cheat» al signor Elleray, nel video che segue, è tutto quello che ci resta di quel pomeriggio. E non è affatto disprezzabile.

Open mic

La regola del fuorigioco non sbaglia mai

Una delle regole più discusse e meno immediate del calcio, eppure in origine banalissima: nel primo regolamento della Football Association, infatti, ogni passaggio effettuato in avanti era considerato irregolare, un po’ come avviene nel rugby. Il concetto, estremamente conservativo, fu rivisto molto presto, e già nel 1866 fu stabilito che in un’azione regolare ci dovessero essere «almeno 3 difensori tra l’attaccante e la porta avversaria nel momento del passaggio». La regola venne ulteriormente allentata nel 1925, quando il numero minimo di difensori tra attaccante e porta passò a 2. In un illuminante capitolo del recente saggio Le regole del gioco, il fisico e giallista Marco Malvaldi utilizza un riferimento scientifico per esplicitare le difficoltà insite nel giudicare una posizione di offside, e per lodare, di rimando, il lavoro dei guardalinee. Il punto è che stabilire che il passaggio in profondità e lo scatto dell’attaccante siano effettivamente due eventi contemporanei è un’impresa fisicamente molto ardua, se non impossibile. Il nostro cervello, infatti, tende a ricercare coerenza nel mondo sensibile e, se giudica sufficientemente coerente un fenomeno (come può esserlo uno scatto di una punta in seguito al passaggio di un compagno), tende a ricostruire i segnali che lo producono come contemporanei, anche se in realtà non lo sono affatto. Anche se l’effetto McGurk (questo il nome scientifico del comportamento del nostro cervello appena descritto) non era ancora stato codificato, durante la Coppa di Lega Scozzese, a metà degli anni ’70, si tentò di comunque andare incontro al lavoro degli arbitri con una trovata innovativa. La linea dei 16 metri, quella che determina l’ingresso nell’area di rigore, fu prolungata a destra e a sinistra fino alle linee di fallo laterale, in modo da occupare tutta la larghezza del campo: la regola del fuorigioco era applicabile solo agli attaccanti che si trovassero oltre questa linea al momento del passaggio. Il prevedibilissimo effetto collaterale della trovata fu l’enorme ricorso ai lanci lunghi, con i quali le difese bypassavano il centrocampo e cercavano di servire i loro centravanti, posizionati stabilmente al di qua della linea dei 16 metri e, quindi, perfettamente in gioco. Inutile dire che di spettacolo se ne vide pochino, in quella Coppa. La Fifa sospese l’esperimento nel 1975.

La linea del fuorigioco, letteralmente

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La luce che penetra discreta dalle finestre del pub è ormai quella artificiale dei lampioni e delle insegne. Mentre leggeva dei più assurdi tentativi di modifica al regolamento che veniva stilato più di 150 anni fa proprio lì dentro, probabilmente sullo stesso tavolino quadrato dove lui poggia ora i gomiti, il nostro amico viaggiatore, spuntato dalla stazione di Leicester Square parecchi minuti fa, ha degustato 5 tipi di luppolo differenti, è diventato amico di un dentista australiano in vacanza e ha rischiato di strozzarsi con il suo traditional cod & chips riguardando su Youtube il rigore di Pirès e Henry. Nella notte di Londra che sta iniziando, potrebbe decidere di godersi la vista della metropoli illuminata facendosi un giro sull’Eye, oppure di sperimentare le stravaganze di Soho, oppure di ascoltare musica da qualche parte ad Hackney. Ma, tra le infinite possibilità che si aprono al viaggiatore completamente immerso nelle viscere di Londra, per ora la più invitante è quella di rimanere su Long Acre Street. È monday night, e i 7 schermi giganti di Freemasons Arms stanno per trasmettere Arsenal-Tottenham in Full Hd.