L’estate infinita di Gianni Comandini

Un estratto dal libro "Ex – Storie di uomini dopo il calcio" di Matteo Cruccu, edito da Baldini&Castoldi. La storia di Gianni Comandini tra calcio e surf.

Gianni Comandini

EXStoriediuomini«Non è stata una bella stagione. No». Arranchi, con quella borsa più grossa di te, le spalle incassate, lambite da una chioma così demodé da stridere con l’assoluta perfezione del centro sportivo di Milanello. Pensi e non parli, mentre i compagni si girano da un’altra parte, chissà se per distrazione o se lo fanno apposta. Ti hanno visto spesso triste per i corridoi, in questo anno sociale 2000-2001, il tuo primo anno nel grande Milan. Hai posteggiato la tua utilitaria stringendola tra le Jeep dell’ampio parcheggio. Appena entrato, il custode ti ha accennato un saluto, ma solo accennato. È depresso quel ragazzo, eppure dovrebbe baciare la terra su cui cammina: è qui, è al Milan: al grande Milan. Sei andato al bar a ordinare il solito cappuccino e il barista ha sussurrato un «desidera?» pensando: è un presuntuoso, si è montato la testa, crede di dover giocare titolare per grazia di Dio. Ti sei spostato nello spogliatoio, ti sei cambiato, e l’allenatore in seconda ti ha dato la pettorina, gialla, lucida, senza aggiungere altro. E poi il 9. Il 9: da non crederci. Quello è il numero di Van Basten, di cosa stiamo parlando? La storia del Milan indosso a un nessuno. Ti sei messo a giocare con convinzione, entrando duro nei tackle, senza riverenze o inchini, mentre dalla tribunetta sentivi gli occhi della dirigenza puntati sulla schiena. A Silvio non piace. Guardagli i capelli lunghi: sarà mica comunista? L’ultimo è stato Zaccheroni, che avrà pure vinto uno scudetto, miracoloso, eppure è stato cacciato via. Per i corridoi di Milanello, i campi superaccessoriati, nelle stanze linde e ariose i bisbigli, le maldicenze, le cattiverie ti avvolgono tutto intorno, passano radenti le pareti. No. Non sono triste e non sono presuntuoso. Sono uomo di una parola sola, io, Gianni Comandini da Cesena. Me lo hanno insegnato da bambino i miei genitori: la parola è una e non due. Perfetto, straordinario, ma quando ti hanno comprato, ti hanno detto: «Avrai le tue possibilità, te la giocherai alla pari con gli altri».

Ti è bastato, perché sei di una sola parola. A settembre sei partito per l’Australia, lontanissimo, a concludere all’Olimpiade la bella favola che avevi vissuto nell’Under 21. Siamo a maggio, ora, e la stagione è quasi finita. Il grande Milan è un disastro, tu sei un disastro e ora stai giocando questa partitella come se fosse una finale, l’ultima prova, il duello decisivo, ma è solo un allenamento. A settembre però, quando sei tornato dall’Australia, devi essere sembrato un fantasma. Ai guardiani, al cuoco, ai compagni, a Galliani, figuriamoci a Silvio, a Zaccheroni, che pure vi sareste dovuti intendere senza dirvi una parola, da conterranei. Dicono che si sia arrabbiato perché sei arrivato una volta in ritardo. Non ci credi, non ci puoi credere. Sì, non è stata una bella stagione. Pensavi di andare al Milan e scrivere il tuo capitolo nel grande romanzo del calcio. Non ti interessavano le signorine della televisione, perché Federica è sempre stata la prima e rimane l’unica. No, il corollario non ti interessava. Volevi dire la tua su un campo, dopo che tutti avevano parlato bene, troppo bene di te. Miglior giovane italiano. Il nuovo VialliDagli tempo, a questo qui, e diventa il nuovo Van Basten. Tu non hai creduto mai troppo agli scribacchini, agli incensatori di professione col veleno nella coda. Però, sì, sai di essere forte, te lo dicevano già da bambino nei campi sterrati, e poi al Cesena.

13 Sep 2000: Gianni Comandini #7 for Italy puts his shorts back on, during the Olympic Mens Preliminary match between the Australian Olyroos and Italy, played at the Melbourne Cricket Ground in Melbourne, Australia. Italy defeated Australia 1-0 Mandatory Credit: Robert Cianflone/ALLSPORT
Gianni Comandini con la maglia dell’Italia (Robert Cianflone/Allsport)

Ha i numeri quel ragazzino lì, sa colpire di testa, con entrambi i piedi. Ha tecnica, ma è anche intelligente. È un predestinato. E poi è arrivato il Milan. Ma l’ascesa verso il cielo pare essersi interrotta senza pietà. Dicono che sei triste, adesso. Dicono che sei depresso. Il tuo conterraneo, Zaccheroni, quello che non piaceva a Silvio, nel frattempo se n’è andato, anzi è stato cacciato. «Non è mai stato da Milan», ha sempre detto Silvio. Non vi siete presi, ma tutto sommato, essendo della stessa razza, sapevi comunque di poter contare su di lui per quelle intese ancestrali di chi è nato a pochi chilometri di distanza. Prima o poi vi sareste capiti. Ma se ne è andato. E sei rimasto davvero solo, solissimo, per i corridoi di Milanello. «Dai Gianni, su, vai su quel pallone: credici». Oggi ti sta rivolgendo la parola. È la prima volta che succede da quando è arrivato Cesare Maldini. Fino a ora anche lui deve aver pensato che fossi un fantasma: lo chiamavano il papà dei giocatori, quando allenava un’altra Under 21, ma a te non è sembrato poi tanto paterno. Fino a oggi, fino a questa partitella sei contro sei, non ti ha rivolto la parola, Cesare, e poco continuano a rivolgertela i compagni. Tu, però, ti sei intestardito a fare la sola cosa che sai fare: lavorare. E ti sei allenato, non ti sei risparmiato: scatti in partitella, tackle sui difensori, sempre primo sul pallone. Oggi più di ieri non hai paura dei totem, del figlio di Cesare o di Costacurta. E Cesare, che fino a oggi non ti aveva mai parlato, deve però avere visto qualcosa e improvvisamente ti ha chiamato da parte. Ha deciso di rompere il silenzio, dopo quelle prime indicazioni in partitella.

«Giochi tu, domenica giochi tu.» Ecco, uno si aspetterebbe i fuochi artificiali, salti di gioia, lacrime di commozione, pianti irrefrenabili. Giochi tu, hai capito? Bierhoff, il più forte, va in tribuna, e in quella che, in questa stagione triste e disgraziata, è diventata la partita più importante dell’anno, l’unica, giochi tu. Sì, Gianni, al derby, contro l’Inter giochi tu dal primo minuto. Ma tu non hai battuto ciglio, non hai fatto una piega. Non ti sei chiesto nulla. No, nessuna domanda. Se giochi è perché te lo meriti. Non c’è un’altra opzione, un’altra via. Ti hanno insegnato così: se giochi o non giochi è perché te lo meriti o perché non te lo meriti. E domenica, contro l’Inter, giochi tu.

L’onda bisogna saperla aspettare. Non arriva mai quando vorresti tu. Non puoi imporre nulla al mare, le regole della natura sono chiare. Devi aspettare minuti, ore, a volte anche giorni, perché arrivi l’onda giusta, perché tutto si risolva in trenta secondi di godimento puro. È come un orgasmo, un po’ come quando segni, dicono. Ma la tavola da surf non ha schemi di gioco, costrizioni tattiche, imposizioni di sorta: la tavola è libera. Il surf è libertà. L’hai inseguita, la libertà: hai inseguito la tavola, hai inseguito il mare in tutti quegli anni in cui hai giocato, hai cercato di ritrovare ovunque le cartoline sbiadite di Cesenatico di quand’eri bambino. Ti mancava maledettamente, il mare. Sul pullman sociale e negli asettici e precisi corridoi di Milanello; ti mancava nelle camere d’albergo coi letti doppi standard di trasferte tutte uguali. E ti è mancato ancor di più dopo, dopo il Milan, quando eri a Bergamo o, peggio, a Terni. Già, che disastro a Bergamo. Ti hanno pagato trenta miliardi, trenta cazzo di miliardi, un sacco di soldi. Hai anche provato a protestare, «sono troppi, siete fuori di testa, perché, se le cose non andassero come devono, come lo spieghiamo a questa gente che oggi mi abbraccia come se fossi un messia, che mi chiede di farne tre al Brescia, che quasi mi soffoca?» Bergamo, l’Atalanta, non può spendere trenta miliardi per un giocatore. È contronatura. Ed è andata male, anche perché sei stato male.

Quello pensa di essere ancora al Milan, è un montato. Quello non parla con nessuno, si isola dai compagni, perché si crede un padreterno. Quello ha i capelli lunghi, si droga di sicuro, l’hanno visto in discoteca, non s’impegna.  Di nuovo, un mare di chiacchiere con l’aggravante che a Bergamo tutto è impregnato di calcio, non ti puoi nascondere come a Milano, qualunque muro è Atalanta, qualunque casa è Atalanta, qualunque sguardo è Atalanta. E quando le cose vanno male, lì, è come se ti si aprisse una voragine a ogni passo, sotto un coro urlante che ti condanna. Gianni Comandini, sei un fallito. E, poi, che disastro a Terni. Doveva essere il rilancio. Ripartire dalla B in un ambiente più amico, più misurato. E non è andata bene. Non è andata bene nemmeno qui. Anzi, è andata peggio: a Milano, a Bergamo, vedevi un poi. A Terni, invece, gli stimoli sono finiti. La nausea è aumentata. E quando tutti ti sembrano degli estranei il dolore aumenta e non c’è Terni che tenga, non c’è misura che tenga, non c’è soluzione che tenga.

16 Sep 2001: Adani of Fiorentina and Comandini of Atalanta in action during the Serie A 3rd Round League match between Fiorentina and Atalanta played at the Artemio Franchi Stadium, Florence in Italy. DIGITAL IMAGE. Mandatory Credit: Grazia Neri/ALLSPORT
Comandini e Adani si scontrano in un Fiorentina-Atalanta del 2001 (Grazia Neri/Allsport)

Devono sembrarti gli incubi di un altro, ora che tutto è finito, che il pallone scorre solo lì, in fondo all’orizzonte, calciato da dei ragazzi sulla spiaggia. Ora che il mare è tuo l’onda non arriva, ma chi se ne importa, sei qui, sei solo e sei libero. Intrappolato, per tutti questi anni, dalle convenzioni e dalle risposte imparate a memoria, guardato come una bestia rara in un calcio dove le eccezioni, gli irregolari, che pure c’erano negli anni Settanta a giustificare la terrificante normalità di tutti gli altri, a un certo punto non sono esistiti più. Gianni Comandini è stato probabilmente l’unica eccezione; non aveva amici nelle redazioni; non allisciava i mister, rispondendo signorsì o, peggio, spiando, tradendo, imbrogliando; non posava sorridente nella foto di gruppo a Natale col Presidente davanti al caminetto; Gianni leggeva i libri in un cantuccio in fondo all’autobus e, figurati, gli piaceva il rock, mica i soliti Vasco e Ligabue. No, a Gianni piacevano i Clash, i Sex Pistols, i Nirvana, i Metallica, coi suoi poster tenuti in camera ben in vista anche da calciatore. Ti ricordi, Gianni, quando sei scappato dal ritiro per andare a vedere concerti furtivi al Rolling Stone o al Rainbow, segrete del rock che a Milano, oggi, manco esistono più?

Tutti hanno pensato che fosse impazzito, Gianni, quando a 29 anni ha detto basta. Ventinove anni. Una follia assoluta, ora che l’età media del calciatore si è allungata. Gianni ha chiuso che era più giovane di Platini, uno passato alla storia per essersene andato troppo presto, e di anni ne aveva 32. E Gianni era un poco più vecchio del suo incubo, Van Basten, proprietario di quella maglia troppo pesante per lui, ma anche di quella caviglia troppo fragile. E gli anni del divino Marco erano 26, quando è stato costretto a dirci addio. Gianni ha scelto, come Platini, non come Van Basten, di dire basta, ma non l’ha salutato nessuno, non ci sono stati giri di campo, partite d’addio, commiati lacrimevoli, quel giorno. Se n’è andato di nascosto, quasi, dopo che si era svegliato pensando che l’ansia che tutte le mattine lo pizzicava fastidiosamente fosse diventata insopportabile. Si è sentito soffocare, Gianni, ha avuto paura di morire. E i dolori all’inguine, ai muscoli lombari, proprio quel giorno, gli devono essere sembrati più cattivi del solito, più insolenti del solito.

OAHU, HAWAII - JANUARY 12: Ryan Hardy of Australia bodyboards a large wave while competing at Rockstar Games Pipeline Pro Bodyboarding contest on January 12, 2007 at the Pipeline on the North Shore of Oahu, Hawaii. (Photo by Donald Miralle/Getty Images)
Ryan Hardy a North Shore, Oahu, Hawaii. (Donald Miralle/Getty Images)

E ha detto basta a v-e-n-t-i-n-o-v-e anni. Avrebbe potuto malinconicamente scendere di categoria, assaggiare il pane duro della C e poi della D. Lo inseguivano i procuratori, lo rivolevano indietro le società romagnole da cui tutto era partito, facevano a gara per avere in squadra Gianni Comandini, quello che partendo da Cesena ha giocato nel Milan. Oppure sarebbe potuto andare in qualche sceiccato, a svernare nel deserto a suon di diamanti. O a languire in qualche pub di seconda divisione, in Inghilterra. E garantirsi una vecchiaia serena.  Ma come glielo dicevi all’ansia e alla schiena? Come glielo spiegavi che avresti voluto continuare? No, Gianni ha detto basta. Perché per gli «altri il calcio è stato il modo migliore in cui hanno potuto vivere, per me è stato un passaggio per poi vivere in un altro modo.» Per tutti gli altri è così: il male oscuro ti assale dopo, quando dal campo non approdi da nessun’altra parte, quando nessuna panchina ti aspetta, nessun presidente ti chiama, nessuna trasmissione televisiva ti invita. Ti ricordi di Di Bartolomei? Era rimasto solo e si è sparato un colpo, il giorno del decennale di Roma-Liverpool, divorato da chissà quali incubi.

Te lo ricordi, Gianni? Tormentato dall’ansia e dal dolore, terribile, di due ernie, il tempo da passare a letto, orizzontale. Ecco, in quelle attese interminabili e sofferte, Gianni non pensava a un pallone, non rivedeva le azioni di gioco, non si arrabbiava perché il mister per l’ennesima volta l’aveva spedito in tribuna, promettendogli un avvenire che non avveniva mai. No, Gianni, in quel letto d’ospedale, pensava al mare e alla tavola da surf. Alla solitudine di una spiaggia, a un’altra vita. E il dolore passava d’incanto, morfina naturale, finché la visione reggeva, finché s’immaginava in mezzo all’oceano e non sul letto di un ennesimo fisioterapista o in visita da un ennesimo ortopedico. E, allora, a un certo punto non ne ha potuto più degli ortopedici, dei fisioterapisti, degli allenatori, dei presidenti, dei compagni, dei tifosi (già, certi tifosi, i peggiori: alcuni di loro ti minacciavano al telefono, ti aspettavano fuori di casa, ti hanno anche schiaffeggiato in pubblico).

SYDNEY, AUSTRALIA - MAY 08: A surfer rides a wave while surfing at Bronte Beach on May 8, 2012 in Sydney, Australia. (Photo by Ryan Pierse/Getty Images)
Un surfista sull’onda a Bronte Beach, Sydney, Australia. (Pierse/Getty Images)

A ventinove anni, poi, il mare è arrivato davvero, con la tavola, uno zaino, una Lonely Planet sgualcita e nient’altro. Gianni dai capelli lunghi si è confuso con i suoi coetanei. Gianni coi sandali ha iniziato a girare vorticosamente: il Brasile, i Caraibi, il Nepal, l’India, il Vietnam, l’Australia. L’autobus sociale superaccessoriato è diventato un trabiccolo che si inerpica sulle Ande, l’albergo sempre uguale di una catena internazionale si è trasformato in un ostello o una catapecchia cenciosa. I compagni di viaggio, gente come lui, fricchettoni si sarebbero detti un tempo, libero lui in mezzo a loro. Gianni ha girato, girato, girato, vorticosamente. Senza sosta. Perché quando giocava non aveva mai potuto girare davvero. Già: che viaggi sono quelli in cui parti, ti scortano in un pullman dai vetri oscurati in un megalbergo alla periferia della città, scendi, ognuno perso nelle cuffie, con due transenne a destra e sinistra, per contenere l’affetto ingombrante dei tifosi, poi rimani chiuso in camera per ore, poi di nuovo sul pullman oscurato, un’auto della polizia davanti e una dietro, a sirene spiegate, via allo stadio di turno per la rifinitura, una mezzoretta, qualche domanda rituale, sempre le stesse, da parte dei soliti giornalisti al seguito, e poi il ritorno in albergo, chiusi di nuovo in camera a fissare il soffitto, fino alla partita. Si chiama viaggiare questo? Sono stato dappertutto e non ho visto niente.

Ora Gianni è a Copacabana, sul lungomare. Ci è andato spesso, in Brasile, in questa sua seconda vita: c’è l’oceano, ci sono le onde, c’è la tavola da surf. Non gli serve altro. Null’altro. Passeggia in bermuda e in infradito tra i baracchini con le bandiere ben in vista del Flamengo, del Fluminense, del Vasco e del Botafogo. Sono volati via tutti i pensieri neri di quando giocava. Ora pensa solo alla prossima onda. È solo in mezzo a un’enorme fiumana di gente, di umanità che cammina avanti e indietro in questo posto da cartolina, iconico. Gli sembra d’esser solo a Gianni, con la sua tavola e le sue infradito. Ma, adesso che si è fermato a bere un caffè, quasi senza accorgersene sente all’improvviso gli occhi addosso. All’altro lato del bancone un tizio lo fissa a lungo, lo guarda interrogativamente. È italiano, si capisce, e non è la prima volta, in questo vorticoso viaggiare, che gli capita. In questi casi Gianni ha adottato sempre la stessa tecnica: si è girato dall’altra parte, per non essere inchiodato a un passato con cui ha litigato, di cui non vuole sapere più nulla. Per anni, Gianni ha voluto dimenticare di esser stato un calciatore.

KAPALUA, HI - JANUARY 5: A surfer duck dives a wave at Windmills during large storm surf in Hawaii January 6, 2005 in Kapalua, Maui, Hawaii. (Photo by Donald Miralle/Getty Images)
Un surfista a Kapalua, Maui, Hawaii (Donald Miralle/Getty Images)

Così, anche questa volta, Gianni si gira dall’altra parte fingendo di leggere distrattamente un giornale in portoghese, ma gli occhi ora li sente puntati sulla schiena, come un mitra: «ma sì, l’ho visto a San Siro quello, come si chiama?» E pensare che Gianni, in tutti questi anni non ha più voluto vedere una partita di calcio, gira al largo dagli stadi, anche qui, nel Paese del calcio, come se si trattasse di una fastidiosa allergia. Gianni si allontana dal bancone per rimescolarsi al fiume umano, nella speranza di sfuggire a quello sguardo. Sono secondi, ma se lo sente addosso anche mentre cammina via lentamente: «ma dai, giocava nel Milan. Si è uno del Milan. Ma come si chiama? Non riesco a ricordarmelo». E Gianni vorrebbe cancellare anche questa piccola fama, che però rimane imperitura, perché ci sono partite spartiacque, partite che i tifosi ricorderanno per sempre perché eccezionali, cataclismiche. Brasile-Uruguay 1-2, Brasile-Germania 1-7, Italia-Germania 4-3, Napoli-Milan 2-3, Juve-Liverpool 1-0, Roma-Liverpool e i rigori, Milan-Liverpool e i rigori. Cose che non contano più in questo pomeriggio afoso di Rio, o in quello di Bangkok, o in Australia, o ovunque.

Come se non avesse mai giocato, l’orizzonte è un’onda. Il turista non c’è più, è sparito dietro l’angolo, ma il suo sguardo, la sua ombra è rimasta attaccata alla schiena di Gianni. Una sensazione sgradevole, ma non è inedita: quegli scambi non desiderati non si spengono mai subito, tocca portarseli dietro, per ore e per giorni. Ma sì, quello è Gianni Comandini, ecco chi è, cazzo non me lo ricordavo, quello di quella volta di Giunti, di Sheva, di Serginho. Sì, ci sono partite che i tifosi ricordano nei momenti bui, vi si aggrappano con sollievo come a una scialuppa: sì, c’è stata anche quella vittoria epocale. E che altri tifosi cercano di dimenticare a ogni costo, o, al contrario, vi si aggrappano anch’essi per poter dire «che, dai, poteva anche andare peggio come quella volta.» C’è sempre una Partita a ricordarti il sottofondo del baratro. Sì è proprio Gianni Comandini, quello di quella volta che li abbiamo distrutti.

A surfer rides a wave at Varazze on January 8, 2016 during swells and rising winds in the Gulf of Liguria, northwestern Italy. / AFP / OLIVIER MORIN (Photo credit should read OLIVIER MORIN/AFP/Getty Images)
Il surf tra le onde di Varazze, nel Golfo di Liguria (Olivier Morin/Afp/Getty Images)

Ecco, per quel turista, come per tutti gli altri, Gianni ha sempre pronto questo discorsetto imparato a memoria, che però non gli riesce mai di dire perché ogni volta si allontana, scappa dagli sguardi. «Non sono io, ti confondi. Figurati se un calciatore va in giro in infradito, con appresso soltanto una tavola da surf, dormendo in una cazzo di camera comune, con i cessi in comune, mangiando per quattro soldi in una capanna. Te lo vedi, tu, un calciatore così? Si è mai visto un calciatore così? Ti confondi, non sono questo Gianni Comandini. Non so chi sia». Per tanti anni, per tutti gli anni in cui ha girato vorticosamente per il mondo, Gianni ha negato di esser stato Gianni Comandini, giocatore di serie A, autore di una doppietta, minuti 3 e 19, il primo una mezza girata di classe, da centravanti vero, il secondo un colpo di testa assassino, devastante, i due primi gol in maglia rossonera – e anche gli ultimi: non ne avrebbe più segnati con loro – in un giorno di maggio che sembrava estate: già faceva caldo allo stadio di San Siro, quel giorno di Inter-Milan. Finì 0-6.

Ex – Storie di uomini dopo il calcio
Matteo Cruccu
Baldini&Castoldi
144 pp.
15,00 €
© Baldini&Castoldi S.r.l., Trebaseleghe (PD) 2016