Marco Giampaolo, integralismi e compromessi

Marco Giampaolo ha dovuto reinventarsi per rientrare nel mondo del calcio.

I ribelli sono rigidi e inflessibili, cocciuti e testardi. Detestano le convenzioni sociali e non rinunciano alle loro idee. Ma quando si scontrano con la realpolitik, talvolta, anche loro sono costretti a piegarsi. Marco Giampaolo sembra aver colto, alle soglie dei 49 anni, l’insegnamento del suo maggior riferimento politico, quell’Enrico Berlinguer che per trasformare la sinistra in forza di governo fu disposto a scendere a patti col nemico di sempre, la Democrazia cristiana. Per tornare in Serie A, da protagonista, dopo quattro anni di assenza, l’allenatore dell’Empoli ha dovuto fare qualcosa di simile. Rinunciare a una parte dei suoi principi e accettare dei compromessi con se stesso. Smettere i panni di rivoluzionario e farsi un po’ più conservatore. Sporcarsi con quel calcio che «purtroppo è inquinamento» e in cui era sempre apparso come un outsider.

Per far meglio di Maurizio Sarri, e superare i 42 punti conquistati dall’Empoli nel 2014/2015, Giampaolo ha dovuto rispettare il lavoro di chi l’aveva preceduto come non gli era mai capitato prima in carriera. Che per lui si trattasse di un’ultima chiamata era chiaro dall’inizio. L’aveva capito lui stesso quando si era presentato come «un uomo libero dopo l’ergastolo. Magari con la condizionale». Sbagliare non era più ammissibile. Un altro esonero dopo quelli di Cagliari, Cesena, Siena e Catania sarebbe stato l’epigrafe sulla lapide sportiva di una carriera vissuta a meno della metà del suo potenziale. Colpa di un integralismo tattico e morale che troppo spesso gli aveva messo i bastoni tra le ruote. Ne era consapevole anche lui: «Forse se fossi stato io più furbo e opportunista, sarei andato avanti», spiegò all’Unione Sarda in un’intervista del 2010, parlando della sua esperienza a Cagliari. «Ma non ce la faccio proprio a essere quello che non sono. In un rapporto di lavoro preferisco la schiettezza».

Figlio di un muratore e di un’operaia di Giulianova, emigrati a Bellinzona alla ricerca di fortuna e ritornati in patria quando il piccolo Marco aveva un anno, l’allenatore dell’Empoli è cresciuto con idee politiche di sinistra e valori forti, quelli che lo portarono a rifiutare la seconda chiamata di Massimo Cellino dopo altrettanti esoneri, stracciando due anni e mezzo di contratto perché «l’orgoglio e la dignità non hanno prezzo». A Cagliari, Giampaolo aveva fatto scelte coraggiose. Dopo esser stato licenziato e reintegrato il primo anno, ottenendo la salvezza con una giornata d’anticipo, decise di cambiare tutto. Diede il suo placet alle cessioni di David Suazo, Mauro Esposito e Antonio Langella, per perseguire, con un anno di ritardo, il suo disegno tattico, e dare alla squadra quel gioco diverso e più accattivante che riteneva necessario. Arrivarono Pasquale Foggia e Michele Fini, gli esterni invertiti chiave nella sua esperienza ad Ascoli. In attacco le scommesse furono Alessandro Matri, Robert Acquafresca, Joaquin Larrivey. La squadra partì bene, vinse la prima a Napoli rovinando la festa del San Paolo per il ritorno in A, poi ebbe una battuta d’arresto e l’allenatore fu esonerato dopo una partita contro la Roma non giocata per la morte di Gabriele Sandri.

«Fui mandato via non per i risultati ma perché le mie idee sul gioco e sulla valorizzazione dei giocatori non collimavano con quelle della società», è la sua versione dei fatti. Un mese dopo, con la squadra ultima in classifica e l’addio di Sonetti, Cellino tornò ancora da Giampaolo, che rifiutò. La squadra si salvò con Davide Ballardini, e la scommessa del nuovo Cagliari fatta in estate si dimostrò vincente nelle stagioni successive, quando la sua eredità fu raccolta da Massimiliano Allegri, che dopo aver vinto la Panchina d’Oro per il suo scudetto col Milan, lo definì uno «degli allenatori in Serie A migliori di me».

Estate toscana, agosto e occhiali da sole (Gabriele Maltinti/Getty Images)
Estate toscana, agosto 2015 e occhiali da sole (Gabriele Maltinti/Getty Images)

I due, calcisticamente, hanno in comune un calcio fatto di difesa alta e possesso palla, figlio delle idee del loro comune maestro Giovanni Galeone. Allegri, però, ha imparato a domare il carattere ribelle che aveva da calciatore, ha allenato le grandi, ha vinto tre scudetti e disputato una finale di Champions League. Giampaolo no. Si è chiuso in se stesso e nelle sue idee, nascondendosi dietro a un sigaro acceso e a un volto che raramente tradisce emozioni, una faccia in cui anche i sorrisi appaiono sempre timidi e abbozzati. Per lui, il mondo è sempre stato bianco o nero, senza possibilità di sfumature di grigio. Anarchico e allergico alle regole, all’inizio della sua carriera ha passato due stagioni in panchina senza patentino: vice formalmente, allenatore in capo di fatto, affiancato dal “prestanome” Massimo Silva.  Alla fine l’hanno squalificato e costretto a diplomarsi con una tesi sulla settimana tipo dell’allenatore: praticamente un dossier sul suo modo di preparare una partita e lavorare con la squadra.

Una filosofia in cui il talento individuale viene sempre dopo il concetto di squadra. Sarà stato forse il trauma del mancato trasferimento di Madjer, il tacco di Allah, all’Inter, quando era solo un giovane tifoso nerazzurro. O magari la naturale evoluzione di ciò che era stato in campo: «Un play ordinato, con discreta tecnica e molto generosità». Sicuramente ha influito la prima partita vista allo stadio, un Ascoli-Milan con Sacchi sulla panchina rossonera. Quella squadra così perfetta nel suo insieme, in cui ogni talento era al servizio del collettivo, e non c’era spazio per l’improvvisazione tipica dei numeri 10, l’aveva stregato. Eppure un 10 ce l’aveva in famiglia, Federico, quel fratello capace di segnare 75 gol in B e 4 in due stagioni di A, passando per la Juventus senza giocare mai una partita di campionato in due annate diverse.

La Juventus è una maledizione di famiglia. Se Federico l’ha conosciuta solo con la maglia d’allenamento, a Marco è successo di peggio. Alla fine del 2009 era stato convinto di poter diventare allenatore bianconero. Aveva parlato con Alessio Secco e l’intesa era stata trovata. Poi Ciro Ferrara, che avrebbe dovuto traghettare la squadra dopo l’esonero di Claudio Ranieri, vinse le ultime due partite di campionato, compresa quella contro il suo Siena, e fu confermato anche per la stagione successiva. «Mi meritavo la Juve in quel momento», avrebbe commentato anni dopo in un’intervista rilasciata all’agenzia ItaSportPress. «Chissà, forse con me in panchina la squadra bianconera avrebbe fatto un altro cammino nella stagione 2009/10». Chissà, forse. Meritava la Juve ma restò a Siena, dove aveva appena fatto il record di punti in A per il club, ma fu esonerato dopo poche giornate dall’inizio della sua seconda stagione in Toscana.

Nel 2011, a Catania, fu licenziato nonostante avesse ottenuto 22 punti in 20 partite, in perfetta media salvezza, tra le accuse di chi lo chiamava difensivista. Paradossale per uno che ha imparato il mestiere da Galeone e Delio Rossi. «È ingiusto. Difensivista è chi gioca con 10 terzini, chi specula e non fa giocare gli avversari. Essere attenti alla fase di non possesso è altra cosa», disse in una conferenza stampa di fine 2010, poco prima del licenziamento. Giampaolo è, invece, semplicemente ossessionato dall’occupazione degli spazi e dagli equilibri tanto quanto lo è dai movimenti senza palla e dalle sovrapposizioni che devono portare a una fase offensiva bella ed efficace. Principi normali per uno cresciuto nel mito di Sacchi, che nel 2014 dimostrò di ricambiare la stima. «Mi chiamò per allenare la Nazionale under 21», ha raccontato Giampaolo a Sky il primo maggio 2016, dopo il pareggio per 0-0 contro il Bologna, «ma avevo già preso un impegno e dissi di no».

Napoli's Italian coach Maurizio Sarri (L) greets Empoli's Italian coach Marco Giampaolo before the Italian Serie A football match SSC Napoli vs Empoli FC on January 31, 2016 at the San Paolo stadium in Naples. / AFP / CARLO HERMANN (Photo credit should read CARLO HERMANN/AFP/Getty Images)
Maurizio Sarri e Marco Giampaolo prima di un Napoli – Empoli dello scorso gennaio (Carlo Hermann/Afp/Getty Images)

Chissà come si sarebbe trovato nei panni di selezionatore uno così convinto che per costruire una squadra servano tempo e autonomia. E quei «giocatori fidelizzati al progetto, all’idea» di cui aveva parlato in un’intervista all’inizio della sua brevissima avventura a Brescia. Dalle Rondinelle scappò via avvisando solo il presidente Corioni, dopo che la curva aveva di fatto esonerato il suo vice Fabio Gallo, colpevole di aver avuto un passato da calciatore dell’Atalanta. Gallo andò via in estate, Giampaolo resistette cinque partite di campionato e due di Coppa Italia. Poi rassegnò le dimissioni e se ne andò. I giocatori non lo videro arrivare all’allenamento il giorno dopo, né quello dopo ancora. Lo cercò persino Chi l’ha visto. Ma lui aveva passato quei pochi giorni tra Brescia e Giulianova. Più tardi, in un’intervista a la Repubblica, avrebbe raccontato di quel primo incontro con i tifosi, di quell’ultrà che gli aveva detto che loro Gallo non lo volevano, di quell’altro che l’aveva criticato, a priori, per il suo calcio. Lui aveva risposto chiaramente: «Con te non parlo perché sei prevenuto» e «Vai da Corioni a dirgli di esonerarmi».

Quello che avvenne dopo fu qualcosa di molto simile. Era il settembre del 2013. Giampaolo restò fermo tutta la stagione, poi, un anno dopo, fu chiamato dalla Cremonese per sostituire Mario Montorfano. Arrivò ottavo, in Lega Pro, non proprio il genere di risultato che ti fa accendere le luci attorno. Ma l’Empoli, quando si è trattato di sostituire Sarri, si è comunque ricordato di lui. E lui ha fatto qualcosa che non aveva mai fatto prima: firmare un contratto di un anno perché «la riconferma me la devo guadagnare», stracciando un biennale con opzione per il terzo a Cremona, dopo aver rifiutato l’Ascoli nel 2014 perché due erano troppo pochi per portare avanti un progetto.

EMPOLI, ITALY - AUGUST 23: Marco Giampaolo head coach of Empoli FC looks on during the Serie A match between Empoli FC and AC Chievo Verona at Stadio Carlo Castellani on August 23, 2015 in Empoli, Italy. (Photo by Gabriele Maltinti/Getty Images)
Marco Giampaolo prima di un match di Serie A tra Empoli e Chievo Verona (Gabriele Maltinti/Getty Images)

Ha provato a cambiare cullando l’idea di un 3-5-2 che sarebbe stato un unicum in più di 10 anni di difese a quattro, poi ci ha rinunciato. Non per il suo amato 4-4-2, ma nel nome del 4-3-1-2 e di Riccardo Saponara, esattamente quel talento individuale che spesso, troppo spesso, aveva ritenuto più un fastidio che una risorsa. Ha rinunciato al cambiamento radicale per diventare un po’ più conservatore, a un’opera tutta sua per preservare il lavoro di quel Maurizio Sarri che «è un caro amico», un compagno di corso a Coverciano, uno che ha la sua stessa estrazione sociale, politica e calcistica. «Non siamo stati importanti e ci accomuna anche il fatto di studiare, guardare, aggiornarci».

«L’allenatore è il mezzo, l’idea della costruzione ce l’ha il club. Qui, a Empoli, l’edificio già c’era», ha raccontato a La Gazzetta dello Sport nel novembre scorso. E anche se il calciomercato gli ha tolto pilastri come Hysaj, Rugani, Vecino e Valdifiori, ha dimostrato di poter restare in piedi senza nemmeno una crepa. E allora perché buttarlo giù quando si può alzare di un piano alla volta, senza demolizioni e ricostruzioni traumatiche? Giampaolo è cambiato, è tornato dall’ergastolo. Ora è tempo di levarsi di dosso la condizionale.

 

Nell’immagine in evidenza, Giampaolo festeggiato dai suoi giocatori il 1 maggio dopo la vittoria contro il Bologna (Gabriele Maltinti/Getty Images)