Il giostraio

Se n'è andato Gino Corioni, ex patron di Bologna e Brescia, ultimo baluardo di un calcio che oggi non c'è più. Una vita di intuizioni geniali, come Guardiola e Baggio.

Ognuno di noi sa come definire la propria vita, una qualche didascalia da appiccicare allo scorrere dei giorni che passano sempre un po’ troppo in fretta. La sua Gino Corioni la trovò un pomeriggio di gennaio dell’ ’80 quando ancora era il patron dell’Ospitaletto e gli chiesero come facesse a raggiungere le promozioni e i bei piazzamenti con quella squadretta, un breve postulato di quel che sarebbe stata la sua avventura negli anni a venire. «Non ci sono segreti. Il calcio è come la vita, se lo si prende sul serio non ci si stanca e si ottengono anche i risultati». All’epoca Corioni aveva già quella smorfia da Jack Nicholson appena più imbolsito e il fare del garzone di bottega che ha imparato il mestiere con l’impegno e la volontà. Erano gli anni in cui l’Italia iniziava ad affacciarsi al consumismo nuovo e bizzarro, provando a dimenticare le bombe sui treni e nelle piazze e cercando un altro modo di vivere alla grande. Un’epoca nemmeno tanto diversa dai Sessanta, perché, come scrisse il Time provando a cristallizzarla con gli scatti di Charles Traub, «se c’è una qualcosa che in Italia non cambia mai nel tempo è la ricerca della dolce vita».

Corioni nel 2010. Valerio Pennicino/Getty Images
Corioni nel 2010. Valerio Pennicino/Getty Images

Il calcio ha reso più dolce la vita di Gino Corioni, scomparso a 78 anni dopo una lotta contro il cancro durata troppo a lungo. «Una vita vibrante. Non saprei dire se più bella o più brutta. Senza calcio sarebbe di sicuro stata molto più monotona. Avrei avuto molti meno problemi, ma anche meno emozioni». A diciannove anni il primo impiego l’aveva trovato all’Idra: disegnatore di macchine per pressofusione e plastica, dieci ore al giorno per 25 mila lire. Non era abbastanza. Corioni sognava un’azienda tutta sua, un posto dove prendere le decisioni come pareva a lui. Fu nel ’62 che mise su la Saniplast, «azienda specializzata nella progettazione e produzione di sedili wc e di accessori e complementi per l’arredo bagno», come si legge sull’home page del sito aziendale. «Ho fatto i soldi con i cessi, e allora?», diceva lui piegando l’angolo della bocca con l’ironia degli uomini intelligenti. Merce preziosa, che – strutturalmente – non risente crisi, e che molti anni dopo Corioni proverà a rifilare a Sergej Evgen’evič Alejnikov, talento russo passato dalla Juventus al Lecce e che il presidente proverà a portare a Brescia: «Alla Juve avevi due macchine? Caro ragazzo, i proprietari della Juve costruiscono automobili. Ecco perché le avevi. Io invece produco cessi. Di questi, se credi, posso dartene quanti ne vuoi».

Tutte quelle possibilità, quel modo di vivere con ironia e riuscendo a fare le cose sono state il motore nella vita di Gino Corioni. E ovviamente è stato così nel calcio. Dirà molti anni più tardi: «Il calcio è grande, ragazzi. È stata la mia medicina». Nel 1967 comprò l’Ospitaletto, la pasticca da mandare giù una volta al giorno, una squadra che faceva i dilettanti e duecento spettatori la domenica quando andava bene, e cercando di mescolare come un alchimista le idee imprenditoriali apprese in quel fermento economico all’irrazionalità del gioco, Corioni arrivò in alto. Ci riuscì molte promozioni più tardi conquistando la C1. Ma neppure questo bastò a Gino perché, disse un’altra volta, «noi vogliamo che gli sportivi di Brescia non la considerino più una squadretta di paese, ma piuttosto la seconda squadra del capoluogo». Eppure quando un’azienda gli offrì 50 milioni di lire per stampare lo sponsor sulle maglie Corioni disse no, che i soldi non sono tutto nella vita. Aveva parlato con un’associazione di malati neuromuscolari, «che ci ha creato un problema di coscienza» disse, «e infatti abbiamo capito l’importanza di sponsorizzare un ente benefico». E così l’Ospitaletto giocò, fiero, con la scritta Amnu sul petto aspettando che Corioni, «e gli amici», mettessero mano al portafoglio ogni volte che ce n’era bisogno.

I gol di Roberto Baggio con la maglia del Brescia

Ancora il calcio si faceva così, con la passione e i risparmi di una vita. A metà degli anni Ottanta, dopo essere stato consigliere del Milan alla fine dell’era Giussy Farina, Corioni divenne presidente del Bologna in Serie B. Fu accolto con scetticismo. Parlava dialetto bresciano, portò con sé alcuni giocatori dell’Ospitaletto e affidò la squadra a Gigi Maifredi, allenatore sconosciuto ai più, rappresentante di Veuve Clicquot, che organizzava partite a scopone scientifico, scherzi memorabili e siparietti di teatro durante il ritiro estivo, vate umorista che Corioni faceva andare in panchina senza nemmeno il patentino. D’altra parte, bastava credere e tutto si realizzava. Corioni l’illusionista, il giostraio lo chiamava Lucio Dalla, che viveva di intuizioni geniali. Quel vento di possibilità che aveva imparato da ragazzo trascinò tutti, la città, la squadra, e in breve tempo il club rossoblù tornò in Serie A e andò anche in Coppa Uefa. Memorabile fu la notte di Vienna. Admira 3 Bologna 0, con quattro pali colpiti da Detari. Corioni a fine partita: «Uei, mi sono proprio divertito». «Maddai. Tre a zero per loro». «Uei, se quei quattro palloni finivano dentro vincevamo noi quattro a tre». «E se mia nonna avesse avuto le ruote…». «Uei che bella partita, e che gran Detari». Ma i soldi finirono. Fu costretto a vendere Luppi, Marocchi e De Marchi, e dovette cedere alle insistenze di Montezemolo che alla fine l’ebbe vinta e portò Maifredi alla Juventus. Il declino fu una conseguenza logica e le contestazioni pure: «Corioni Corioni vendi tua moglie», gli gridarono dalla curva. Lasciò poco dopo, ricacciato come uno straniero, con il Bologna in C e fallito.

Admira-Bologna, Coppa Uefa 1990/1991

Nemmeno questo fu sufficiente a placare la voglia di vita e di calcio che aveva Corioni. Nel ’90 rilevò da Ravelli il pacchetto di maggioranza del Brescia, del quale però Corioni divenne presidente ufficialmente solo due anni più tardi, nel ’92. Inizialmente si presentò come «amico del Brescia». Cioè?, gli chiesero i suoi dirigenti: «Questa storia dell’amico del Brescia non ci convince, la stampa nazionale la farà a fette. Come la dobbiamo chiamare? Troviamo un termine…». Corioni guardò i suoi uomini da sotto quelle lenti tonde come la luna e rispose: «Ciàmem Gìno». In un certo senso è stato questo il limite di Corioni detto Gino, l’incredibile senso di umanità mai sporcato dall’ambizione. Che pure aveva, e non poca. Al punto da non accontentarsi di giocatori di provincia da lanciare e poi rivendere al prezzo di gemme luccicanti, no: Corioni voleva dare ai suoi tifosi ben altro, qualcosa di più. «Giocavo a calcio anche io. Ma non ero niente. Mi è rimasta l’ammirazione per tutti i grandi numeri dieci, meglio se mancini come me. Sivori, per esempio, era l’idolo della mia giovinezza». Ammaliato dal talento, Corioni tentò (e fece) colpi incredibili. Convinse Roberto Baggio, che nel 2000 era senza squadra, a vivere un’avventura diversa, nuova, un po’ folle. E convinse anche Mazzone a sedersi in panchina, e avviò un ciclo nella massima serie che durò fino al 2005, il più lungo della storia del club. Al Rigamonti la domenica scendono in campo Guardiola, Toni, Appiah, Matuzalem, il Brescia arriva alla finale Intertoto persa contro il Paris Saint Germain, si respira l’aria di un calcio diverso, internazionale, e Corioni è lì a sdrammatizzare o punzecchiare a seconda dell’umore e delle stagioni. Nemmeno quella volta può durare.

Roberto Baggio nel 2002, con la maglia del Brescia. Grazia Neri/Getty Images
Roberto Baggio nel 2002, con la maglia del Brescia. Grazia Neri/Getty Images

Quel che nei Sessanta era possibile in parte lo fu anche più tardi, negli anni del calcio comandato dai padri-padroni. A un certo punto, però, non lo è stato più. L’Italia nel frattempo è andata avanti, diventando un paese troppo fragile per sognare, lento, macchinoso, e per quelli come Corioni abituati a una giovinezza gloriosa, ammantata di sogni infrangibili, c’è meno spazio. Loro, abituati a vivere il calcio in quel modo così felliniano e assurdo. Alle invenzioni si sono sostituiti i planning. Ai presidenti la governance. E di colpo le figure come quella del Gino diventano anacronistiche, di un’altra epoca, appartenenti a un altro tempo. Si estinguono. Dopo Calciopoli, nel 2005/2006, il Brescia riparte dalla B e non rialza la testa fino al 2010, nonostante in squadra ci siano Zebina, Kone, Eder, Sereni e Diamanti. Gli anni si fanno sempre più duri. Anche per gli allenatori: De Biasi, Maran, Zeman, Somma, Cosmi, Cavasin, Sonetti, e poi Iachini, Scienza, Beretta, Calori, Bergodi e Giampaolo. Così anche l’immagine di Corioni si fa baraonda. Per molti un vulcanico, per altri un mangia allenatori. Ma non è lui a essere diverso, sono le generazioni a essere cambiate. «Sapete – dice una volta -, nel calcio di oggi non si può più sbagliare, il calcio business è solo quello di Serie A».

8 dicembre 2002, il Brescia batte 2-0 la Juventus campione d’Italia: reti di Schopp e Tare

A Brescia per un po’ l’hanno contestato, perché in fondo i presidenti non cacciano fuori mai abbastanza grano dalle tasche, e allora giù fischi e striscioni. Lui tenta in ogni modo di mettere in piedi uno stadio nuovo, ma mica oggi che l’architettura sportiva avrebbe bisogno di una bella spolverata, no: «Quando il calcio sarà andato a gambe all’aria vi ricorderete del Corioni, che parlava di impianti funzionali nel 1990. Bah». L’intenzione c’era, c’è sempre stata, a un tratto sono stati i modi di Corioni a essere sbagliati o fuori tempo massimo. Troppo lontani dal calcio moderno. Poi sono finiti anche i soldi e, due anni fa, con i debiti a stringergli il collo, Corioni ha dovuto lasciare la presidenza del Brescia dopo ventiquattro anni di onorato servizio, di giocatori da copertina patinata e sense of humour alla bresciana. Il giorno che lascia l’incarico, quando alza la coperta per guardare da un’altra prospettiva, Corioni ha la rivelazione di qualcosa che gli era stata negata nelle sue meditazioni più lucide di uomo dedito al calcio e all’utopia. È come guardare in faccia il passato. È scoprire che il calcio non è più lui, quello a cui ti abituato. Meno romantico, più impettito e serio. Un calcio in cui non tutto è possibile. Né migliore né peggiore. Solo un po’ meno dolce.

 

Nell’immagine in evidenza, Gino Corioni con Pep Guardiola, il giorno della presentazione dello spagnolo come nuovo giocatore del Brescia, nel settembre 2001. Grazia Neri/ALLSPORT