Il secondo tempo è agli albori quando dagli spalti traboccanti iniziano a risuonare i fischi. L’equilibrio della partita è instabile. Gli animi elettrici. Uno in particolare: l’uomo in casacca numero cinque ciondola irrequieto per il campo. Provoca l’arbitro, lo apostrofa a muso duro. Una prima ammonizione non lo placa. Sbraccia, protesta, flirta con il doppio giallo. Il telecronista, con un accento di rimprovero, prende nota del «terzo cartellino in quattro partite».
Quel numero cinque risponde al nome di Friedrich Nietzsche, litigioso attaccante in un celebre sketch dei Monty Python, nonché mito filosofico del piantagrane più odiato del calcio britannico: Joey Barton. Il bad boy di Huyton, che ha firmato con i Rangers dopo la promozione conquistata col Burnley, da tempo non perde occasione per professare il proprio amore nei confronti del pensatore tedesco.
In principio furono gli aforismi, scopiazzati e twittati qua e là. Poi fece sapere di essersi dato alla lettura delle sue opere. Infine, a settembre 2013, di essersi iscritto alla facoltà di Filosofia della Roehampton University, come folgorato dall’indisciplina strisciante che lambisce le opere di Nietzsche. E che i Monty Python velatamente irridono nel “Philosophers’ football match” tra Germania e Grecia.
«Gli istinti che non scarichiamo all’esterno si rivolgono dentro di noi», predica il teorico del super-uomo. Il suo pensiero è attraversato dall’elogio dionisiaco del furore e dell’eccesso. Di quell’impulso primordiale che – scrive Nietzsche – deve stringersi in un armonico abbraccio con la ratio, ma in Barton imperversa senza freni. Degenera. E mostra il suo volto oscuro, per la prima volta su un rettangolo di gioco, nel luglio del 2004.
Il Manchester City è ospite del Doncaster per un’amichevole che tale è per tutti fuorché per il giovane Joey. Il centrocampista, fresco a ventidue anni del premio dei tifosi “Young player of the year”, scatena una rissa con altri nove giocatori, trasformandosi per il resto del match nel bersaglio mobile di una spietata caccia all’uomo. «Ha preso alcune brutte botte», dirà a fine partita il coach dei Citizens Kevin Keegan, «ma mi auguro che gli serva da lezione». Speranza mal riposta.
Contro Bradley Johnson del Norwich prima di essere espulso. È il 2012, a Loftus Road (Scott Heavey/Getty Images)
Barton impara velocemente a farsi odiare da giocatori e tifosi avversari, stampa e compagni di squadra. A dicembre dello stesso anno, durante la festa di Natale del Manchester City, spegne un sigaro nell’occhio di Jamie Tandy, ragazzo delle giovanili che incautamente aveva simulato di bruciargli la maglietta con un accendino. L’estate successiva, la squadra è in ritiro a Bangkok e Barton prima aggredisce un supporter quindicenne dell’Everton, reo di averlo provocato, poi bissa con il compagno (e capitano) Richard Dunne. Lacrime, urla, pugni contro il muro. «Why is this happening, Joey? Why?». La risposta pare scontata: il club obbliga Barton a sottoporsi a una terapia per la gestione della rabbia. I benefici, però, durano il tempo di qualche dichiarazione troppo ottimistica: «Trovo in lui una maturità che l’anno scorso non c’era», azzarda Stuart Pearce, nel frattempo subentrato a Keegan. «Lo vedo sempre meglio». Passano cinque mesi e Barton ci ricasca: a un fallo in allenamento di Ousmane Dabo, reagisce “a modo suo” e l’ex Inter e Lazio finisce d’urgenza in ospedale con un distacco parziale della retina. È l’ultimo atto dell’avventura di Barton a Manchester, in archivio con sedici gol e quarantatré cartellini in 145 presenze.
Da allora cambiano i club ma la storia si ripete, in un eterno ritorno che possiamo, oggi, chiamare “nietzscheano”. «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo», recita il demone ne La gaia scienza. «L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere». Così le vite calcistiche di Barton si susseguono tra loro, scene diverse ma uguali di un inesauribile déjà vu: Newcastle, Queens Park Rangers, Marsiglia e ancora Queens Park Rangers.
Ovunque vada, più che per le sue riconosciute qualità di centrocampista box-to-box, fa parlare di sé per il gioco costantemente borderline e i raptus che ne macchiano carriera e reputazione. Una brutta entrata su Dickinson Etuhu, nel corso del Tine-Wear derby, porta il News of The World a titolare «Ban Him», banditelo. L’Inghilterra che va in estasi per il calcio fisico non perdona quello scorretto, e Barton, troppo spesso, calpesta quel confine. La sua esperienza a Newcastle è segnata anche da settantasette giorni di carcere per aggressione e una sospensione dalla prima squadra. Poi le liti con il manager Alan Shearer e gli infortuni. Il record di assist (nove nel 2010/11, massimo storico per un Magpie in Premier) e il solito carico di cartellini. Fino al pugno con cui, a gioco fermo, colpisce l’attaccante dei Blackburn Rovers, Morten Gamst Pedersen.
«È qualcosa che porto dentro di me», dirà Barton ventiquattr’ore dopo, «un istinto naturale che mi fa scattare e combattere». O, per usare le parole di Nietzsche, «un verme a cui si è tagliata la testa e che tuttavia continua a muoversi nella stessa direzione». Quel “verme” dà il peggio di sé nel maggio del 2012, quando con la maglia Queens Park Rangers incrocia, da ex, il Manchester City. Non è una partita qualunque per lui, né tanto meno per la sua squadra che all’ultima di campionato si gioca la permanenza in Premier League. Il contributo di Barton è ferale: sul punteggio di 1-1, prima sferra una gomitata a Carlos Tévez, quindi colpisce alle spalle Sergio Agüero, infine cerca di rifilare una testata a Vincent Kompany. Joey viene espulso. Il Qpr sconfitto, ma si salva grazie al passo falso del Bolton.
Febbraio 2015: espulso contro lo Hull City (Matthew Lewis/Getty Images)
Aggressività, istinto violento fuori controllo, ma anche un ostentato rifiuto delle regole etiche, della morale comune descritta ne L’anticristo come «tendenza ostile», che mira a «sopraffare gli individui più forti di vita» e «tratta le eccezioni come delinquenti». La ribellione di Nietzsche è creazione di un nuovo sistema di valori, soggettivo e “superiore”. Quella di Barton si esaurisce in uno stupro fine a se stesso del politically correct: gesti plateali che rasentano l’osceno (il fondoschiena esibito prima ai tifosi dell’Everton e poi a quelli del Blackburn), sfottò al limite dell’insulto (a Thiago Silva, Fernando Torres, Neymar), dichiarazioni sopra le righe che esasperano l’isolamento.
A fine 2006, in odore di convocazione nella Nazionale inglese, Joey riesce a inimicarsi in un sol colpo pressoché tutti i senatori – Steven Gerrard, Frank Lampard, Ashley Cole, Rio Ferdinand – ironizzando sulle loro fatiche letterarie all’indomani del rovinoso mondiale tedesco: «Ho giocato da schifo, comprate il mio libro». Quando la prima (e ultima) convocazione arriva, Barton non viene esattamente accolto a braccia aperte. L’unico a tendergli la mano è il capitano dei Reds: «Joey durante le interviste ama dire quello che pensa. È un amico, siamo cresciuti nella stessa zona di Liverpool». Che di nome fa Huyton, appassita, fatiscente, annerita dal respiro un tempo frenetico delle fabbriche. Lì, tra sgambate nel fango e famiglie allo sbando, Barton viene tirato su dalla nonna paterna. Guarda partire la madre, che scappa. Guarda partire lo zio, che muore assassinato. Ma Huyton non si scompone. Lì la violenza è di casa, non accetta sfratti. E striscia nel buio dell’indifferenza fino a quando, nel 2005, non viene portata a forza sotto i riflettori della cronaca: un ragazzo nero di diciott’anni, Anthony Walker, ucciso con un colpo di piccozza alla testa. Il movente razziale è benzina sul fuoco. Il nome di un ricercato fa un insolito rumore: Michael Barton. In fuga ad Amsterdam chiama il fratello, ha bisogno di soldi, Joey va in tivù e lo invita a consegnarsi alla polizia: fine pena 2023.
La stagione appena conclusa racconta però qualcosa di nuovo per Joey Barton, che elevare a cambiamento è audace e prematuro, ma dell’eccezione ha gli accattivanti lineamenti. Nei numeri, innanzitutto, perché lo zero alla voce espulsioni non si vedeva dal 2010, l’anno del pugno a Pedersen sfuggito all’arbitro ma non al giudice sportivo. E ancor di più nell’atteggiamento, duro, ruvido, ma non violento. Perno basso del 4-4-2, Barton s’è rivelato pedina fondamentale nel Burnley di Sean Dyche, vincitore della seconda divisione inglese con novantatré punti: trentotto partite, tre gol e altrettanti assist, l’agonismo dirompente sotto controllo.
«Posso ancora sentire il lupo dentro di me», ha detto. «Forse non se ne andrà mai, ma ora riesco a comunicare con quella parte del mio carattere, ad accettarla e dominarla. Ho una forza interiore mai avuta in precedenza, grazie agli amici, alla famiglia. E alla filosofia». Per la prima volta a trentatré anni, Barton ha sperimentato gli elogi dei compagni («È un ragazzo eccezionale e un leader», ha detto Michael Keane), il riconoscimento degli avversari (che lo hanno inserito nel loro undici ideale), i rimpianti degli ex tifosi (che twittano invidia per «la versione nuova e matura» di Joey capitata ad altri). I loro rimpianti sono anche i suoi, di un giocatore che si è escluso da solo, demiurgo e vittima dei propri demoni.
Il (fu?) cattivo ragazzo oggi sventola il pentimento, e non importa se il suo nuovo padrino filosofico lo riduceva a sintomo di “viltà”. Barton s’affanna nel tentativo di sciogliere la macchia che si trascina addosso. Meticolosamente gratta via quel che riesce. Mette in fila interviste: in rete, su carta, nell’etere. Visite guidate nei vicoli della sua mente.