La fine della 99ima edizione del Giro d’Italia lascia il sentore di una gara che ricorderemo a lungo. La corsa rosa che ha faticato a trovare il suo padrone, l’uomo che regolasse gli avversari in maniera perentoria e definitiva: l’ha trovato a un passo dalla fine, grazie a uno dei weekend di ciclismo più avvincenti degli ultimi anni. Cosa ricorderemo di questo Giro? La redazione di “Bidon-Ciclismo allo stato liquido” ha scelto i momenti più significativi.
Eroe multicolore: l’impresa di Vincenzo Nibali
«Sono umano e non me ne vergogno». Al termine della disastrosa cronoscalata dell’Alpe di Siusi, Vincenzo Nibali rivendicava il diritto ad appartenere a quella categoria di esseri viventi che nella vita si spendono in cose per cui nessuno gli renderà conto, che proferiscono milioni di parole che non verranno mai trascritte, che hanno volti invisibili che nessuno ricorderà. Ad Andalo, facendosi staccare anche da Firsanov, Ulissi e Jungels, lo Squalo sublimava la necessità di essere considerato parte della sua specie, per definizione fallibile. Sceso agli inferi, decideva di giocarsi la sua ultima carta, la migliore, da sempre: la Volontà. Quando le gambe ancora non rispondevano, smetteva di leggere i giornali che lo davano per finito, trasformando i titoli in potenza, le umiliazioni in energia; viveva quella catarsi che il filosofo conobbe rigettando tutto ciò che è troppo umano: critiche, carezze, incitamenti, colori delle maglie, persino l’arte, la filosofia, Wagner.
Colle dell’Agnello, discesa: Nibali forza l’andatura, Kruijswijk sbaglia una traiettoria e cade, sbattendo contro un muro di neve. Vincenzo si fa scortare da fidati compagni di viaggio: senza Kangert, senza Fuglsang, ma soprattutto senza Scarponi, il resto della storia non ci sarebbe stato. Nei momenti che contano, però, si rimane soli. Allora, salendo verso Risoul, Nibali guarda i tifosi a bordo strada e realizza che gli avrebbero voluto bene anche se avesse perso, forse anche di più. Si sente bene sopra i 2000 metri, più vicino al cielo: stacca tutti, vince la tappa, piange. Il giorno dopo, a Sant’Anna di Vinadio, va a prendersi la maglia rosa. Nibali voleva essere in tutto come noi e per qualche tempo lo è stato, ha avuto le nostre stesse paure, la nostra stessa voglia di riscatto. Poi si è ricordato di possedere le qualità di Ermes: Polyphron, capace di molti pensieri; Polytlas, capace di sopportare le più terribili sofferenze; Polymechanos, astuto nello sfruttare gli errori altrui; Poikilomètis, di molti colori. Rosso, rosa, giallo e poi di nuovo rosa. Penelope ha tessuto per Nibali la maglia che ora indossa. (Riccardo Spinelli)
Vincenzo Nibali celebra alzando il trofeo della 99a edizione del Giro d’Italia. (Luk Benies/Afp/Getty Images)
Linea spezzata: il minuscolo difetto di Steven Kruijswijk
Le personalità legate a Nuenen, Brabante settentrionale, secondo Wikipedia sono soltanto due, ed entrambe – ma questo l’enciclopedia non lo dice – hanno conosciuto un destino legato allo sfuggente concetto di linea. Linea come vocazione artistica, linea come mezzo espressivo più che descrittivo. Linee curve per Vincent Van Gogh, pittore con la tavolozza, tratti avvolgenti a comunicare una circolare e perenne chiusura in sé stesso; linee rette per Steven Kruijswijk, pittore con la bicicletta, linee rette già a partire dalle spalle, lato lungo di un triangolo con vertice una testa rossa e pensante: è soprannominato gruccia, dalle sue parti. Linee rette, trend crescente come il suo rendimento negli ultimi due anni; linee rette come la pendenza delle montagne, per spianare le quali si allena ogni inverno più intensamente; linee rette, costanti, come le sue prestazioni in un Giro d’Italia corso con regolarità e intelligenza; linee rette, tendenti all’infinito, come il suo sogno di vincerlo, quel Giro. Ma la linea perfetta del 2016 di Kruijswijk si è spezzata in un tornante scendendo dal colle dell’Agnello, laddove avrebbe dovuto essere un po’ meno Kruijswijk e un po’ più Van Gogh, incurvarsi dolcemente anziché irrigidirsi in mezzo alla neve. E invece il minuscolo difetto si è fatto inaccettabile incongruenza: gli ha squassato il corpo (costola fratturata) e pure la mente (morale azzerato). Ha perso tutto, è arrivato 4°. «So benissimo che la tela ha dei difetti ma oso affermare che I mangiatori di patate resteranno», disse Van Gogh commentando l’opera più famosa realizzata a Nuenen. Resterà anche lo splendido Giro di Steven Kruijswijk, nonostante tutto. Ne siamo certi. (Leonardo Piccione)
Little guy: il sorriso di Esteban Chaves
Svein Tuft ha 39 anni ed è ciclista professionista da quando Esteban Chaves, il suo capitano al Giro d’Italia, faceva ancora le medie a Bogotà. Tuft è soprannominato Grizzly, un po’ perché è canadese, un po’ perché ha la scorza da vecchio bucaniere. Sabato mattina, prima della tappa decisiva della corsa rosa, il suo viso pieno di solchi è stato visto come molto raramente appare: commosso. A bassa voce cercava di dire che quel giorno avrebbe tanto voluto smettere di essere passista e farsi scalatore, per stare tutto il tempo accanto a the little guy. Il grizzly avrebbe voluto trasformare i suoi 75 chili in colpo di vento, per mantenere in volo il colibrì che gli aveva sciolto il cuore col sorriso. Il sorriso di Chaves è prezioso perché non è retorica del buonumore, ma coscienza della vittoria e della sconfitta, che si sono alternate armoniosamente, fin dalle prime tappe, sul volto bambinesco del colombiano. Non è un caso che non sia mai apparso stanco, indulgente o posticcio. Dopo la tappa vinta a Corvara si era allargato in un’espressione divertita, da monello; non troppo diversa quella che avrebbe mostrato al traguardo di Sant’Anna di Vinadio, appena scalzato da Nibali. «La vita è questa», avrebbe mormorato, raggiante, alla fine del suo sogno. Chaves la maglia rosa l’ha persa dopo un solo giorno; il sorriso, quello lo conserverà per sempre. (F .Bozzi/L. Piccione)
I don’t live today: l’unicità di Alejandro Valverde
Alejandro Valverde è un errore cronologico. Noi lo vediamo correre qui, ora, sempre, da quasi quindici anni, ma lungo la scala del tempo Valverde sta altrove. Gianni Mura amava chiamare Pantani fossile o Pantadattilo perché gli ricordava una creatura antica, giunta da anni lontanissimi. Valverde no, potrebbe essere arrivato dal domani o più probabilmente sopravvissuto dall’altro ieri. Il murciano è l’ultimo antidoto al ciclismo moderno rimasto in attività, l’unico che corre, si piazza o vince dall’inizio alla fine della stagione, sempre. Lo accusano di essere passivo e attacca ogni volta che può, lo accusano di essere antipatico e corre ad abbracciare l’avversario che vince. A 36 anni ha deciso di sottolineare la sua acronicità esordendo al Giro, vincitore di tappa ad Andalo e terzo in classifica: quindicesimo di sempre a salire sui podi di tutti e tre i grandi giri, come se i raffronti storici avessero senso con chi dalla storia ne sta fuori. Non c’è nessuno nella classifica di questo Giro che corra il ciclismo di Valverde, nemmeno i più anziani o i più titolati. Non ci sarà nessuno come lui nemmeno al Tour, o alle Olimpiadi, o al Mondiale. Ci sarà sempre Valverde, però, e c’è da augurarsi che ci sia ancora per anni, perché la sua stessa presenza è garanzia che quel ciclismo in cui i battiti del cuore sono battiti del cuore, non misurazioni in watt, continui ad esistere. (Filippo Cauz)
Alejandro Valverde del team Movistar celebra sul podio dopo aver vinto la sedicesima tappa del Giro d’Italia, da Bressanone a Andalo (Luk Benies/Afp/Getty Images)
Bellezza palladiana: l’eleganza di Bob Jungels
Il passaggio di Bob Jungels in maglia rosa di fronte a Villa Barbaro, nei pressi di Maser, nel corso dell’undicesima tappa, è stato uno dei momenti più epifanici di tutto il Giro. Se la corrispondenza totale tra le proporzioni armoniche del capolavoro palladiano e l’eleganza stilistica in bicicletta del giovane lussemburghese era tutto sommato già nota, meno preventivabile era la crescita, in termini di carattere e ambizione, che colui che alcuni già indicano come erede di Wiggins avrebbe conosciuto in terra veneta. Il Bob Jungels che, con indosso la maglia rosa, si è lanciato in discesa all’inseguimento di Amador per difendere il primato e allungare sugli inseguitori, ha preceduto di pochi giorni, forse l’ha direttamente originato, il Bob Jungels che sulle Alpi ha intensamente difeso la maglia bianca di miglior giovane e il 6° posto nella generale, dando credibilità alle emblematiche risposte che aveva fornito a una sua maestra qualche annetto prima: «Bob, cosa vuoi fare da grande?»; «Voglio essere una leggenda»; «Non puoi, Bob. Non è un lavoro»;«Ok, però io voglio comunque essere una leggenda». (Leonardo Piccione)
Io sono vulcano: l’eruzione di Darwin Atapuma
Tuquerres, Colombia, 3mila metri sopra il mare. Due banditi gli fanno brillare la lama davanti agli occhi perché vogliono la sua bici: lui reagisce, loro lo feriscono a un braccio. Ventisei anni prima al malcapitato hanno dato un nome poco colombiano, che però fa selezione: Darwin. Il cognome invece è Atapuma, che sa di terracotta e spiriti, sole e divinità. Certi, poi, lo chiamano Azufral, come il vulcano vicino a Tuquerres. Il punto, però, e uno solo: quei due vogliono la bici, Azufral reagisce. Un anno e mezzo dopo per Corvara mancano 30 chilometri. È la tappa più dura, un pezzo di Dolomiti rotto dalla luce. Davanti c’è Darwin, solo, e dietro nessuno: non il gruppo, dimenticato, né i banditi, svaniti. Non c’è più neanche sua madre, scomparsa l’anno prima durante il Giro. Forse Darwin Azufral Atapuma vuole dedicarle una tappa così: solitaria, terribile, vasta. O forse no. C’è solo una cosa, certa, che resta da fare: tutto il Valparola. Alcune immagini di Corvara mostrano quanto il ciclismo sa essere crudo e indifferente, se vuole. Mentre Kruijswijk, Preidler e Chaves ringhiano per strapparsi la vittoria, sullo sfondo Atapuma si allontana, si riduce, si fa bruno e dimenticato. C’è una distanza visibile tra i primi e Darwin; una distanza che dopo la tappa il colombiano della Bmc definirà “devastante”. A Sant’Anna di Vinadio, 20ª e penultima frazione, Darwin ci riprova: va in fuga presto, attacca e scatta come può e con ogni cosa. Chiude secondo. Il punto è uno solo, e i banditi lo sapevano già: Atapuma a mollare la bici non ci pensa nemmeno. Azufral ha un nome da vulcano. Reagisce. (Eugenio D’Alessio)
Vento in faccia: Il Giro e i suoi fuggitivi
Se li mettessimo uno dietro l’altro, i grandi fuggitivi di questo Giro, basterebbero da soli a riempire due pagine. Inizierebbero con Maarten Tjallingii (splendido attaccante nelle pianure olandesi col collega Giacomo Berlato) e finirebbero con Maarten Tjallingii (commovente la sua crono-coppie con Jos Van Emden sotto la pioggia di Torino). Di mezzo ci sarebbe una storia di storie, fatta di eroi che resistono soli, a pancia a terra, con il gruppo che ne sgranocchia il destino. I fuggitivi esaltano sempre, perché perdono. E perché a volte ti stupiscono vincendo. Quando Tim Wellens approccia da solo le rampe di Roccaraso c’è la religione stessa della fuga a spingerlo fino al traguardo, dove si ferma placido ad esultare, lì dove sarebbe dovuto avvenire il primo scontro tra i big, sopravanzati invece da un giovane che respinge la fatica, sorride e alza la bici al cielo. In quel gesto ci sono dentro tutti gli altri fuggitivi del Giro: quelli che vincono (Ciccone, Brambilla, Nieve, Trentin e Taaramäe) e quelli che inevitabilmente vengono sempre ripresi (come Daniel Oss, quello che ha fatto più chilometri in fuga di tutti). Quelli che attaccano, perché è l’attacco ciò che dà consistenza a questo gioco, fatto raramente di grandi imprese ma tutti i giorni di vento in faccia. (Filippo Cauz)
Giacomo Berlato, Omar Fraile e Maarten Tjallingii in fuga durante la seconda tappa del Giro d’Italia, da Arnhem a Nijmegen (Lennon/Getty Images)
Sky dislikes Italy: il fallimento di Landa
Wiggins, Porte, Landa. È la serie di capitani del Team Sky che hanno mancato l’affermazione nella classifica generale del Giro dal 2011 ad oggi, con in mezzo la maglia bianca conquistata da Rigoberto Uran nel 2012. Che siano limiti psicofisici, come nel caso di Wiggins, oppure eventi esterni, come per Porte o Landa, il Team Sky – di fatto – non si trova mai ad essere protagonista quando il Giro entra nella sua terza settimana. Un’inadeguatezza che sorprende, visto che riguarda una squadra capace di fare della pianificazione più spinta la sua arma principale, che le ha permesso di vincere tre degli ultimi quattro Tour de France. Stavolta il fallimento è toccato al basco Mikel Landa, tradito dal suo sistema gastrointestinale e dalla sorte. Tuttavia non è solo questione di sfortuna. Andare a caccia della maglia rosa, con la sua parvenza così femminea, è un po’ come voler conquistare una donna bellissima ed esigente, che prima di concedersi ha bisogno di sentirsi corteggiata. Consiglio per gli inglesi: Ovidio, Ars amatoria. (Francesco Bozzi)
Lanzichenecchi? – La calata degli sprinter tedeschi
Era il 1527 e i lanzichenecchi, soldati mercenari di fanteria, scendevano in Italia per volere di Carlo V. Famosi per la loro brutalità e per la loro fierezza luterana, con il sacco di Roma misero di fatto fine ai fasti del Rinascimento italiano. Ecco, il 99° Giro d’Italia dei velocisti non è stato troppo diverso. Marcel Kittel nelle vesti del generale Albrecht von Wallenstein e Andrè Greipel in quelle del comandante Georg von Frundsberg, non avranno diffuso la peste, ma certo hanno saccheggiato senza ritegno prima l’Olanda, possedimento italico per tre giorni, e poi mezza penisola, lasciando a bocca asciutta i cavalli veloci del resto del mondo. Infine, in vista delle salite, hanno deciso di andarsene a preparare Mondiale e Tour de France. Prima di fuggire hanno lasciato a due connazionali – Roger Kluge, saccheggiatore a Cassano d’Adda e Nikias Arndt, premiato con una bolla papale dopo la squalifica di Nizzolo a Torino – l’incarico di proseguire la missione; a noi, il dubbio tra voglia di continuare ad ammirare la loro teutonica potenza e il legittimo desiderio di sentirci rispettati. (Riccardo Spinelli)
Italians do it better: vittorie di casa nostra
Quantità o qualità? In questo giro i corridori italiani hanno preso le parti della seconda. Doppio Ulissi, Brambilla, Ciccone, Trentin e Nibali. Dalle nervosità di Praia a Mare e Asolo allo sterrato di Poti, dalle rampe di Sestola alla volata dal sapore antico di Pinerolo, fino ad arrivare alle nevi e alle nebbie della tappa di Risoul, che ha deciso il Giro e che fa già parte della storia di questo sport. Vincitori diversi, vincitori belli. C’è la conferma della maturazione di Ulissi che si impone con due spunti à la Bettini. Poi è il turno delle prime volte di Giulio Ciccone, classe 1994 e un futuro sorridente, e di Matteo Trentin, già onorato da due tappe al Tour, ma inespresso sulle strade del Giro. Nel mezzo un’altra prima volta, quella di Gianluca Brambilla, che arriva polveroso nel selciato di Arezzo e indossa la maglia rosa con il candore di un bambino. Infine la vittoria di Vincenzo Nibali, la più attesa e memorabile. In realtà di vittoria ce ne sarebbe un’altra ancora: quella di Michele Scarponi, primo sulla Cima Coppi (il Colle Dell’Agnello), poi fermato e messo a tirare e tirare ancora. Scarponi, da vero guascone, tagliando il traguardo di Sant’Anna di Vinadio, il suo braccio l’ha alzato comunque, perché, checché ne dicano le classifiche ufficiali, anche lui ha vinto, a questo Giro. (Francesco Bozzi)