I fantasmi che sorvegliano San Siro

Cosa si muove nello stadio quando il pubblico non è dentro? "San Siro" di Yuri Ancarani è un premiato documentario che lo indaga con l'arte.

Il 28 maggio 2016 San Siro è stato la cornice della finale della Champions League. La quarta volta nella sua quasi centenaria storia, a quindici anni esatti dall’ultima che incoronò il Bayern Monaco campione continentale contro il Valencia. San Siro per l’occasione è stato tirato a lucido con alcuni interventi straordinari di ammodernamento interni (nuovi panchine, bagni, ingresso in campo delle squadre) ed esterni (nuova segnaletica, costruzione del Villaggio Champions e abbattimento delle barriere architettoniche delle linee tram). Ma la cura a cui viene sottoposto il più grande stadio d’Italia è minuziosa e quotidiana, come quella  riservata ad un bonsai o a un pezzo d’antiquariato. Così interessante e meticolosa da essere diventata il soggetto di un film, scritto e diretto da Yuri Ancarani.

Quando lo incontro, la prima cosa che confessa, con una punta d’orgoglio, è la sua totale indifferenza allo sport. E l’inadeguatezza nelle dispute calcistiche al bar. Bel presupposto, penso, per un artista che ha deciso di raccontare in immagini e suoni la vita dei circa mille addetti che animano San Siro durante la settimana e nelle ore che precedono le partite di Milan ed Inter. Ma subito dopo, forse immaginando la mia prima domanda, si lancia in un citazione che riequilibra il rapporto con il pallone: «Vittorio Fagone, il mio insegnante di Storia dell’arte (e critico d’arte ndr) un giorno a lezione ci disse che nel suo tocco di palla Maradona era un artista». Questo è il filo che lega, nel lavoro di Ancarani, calcio, vita ed arte con l’intento di capire perché ogni settimana decine di migliaia di persone si spostano in massa in questa «cattedrale pagana per venerare le proprie divinità».

I protagonisti silenziosi di San Siro sono tecnici, cablatori, impiegati delle pulizie, stewards, parcheggiatori, giardinieri. Professionisti alle prese con centinaia di cavi da sistemare, decine di bagni da controllare, ciuffi d’erba da accudire, seggiolini da pulire. «Ci vuole stile anche nello spostare centinaia di transenne. E il risultato è un concerto di metallo e cemento. Così come l’ordine e la precisione con cui vengono tirati chilometri di cavi delle cablature delle telecamere: a me servono tre persone per spostare una tv con il decoder», mi dice Ancarani quando gli chiedo qual è stato l’aspetto che l’ha stupito di più. L’idea del progetto San Siro nasce su una commissione culturale di Sky e Careof ed era inizialmente incentrato sull’approfondimento delle dinamiche delle unità cine-mobili televisive ma presto il regista ravennate rimane affascinato dalle sagome che si aggirano nelle vicinanze dello stadio: «quando a ogni mia richiesta di approfondimento mi veniva risposto che non mi era dato sapere nulla, ho capito che il dietro le quinte poteva essere una tematica interessante e ho iniziato la mia battaglia personale». E durante la produzione del film, durata un intero campionato, Ancarani è riuscito ad abbattere tutti i no che si era sentito pronunciare.

Stile si diceva, ma anche poesia. Lavorare a e per San Siro è anche poesia. Uno dei protagonisti spiati (e zoomati) dalle tribune è un giardiniere impegnato a ripassare con la vernice fresca i dischetti dei calci di rigore: «All’improvviso lo vedo appoggiare gli arnesi, piegarsi a terra e compiere un’azione che dall’alto della tribuna non percepisco. Allora corro come un disperato giù dalle tribune alla ricerca del giardiniere e quando lo incontro mi dice d’aver rifilato con le forbici un ciuffetto di erba che lo infastidiva da tempo». La cura, l’attenzione maniacale per i dettagli, la diligenza dell’atto sono pilastri del San Siro b-side: «Una cosa che non ho ripreso ma che mi ha incantato è stato lo srotolamento, ad agosto nel precampionato, delle zolle erbose come fossero un tappeto pregiato. Come se quella dovesse essere l’unica cosa verde in tutta la grigia Milano». L’unicità che si deve ad un luogo devoto e di venerazione.

E poi l’eccezionalità del quotidiano. Il regista durante i mesi di ripresa viene visto con interdetta indifferenza dai “suoi” protagonisti, inconsapevoli che il loro lavoro possa risultare tanto interessante da essere catturato da una telecamera: «Gli addetti mi consideravano un tipo simpatico e non invadente, mi offrivano il caffè, ma sotto sotto mi consideravano un pazzo. Mi posizionavo con la camera a loro favore ad ogni ora del giorno e della notte e in ogni condizione atmosferica». Nel mondo del calcio tutto è, e non esiste qualcosa che non faccia parte dello spettacolo che ne deriva. La religiosità è un concetto che torna a più riprese, nella vita come nello sport, per chi si trova in campo e per chi vi assiste: «per un tifoso, soprattutto della curva, si possono provare delle emozioni grandissime che io non sento l’esigenza di provare: stare in piedi sui seggiolini, una sensazione di vertigine e di sospensione nel vuoto che va oltre il calcio. Ma lo stadio con la sua struttura imponente è un bunker, non è un teatro». Gli stadi oggi sono dei luoghi dove il controllo e la sicurezza sono portati a livelli estremi, spazi aperti che sembrano sempre di più prigioni di condivisione e molte delle scene che seguono l’ingresso dei tifosi nell’arena lo confermano.

I 26 minuti del corto si chiudono sugli unici inquilini di San Siro mancati finora all’appello: i calciatori («i miei gladiatori» dice Ancarani). Attorniati dal silenzio, la camera ci proietta nel pullman del Milan che, scortato dalle moto della polizia, si avvicina a San Siro. Metro dopo metro i volti tesi di Kaká, Muntari, Abate, Zapata sono fissi oltre i finestrini, concentrati sulle note sparate dalle cuffie. «Sono riuscito a entrare nel pullman grazie all’aiuto del club che ha capito il mio progetto, in particolare Galliani e Seedorf si sono dimostrati molto disponibili durante le riprese. Sono entrato nel pullman pulito, senza ansia mitologica, per cogliere l’aspetto umano di quei minuti in cui gli atleti, alcuni anche molto giovani, si trovano a riflettere sulle sorti personali e sportive dei 90 minuti che si apprestano a giocare» mi spiega Ancarani che poi aggiunge, in un momento più informale, di essere stato il primo regista in Europa a riuscire ad entrare in un pullman nel pre partita.

Il pullman imbocca finalmente il garage di San Siro, entra in una stanza-purgatorio e viene isolato da una lunga e pensante cancellata. A pochi metri l’ingresso agli spogliatoi. I giocatori scendono uno dopo l’altro e si dirigono nella pancia di San Siro, chi salutando i primi tifosi chi con gli occhi sui propri passi: l’ultimo a scendere è un calciatore di colore, con i capelli rasati ai lati e una piccola cresta, le maniche della camicia tirate su oltre i gomiti, andamento ciondolante. Le sue spalle tra poco dovranno indossare la maglia numero 45. La cattedrale, tirata a lucido per lui, è pronta per accoglierlo. Che il secondo spettacolo abbia inizio.

La video installazione San Siro è stata finalista dell’edizione 2014 del Premio MAXXI; ha partecipato al Festival du Cinéma du Réel di Parigi (Centre Pompidou), a New Directors/New Film 2015 di New York (MoMa), all’International Film Festival di Rotterdam, al Locarno Film Festival e al Toronto International Fil Festival.