Il paziente inglese

Il Liverpool non ha un'identità, una continuità e un progetto da anni: spende male, vince poco. Un viaggio nei problemi di Anfield.

Notti magiche, pomeriggi da leoni, poi arriva inesorabile la routine della settimana e Liverpool si riscopre poco alla volta sempre più piccolo, stagione dopo stagione, e così i giorni diventano anni, gli anni decenni, e alla fine si supera il quarto di secolo in attesa dell’ultima vittoria in campionato. Il giorno dell’ufficialità era il 28 aprile 1990, quando la Premier League non esisteva ancora. Nessuno può discutere fascino e mito dei Reds, nemmeno dopo 26 anni di digiuno da titolo nazionale, tuttavia dall’inizio del nuovo millennio questo mito è stato alimentato esclusivamente da imprese di coppa, siano esse finali come quella di Istanbul, triplette sfociate in cinquine (FA Cup-Coppa di lega-Coppa Uefa-Charity Shield-Supercoppa europea) come nell’annata magica del 2001, oppure la FA Cup 2006 sfilata al West Ham quasi negli spogliatoi. Ma anche singoli match al cardiopalma, vedi le rimonte contro Olimpiakos (Champions League 2004/05, passaggio del turno garantito da Mellor e Gerrard negli ultimi 9 minuti) e Borussia Dortmund (Europa League 2015/16, da 1-3 a 4-3 in 25 minuti). Momenti di gloria, appunto, ma anche doping che ha alterato la percezione del quadro globale, mascherando il trend di un lento ma inarrestabile declino caratterizzato da una grandezza destinata a rimanere tale solo negli almanacchi.

Una delle finali più belle della storia della Coppa Uefa: il 5-4 con cui il Liverpool ha battuto l’Alavés nel 2001, al Westfalenstadion di Dortmund (l’Alavés aveva precedentemente eliminato l’Inter)

Mercoledì scorso a Basilea c’era una nuova iniezione pronta per il popolo di Anfield, ma lo stregone sedeva sulla panchina opposta e ai Reds di Klopp non è rimasto altro che la polvere di un ottavo posto in campionato, due posizioni più in basso rispetto alla passata stagione – considerata un mezzo disastro – e con due punti in meno. Ci fosse stato Brendan Rodgers al posto del magnetico tecnico di Stoccarda, avrebbe ricevuto il benservito. Carisma e attenuanti giocano però a favore di Klopp: non ha costruito lui la squadra, è subentrato a stagione in corso in un ambiente depresso, ha impresso una svolta – quantomeno a livello attitudinale – rispetto al moscio e depresso Liverpool dell’ultimo scorcio dell’era Rodgers. Il tedesco ha cambiato la prospettiva, dando l’impressione di gettare le basi per una squadra da piazzamento stabile in Champions League. Quanto basta per incassare la fiducia dei tifosi e continuare la luna di miele con Liverpool.

La prossima stagione il confine tra illusione e realtà sarà molto più definito. Per ora, i numeri – al netto delle coppe – descrivono un contesto che solo con molta fantasia può essere definito da grande squadra: dal 2001 a oggi, il Liverpool è finito sul podio della Premier League in sole sei occasioni (tre secondi posti, altrettanti terzi), e una sola volta negli ultimi setti anni, nei quali si è piazzato due volte sesto, due volte settimo e due volte ottavo. In materia di Liverpool, difficile trovare una penna più autorevole di Paul Tomkins, scrittore (nove i suoi libri dedicati ai Reds), giornalista e blogger. All’indomani della Premier 2013/14 scivolata assieme a capitan Gerrard nel famigerato match contro il Chelsea – definito da Tomkins «un’incidente di percorso» (la lotta per il titolo, non la scivolata) – il curatore del sito tomkinstime.com spiegava come, mentre una decina di anni prima era convinto che il Liverpool non avrebbe mai potuto vincere la Premier con l’allenatore X ma ci sarebbe riuscito con l’allenatore Y, in tempi recenti è giunto alla conclusione che non esiste allenatore in grado di far vincere il titolo alla sua squadra, e ovviamente non si tratta di un problema legato alla mancanza di validi tecnici in circolazione.

Una cosa molto crudele: Steven Gerrard e il suo discorso emozionale, prima, e Steven Gerrard che scivola contro il Chelsea regalando il pallone a Demba Ba, poi

Quando nacque la Premier League, il Liverpool era il club più ricco. Nel decennio successivo, tuttavia, il club non ha saputo restare al passo con i tempi, mancando quel processo di modernizzazione e adattamento ai nuovi standard – economici e di sfruttamento del business in primis – richiesto da un torneo proiettato verso un’orbita globale. La gestione del presidente David Moores appariva quantomeno naïf se confrontata con quelle di Manchester United e Arsenal, le due potenze dell’epoca, capaci di convertire la propria superiorità in campo in una eguale leadership a livello economico e gestionale. Perso il primo treno, e faticosamente completata la fase di transizione nel nuovo millennio grazie al tecnico francese Gerard Houllier, il Liverpool ha perso ulteriore terreno quando la Premier, dopo l’arrivo di Abramovich al Chelsea, da locomotiva si è trasformata in un alta velocità. Nell’era dei magnati e degli oligarchi, i Reds hanno pescato dal mazzo la carta sbagliata finendo nelle mani della coppia di speculatori americani George Gillet e Tom Hicks (il biglietto da visita del secondo era un fallimento da un miliardo di dollari alle spalle) che ha portato il club sull’orlo della catastrofe finanziaria. L’idea di finanziare il mercato della squadra utilizzando i proventi derivati dalla vendita dei diritti di denominazione e sponsorizzazione su Anfield la dice lunga sul tasso di cialtroneria dei soggetti in questione, perfetta descrizione di quanto disse Oscar Wilde riguardo al cinico che «conosce il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna». Sulle loro imprese ci vorrebbe un articolo a parte, in questa sede è sufficiente ricordare come il Liverpool dovette attendere il 6 ottobre 2010 per trovarsi le spalle coperte da un milionario degno di questo nome, ovvero Tom Werner del Fenway Sports Group (FSG). Ma intanto Chelsea, Manchester United e i nuovi ricchi del Manchester City erano avanti anni luce.

È stato pagato molto, ma Roberto Firmino è stato uno dei migliori giocatori della stagione del Liverpool. Qui in azione nella semifinale contro il Villarreal

Nella Money League vince chi spende, tanto e (ovviamente) bene. Una teoria che quest’anno il Leicester City ha messo in crisi, ma si tratta della classica eccezione che conferma la regola, dal momento che le Foxes sono il primo caso in oltre dieci anni di squadra campione d’Inghilterra non appartenente al cerchio magico dei big spenders. Un club esclusivo dal quale il Liverpool è escluso da almeno dieci anni. Può sembrare un forzatura per un club che ha speso 46 milioni di euro per Benteke, 41 per Carroll e Firmino, 31 per Lallana e 25 per Markovic, ma da un lato le cifre che girano in Premier League sono drogate dagli elevatissimi introiti dei diritti tv, dall’altro la forza di spesa delle vere big – quelle che si giocano il titolo – rimane sensibilmente più alta. Esiste un accurato lavoro statistico del citato Tomkins che spiega meglio questa teoria. Tomkins non si è limitato a confrontare il costo complessivo delle rose dei grandi club inglesi dalla nascita della Premier League a oggi, ma ha creato un coefficiente – chiamato £XI – che calcola, per ogni stagione, il costo medio complessivo (aggiornato con l’inflazione) dell’undici titolare schierato dalle squadre nelle 38 partite del campionato. Il risultato è che, dall’inizio dell’era-Abramovich (2003), il coefficiente £XI del Chelsea si è attestato su valori che oscillavano tra i 250 e i 400 milioni di sterline, il Manchester United tra i 220 e i 280, il Manchester City (dall’arrivo dello sceicco Mansour) tra i 200  ai 260. In questa graduatoria, il Liverpool (come del resto l’Arsenal, altra squadra a digiuno di Premier da parecchi anni) non ha mai superato i 180 milioni, attestandosi su una media attorno ai 140. La conclusione, Leicester City a parte, è che negli ultimi dieci anni il titolo è stato vinto solo da squadre con un coefficiente £XI superiore a 210 milioni di sterline (quello del Liverpool stagione 2013/14 era di 138.9, ovvero 95 milioni in meno del Manchester City di Pellegrini campione in volata), nonché costate globalmente almeno 397 milioni di sterline (100 in più del costo medio di quella dei Reds).

Nuovi acquisti dell'estate 2011: Andy Carroll e Luís Suárez con Kenny Dalgish (Alex Livesey/Getty Images)
Nuovi acquisti dell’estate 2011: Andy Carroll e Luís Suárez con Kenny Dalgish (Alex Livesey/Getty Images)

Simili numeri sono utile per introdurre il secondo punto chiave del declino del Liverpool, ovvero la scarsa efficacia sul mercato, specialmente nella costruzione di una classe media attorno capace di porre la basi di grande squadra. Dal 1990 a oggi il Liverpool ha speso circa 770 milioni di sterline sul mercato per l’acquisto di 190 giocatori. Grandi acquisti come Suárez, Torres, McAllister (il cervello dietro alla magica annata 2000/01), Hyypia, Mascherano, Xabi Alonso, Coutinho, Hamann e Reina, alternati a flop quali Carroll, Aquilani, Morientes, Cheyrou, Biscan, Diao (poi preso in giro da Gerrard nella sua autobiografia), El Hadji-Diouf, Downing, Balotelli. Soprattutto, tanti giocatori pagati in maniera spropositata rispetto all’apporto fornito alla squadra. Rileggendo le cronache e le analisi dell’epoca, i tre secondi posti del Liverpool – 2001/02, 2008/09, 2013/14 – sono riconducibili alla stessa critica di fondo: l’eccessivo squilibrio tra undici titolare e panchina. Gli inglesi parlano di «lack of squad depth». Una mancanza di valide opzioni di riserva che ha avuto come conseguenza una squadra arrivata in primavera allo stremo delle proprie forze. Nel 2014 alle spalle del quartetto offensivo Sturridge-Gerrard-Suarez-Sterling c’era il vuoto. Nel 2009, in quella che è seriamente candidata al titolo di miglior squadra a non aver mai vinto la Premier League, le alternative all’undici titolare Reina-Carragher-Agger-Hyypia-Fabio Aurelio-Xabi Alonso-Mascherano-Kuijt-Gerrard-Benayoun-Torres erano decenti solo dietro (Skrtel, Arbeloa), ma dalla mediana in avanti si chiamavano Leiva (ancora molto acerbo), Babel, N’Gog e El Zhar. Il Manchester United campione, per rendere l’idea, aveva in panchina Berbatov. Nel 2001 invece, i limiti erano evidenti già nell’undici titolare: Westerveld-Babbel-Hyypia-Henchoz-Carragher-McAllister-Hamann-Gerrard-Murphy-Heskey-Owen. Non è un caso che i tre secondi posti citati siano stati seguiti da stagione rovinose, quasi come se ci fosse un dazio da pagare al surplus di energie fisiche e nervose messe in campo per inseguire un’impresa che andava oltre i propri limiti. Dopo la piazza d’onore, Houllier sarebbe durato solo un altro paio di anni, Benítez appena dodici mesi (ma nel suo caso va considerata anche la logorante guerra intestina mossagli da Hicks e Gillet, che avrebbero voluto sostituirlo con Jürgen Klinsmann già all’indomani della Champions persa contro il Milan ad Atene), Rodgers poco di più.

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Micheal Owen, a Liverpool dal 1996 al 2004, esulta dopo un gol al Newcastle nel 2001 (Micheal Steele/Getty Images)

I cicli di una squadra sono determinati anche dagli allenatori: è stato così per il Manchester United di Ferguson, l’Arsenal di Wenger, il Chelsea di Mourinho. Nel caso del Liverpool, l’allenatore che ha fatto meglio di tutti nell’ultimo ventennio è stato proprio Benítez, specialista di coppe per eccellenza, ma con un unico campionato vinto in carriera – agli inizi nel Valencia. Lo spagnolo – quattro volte consecutivamente ai quarti di Champions, una rarità per i Reds post Premier League – è il simbolo perfetto di una squadra capace di disputare grandi partite, inanellare serie positive di spessore (vedi le 11 vittorie consecutive nella miglior stagione dell’era Rodgers), eppure fallire sistematicamente la salita dell’ultimo gradino. I limiti strutturali analizzati in precedenza, uniti a un ambiente che, in virtù del blasone passato, si carica di aspettative ai limiti della fantascienza (i tifosi di Everton o Tottenham pretendono forse il titolo dalle loro squadre?), ha agito a più riprese da detonatore, provocando crolli e ricostruzioni in serie. È stato così per Houllier, chiamato a transitare la squadra nel nuovo millennio; per Benítez, nel tentativo (al 90% riuscito) di irrobustire qualitativamente un gruppo dall’età media piuttosto avanzata e che aveva dato tutto, e forse anche di più; infine per Rodgers, alle prese con le macerie lasciate dall’era Dalglish (il cui unico punto a favore è stato l’acquisto di Suárez) e le scorie ereditate dalla gestione Gillet-Hicks. Ripartire ogni volta rende il lavoro più difficile, e con Klopp lo scenario non sembra essere molto diverso, anche alla luce della parole della FSG, che dopo la finale di Europa League ha espresso il proprio stupore per il mediocre livello generale della squadra (con evidente sottinteso relativo ai soldi spesi). Le possibilità di Klopp di vincere il titolo sono pertanto simili a quelle che l’estate scorsa aveva Ranieri con il Leicester City. Ci vorrebbe un’impresa.

 

Nell’immagine in evidenza, momenti di sconforto dopo la finale contro il Siviglia (Julian Finney/Getty Images)