Giocare per davvero

Campioni di Fifa Ea Sports chiamati a fare da testimonial a veri club, Football Manager, Nfl e realtà virtuale: le interazioni tra videogiochi e sport reale.

In principio furono i simulatori di Formula 1. I primi videogame progettati per essere reali (quasi) quanto il reale. Usati dai piloti per tenersi in forma, testare nuovi circuiti, allenare la concentrazione. E oggi sempre più frequentati, con le prove in circuito contingentate per regolamento. Per informazioni, chiedere a Max Verstappen. Il talentino della Toro Rosso in un’intervista l’ha ammesso: «I sorpassi? I videogame mi aiutano a migliorare». Ricordatevene, la prossima volta che vi dicono che stareste perdendo tempo, lì seduti con la console accesa e il controller in mano.

Perché il caso non è isolato, tutt’altro. Il mondo virtuale e quello reale si toccano sempre più spesso e sempre di più. In modo direttamente proporzionale alla crescere della qualità digitale, dell’intelligenza artificiale, della perfezione che mai avremmo pensato di trovare in mezzo tra un frame e l’altro. L’altro illustre esempio è quello – da milioni di copie e oltre 4 miliardi di dollari – di Madden NFL. Il videogioco della EA Sports sul football americano è arrivato, secondo molte analisi, a cambiare il gioco reale. Oggi sui più prestigiosi prati made in Usa pascolano ricevitori e quarterback che hanno passato l’adolescenza divisi tra il campo e la console. Provano le stesse giocate che si sono abituati a fare davanti allo schermo. E stanno rendendo più offensivo e spettacolare uno sport che, tra l’altro, ne aveva relativamente bisogno.

C’è insomma una questione generazionale. In tante discipline, niente è più come prima. E non sarà un caso che questa sia anche la generazione in cui brilla l’unica stella dello sport capace di mettere in crisi gli sviluppatori di videogame: Stephen Curry. La guardia di Golden State Warriors tira e segna come in un videogioco. Anzi meglio: 45,4 per cento da tre alla fine della stagione regolare, per intenderci. E così ai responsabili di Nba 2k è venuto un tale mal di testa che l’hanno ammesso: ancora non sanno come rendere la versione virtuale di Curry più aderente alla folle realtà.

(Chung Sung-Jun/Getty Images)
(Chung Sung-Jun/Getty Images)

Ma dall’Nba torniamo all’Nfl. Perché il football made in Usa sta vivendo una rivoluzione tecnologica che dice parecchio dei tempi che galoppano. «Non solo le nuove stelle vengono da quest’epoca in cui i videogame sono parte della loro vita quotidiana – spiega Roberto Gotta, giornalista di FOX Sports Italia e grande esperto di Nfl – ma sta cambiando profondamente il modo di allenarsi e di preparare una partita. Più che per gli allenatori, vale per i singoli giocatori, che con Madden trovano l’esperienza ideale: camera in soggettiva a guardare il campo e cuffie nelle orecchie a replicare gli effetti dello stadio. Ma oggi si va oltre. E si è persino arrivati ad utilizzare la realtà virtuale».

Quello che sul campo si può provare solo poche volte viene ripetuto e memorizzato con un visore di realtà virtuale addosso. L’allenamento continua a casa, o in albergo. Così è sempre stato per l’Nfl, ma adesso non si fa più solo con foto e schemi e appunti. Il confine tra videogame e realtà è caduto del tutto, e gli strumenti più diffusi a livello professionistico si chiamano EON Sports VR e Strivr. Nel primo caso il giocatore indossa una simulazione della realtà, entra di fatto in un videogame iper-realistico, dove compagni ed avversari si muovono secondo le centinaia di schemi preimpostati. Nel caso di Strivr ci si immerge invece nella realtà reale, in situazioni di allenamento già provate e registrate grazie a una telecamera a 360 gradi.

Chi finisce per beneficiarne di più è ovviamente il quarterback: il nucleo di tutte le giocate offensive, l’uomo chiamato davvero a memorizzare decine di combinazioni per un solo match. «Per quel tipo di ruolo – prosegue Gotta – la visione e la visuale sono importantissime. Il quarterback deve valutare in un attimo la posizione e i movimenti di undici avversari e quelli di almeno cinque o sei propri compagni. Ma anche per un linebacker può diventare uno strumento importante. In genere, funziona come con la memoria muscolare: in un caso è il fisico ad imparare determinati movimenti a forza di ripeterli. In questo caso è la mente, che memorizza determinate situazioni vedendole e rivendendole con il massimo grado di realismo».

E poi c’è il calcio. Un mondo che già nasce – per un certo snobismo – refrattario all’eccesso di tecnologia. Figurarsi all’idea di poter essere toccato o influenzato da giochini per adolescenti. E invece. E invece pure qui l’incontro tra virtuale e reale è ormai un fatto, ben al di là dallo schema «classico»: quello che vede i giocatori alle prese con le sfide alla console durante i ritiri, e al più impegnati come testimonial di uno o dell’altro titolo (Fifa e Pro Evolution Soccer, tra tutti). La versione videoludica del gioco più bello del mondo è ormai un «e-sport» a tutti gli effetti. Uno sport virtuale, con tanto di mondiali sotto l’egida della FIFA. Si chiama Interactive World Cup e l’ultima edizione si è chiusa il 24 marzo con la finale all’Apollo Theater di New York. Ha vinto un danese dal nome arabo: Mohamad Al-Bacha. Per lui un assegno da 20 mila dollari, consegnato da David Villa. E un invito ad assistere a Zurigo alla prossima premiazione per il Pallone d’Oro.

The best FIWC final ever?The final of the FIFA Interactive World Cup. A match that will keep you guessing until the final whistle!

Posted by FIFA Interactive World Cup on Thursday, March 24, 2016

 

Tra le presenze fisse alla massima competizione del pallone virtuale ci sono anche loro: Benedikt Saltzer e David Bytheway. Un tedesco e un inglese, di 24 e 22 anni. Non due videogiocatori qualunque, ma i primi due con in tasca un contratto per un club reale. Un club che gioca la Champions: i tedeschi del Wolfsburg. I due ingaggi sono arrivati a distanza di qualche mese l’uno dall’altro, e così Benedikt e David – che sui campi della Bundesliga farebbero solo figuracce – sono diventati compagni di squadra di Schürrle e Draxler. Come nella migliore delle tradizioni calcistiche, il loro ingaggio non è stato reso noto. Di certo i due si possono godere tutto il materiale tecnico ufficiale del team, comprese le magliette con il nickname sulla spalle e la sedia ergonomica tutta verde fornita dallo sponsor della divisione e-sport del Wolfsburg. Per il club è tutta visibilità, a patto che i risultati siano all’altezza delle attese. E infatti i due ragazzi si allenano almeno un paio d’ore al giorno. Non troppo, perché trovare rivali alla loro altezza non è facile. Ma abbastanza per avere una pagina «atleta» su Facebook e sfoggiare foto in compagnia di belle bionde.

Secondo Deloitte, il giro d’affari mondiale degli e-sport è destinato a crescere del 25 per cento nel 2016, fino a quota 500 milioni di dollari. Facile capire perché un grande club come il Wolfsburg abbia deciso di presidiare anche questa nuova forma della passione calcistica. «Il nostro obiettivo – ha spiegato il direttore sportivo del club Klaus Allofs – è creare una connessione forte tra il calcio reale e la sua versione digitale. Fifa sta diventando sempre più realistico di anno in anno, ed è molto popolare tra i calciatori professionisti e tra i tifosi».

Intanto la strada dello sport virtuale veniva battuta anche in Turchia, da un altro club di primo piano: il Beşiktaş. La squadra di Ricardo Quaresma ha prima stretto una collaborazione con un team locale di videogiocatori, che per la verità non era dedicato solo al calcio. Poi nel 2016 ha aperto il suo team in proprio, che ancora compete su altri videogiochi diversi dal calcio, ma sulla pagina Facebook si presenta schierato in maglia ufficiale Beşiktaş e sguardo cattivo da finale di Champions. Per non farsi mancar nulla, a febbraio la squadra ha pure cambiato allenatore. Non per scarsi risultati, ma perché il ruolo stava diventando troppo stressante. E ora la domanda si pone: quanto ci vorrà perché anche un club italiano entri in grande stile nel campionato virtuale?

August Rosenmeier eDavid Bytheway all'Interactive World Cup a Rio de Janeiro (Tasso Marcelo/AFP/Getty Images)
August Rosenmeier eDavid Bytheway all’Interactive World Cup a Rio de Janeiro (Tasso Marcelo/AFP/Getty Images)

Il più eclatante caso di commistione tra reale e virtuale si chiama però Football Manager. Per chi non lo conosce: il principale tra i videogame manageriali di calcio. Quello che consente a chiunque di fare l’allenatore-manager, prendere in mano squadre reali, gestire il mercato e gli allenamenti, stabilire le tattiche e così via. Una generazione di nerd pallonari (la mia) ci ha perso nottate e diottrie. E oggi la portata del fenomeno è tale che anche qui si è finiti per sconfinare nel mondo reale. Football Manager ha circa 1.300 «scout» in 51 Paesi, una rete di esperti impegnati a mappare tutti i calciatori esistenti sulla faccia della terra e soprattutto individuare i campioni di domani. Con questi numeri e l’esperienza acquisita, è il miglior osservatorio esistente sui futuri prospetti. Un database che è diventato una tentazione per i club reali di ogni livello e di ogni nazione: difficile resistere all’idea di scovare il prossimo Lionel Messi grazie al lavoro fatto (da altri) sul videogame per renderlo più realistico possibile.

Del resto proprio su Messi e Football Manager c’è una storiella niente male. L’ha raccontata nel 2014 «An alternate reality», il documentario voluto dalla casa produttrice del gioco. I Rangers scoprirono «la pulga» a 15 anni, quando era ancora un canterano del Barça. Merito di Alex McLeish, che allora allenava a Glasgow. O meglio: merito di suo figlio, che aveva scovato Messi (e Iniesta) giocando a Football Manager. Ma i casi di contatto tra virtuale e reale sono tanti, e sempre di più. «José Cheira, detto Zé, è stato uno dei ricercatori storici di Football Manager per il Portogallo. E oggi è uno degli scout del FC Porto, uno di quelli che ha scoperto Alex Sandro». A rivelarlo è Alberto Scotta, 44 anni, capo dei ricercatori di FM in Italia. Sul web lo conoscono tutti come Panoz.

(Chung Sung-Jun/Getty Images)
(Chung Sung-Jun/Getty Images)

Se provate a chiedere in giro, nel mondo del calcio italiano, nessuno o quasi ammetterà che un videogame possa influenzare in qualche modo il gioco più bello del mondo. A Coverciano e al settore tecnico della FIGC giurano di non averne mai parlato, nemmeno ai corsi per osservatori. Eppure Panoz racconta una realtà un po’ diversa. «L’episodio che mi viene in mente è quello di Miguel Veloso e Franco Zuculini: nel 2010, quando il Genoa li prese entrambi, erano due dei prospetti più importanti del videogioco. E qualche dubbio ci venne… Di certo tra giocatori e allenatori ci sono tanti appassionati, nelle serie minori ma non solo. Un esempio? Massimo Oddo, attuale allenatore del Pescara. Lui Football Manager l’ha usato anche per provare qualche soluzione tattica. E ovvio, per dare un’occhiata al database alla ricerca di nuovi talenti. L’ultima volta che l’ho incontrato era la scorsa estate, dopo un Torino-Pescara di coppa Italia. Era a caccia di una punta…».

È soprattutto oltremanica, nel Regno Unito, che FM è diventato un fenomeno. Al punto che circa il 40 per cento degli utenti è britannico. Ma anche la community italiana continua a crescere. E il database che riguarda l’Italia è profondissimo: contiene 80 mila profili, a fronte di 650 giocatori che giocano in serie A. Una fonte che – ci scommettiamo – viene consultata e utilizzata molto più di quanto il nostro calcio voglia ammettere. E del resto anche indirettamente ha il suo peso, se pensiamo che gli strumenti «ufficiali» usati dai grandi club – Wyscout e Prozone – hanno un’impostazione che per certi versi deve molto all’universo dei videogame manageriali sul calcio. «Il prossimo DS della Roma sarà Football Manager?», si è chiesto Panoz davanti alla riorganizzazione in vista nello scouting giallorosso. Solo una provocazione, certo. Almeno per ora.

 

Nell’immagine in evidenza, la finale dell’Interactive World Cup a Rio de Janeiro, nel 2014 (Tasso Marcelo/Afp/Getty Images)