Len Bias, Supernova

Una festa, cocaina, il cuore: Len Bias, il più forte cestista a non aver mai giocato in Nba, moriva 30 anni fa. Due giorni dopo essere stato scelto da Boston.

Se Len Bias fosse vissuto mi sarei ritirato nel 1988.
(Larry Bird)

 

 

Il 16 giugno del 1986 Len Bias viene selezionato con la seconda scelta assoluta dai Boston Celtics, campioni Nba in carica. Due giorni dopo, il 18 giugno alle sei del mattino, Len va in overdose. Poche ore dopo ne viene decretata la morte.

With the second pick of the 1986 Nba Draft the Boston Celtics select: Len Bias of the University of Maryland.

Len atterra in compagnia di suo padre al National Airport di Washington D.C.; sono le dieci di sera del 17 giugno, una notte serena e stellata. Casa loro dista una mezz’ora. La strada illuminata su cui sta guidando il padre: «Come stai?», gli chiede girandosi per guardarlo in faccia. «Stanco», risponde Len, lo sguardo sulla terra che conosce e in cui è cresciuto, illuminata a intermittenza dai lampioni. «Riposati e non pensare più a niente».

Ed eccolo Len Bias! Ha avuto una grande carriera a Maryland, è un grande giocatore in transizione, ha un gran tiro, è molto atletico. Tanta gente dice che probabilmente è il giocatore più atletico di questo Draft guardando le sue abilità lungo tutto il campo.

Entrano nel loro quartiere, un classico quartiere residenziale americano, e si fermano davanti a casa loro, una classica casa da quartiere residenziale americano: cartongessata. Parcheggiano e non appena le loro ombre toccano la porta di casa una giovane donna con i capelli raccolti spalanca la porta e abbraccia il figlio.

«Come stai Frosty?», chiede.
«Bene, ma’. Solo stanco».
“I tuoi fratelli non vedono l’ora di vederti”.

La madre di Len fa un urlo e i fratelli di Len, Jay e Eric e sua sorella Michelle gli vengono incontro e lo salutano: «È grande New York?», «Com’è Boston?», «Il Madison Square Garden è grande?», «E Auerbach?», «Cos’hai visto a Boston?», «Sei andato sull’Empire State Building?”», «Hai visto le torri gemelle?».

Grande rubata di Bias che salta, si gira di 180° e schiaccia a canestro mentre il difensore lo guarda inerme.
Gancio di Bias.
Long two per Bias… and he got it.
Un altro long two per Bias.
Bias dal gomito… altri due punti per lui.
Bias dalla destra, stacca da terra e schiaccia a due mani in faccia al difensore.
Sembra sempre che si voglia portare a casa il canestro.

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Len prende la sua valigia e l’appoggia in camera da letto, si guarda intorno, inspira e riconosce l’odore di polvere di quel luogo. Poi entra in bagno e fa scorrere l’acqua. Si specchia provando a riconoscersi; la sua pelle liscia e dura, gli stessi lineamenti di suo padre, lo stesso viso che ha visto crescere nel tempo, come il suo corpo, adesso davvero forte e potente. La sua vita non sarebbe più stata la stessa, pensa. Tutto sarà diverso. Len si bagna la faccia e la testa. Si lava le ascelle e poi torna in camera sua. Apre la valigia e tira fuori una tuta blu racchiusa in una busta di cellophane, sopra la busta la scritta Reebok. Strappa la busta e si infila i pantaloni, poi apre l’armadio per cercare una maglietta. Fruga tra i cassetti e vede la casacca di quando giocava all’high school. Sfiora le cuciture della scritta “Wildcats”, poi infila il dito in un buco vicino all’ascella. Non si ricorda come se l’è fatto, il buco; forse è solo un’usura, pensa. Len ci gioca per qualche secondo, sovrappensiero, quindi prende una maglietta bianca e se la infila. Mette la felpa della tuta e raggiunge la sua famiglia.

Giocherà sicuramente… Hai mai sentito la parola “sicurezza”? Lui è praticamente una sicurezza.

«Andrei a Maryland U.».

Bias dalla linea da tre punti, riceve palla, Jordan davanti a lui, Bias si sposta in un unico movimento sulla sinistra e entra in area, Jordan al suo fianco, Bias salta, finta il tiro e mentre sta scendendo infila la palla morbida nel canestro.

Len Bias sul parquet

Nel garage adiacente alla casa c’è una Nissan 300ZX rossa, nuova di zecca. Len entra dentro la macchina, si ammorbidisce sul sedile, inala l’odore della pelle. Prova a rilassarsi, a togliersi tutte le emozioni dalla mente; tutto quello che gli serve, pensa, è stare con i suoi amici. Chiude gli occhi.

Quando segna alza le braccia e le spalle come a dire che ce la fanno tutti. Come a dire che è facile. Come a dire che lui non fa niente di speciale.

In mezz’ora è al campus. La stanza di Len si trova al Washington Hall, uno dei dormitori di Maryland University. Tutti gli amici di Len si trovano nel dormitorio della sala comune. Uno alla volta lo salutano: Jeff, Keith, David, Phil e Terry. Poi Len si siede su una poltrona bianca di stoffa e attorno a lui, su due divani rossi, tutti gli altri.

E via: «Allora Len com’è stato? Figo?»
«Ma sì, normale», risponde Len.
«Sei sempre il solito».

Risate concitate.

«No, è stato figo e tutto, però lo sapevo che mi avrebbero scelto i Celtics quindi non c’era l’ansia della sorpresa eccetera».
«E dove hai lasciato la casacca?»
«Nella valigia a casa», dice Len.
«Gli altri ragazzi come sono?»
«In che senso?», chiede Len.
«Ti sembravano dei montati?»
«Qualcuno sì, ma neanche troppo», dice Len.
«Com’è stato salire sul palco?»
«Bello. Forte», dice Len.
«E Stern com’è?»
«Cosa vuol dire com’è?», chiede Len.
«È un tipo a posto?»
«È un nano. Come vuoi che sia?», dice Len.

Risate concitate.

«Len, cosa pensi che succederà adesso?»
«Non lo so», dice Len.
«Pensi che sarà tutto uguale?»
«No, certo», dice Len.
«Cosa cambierà nella tua vita?»
«A parte il fatto che gioco in Nba, dici?», dice Len.

Risate concitate.

«Ragazzi, perché non parliamo d’altro?», dice Len.
«Tipo?»
«Quello che volete. Altro», dice Len.
«Non c’è molto qua, solita roba. Non siamo noi quelli che sono stati scelti». «È vero, Len. Dicci tutto, dai!»

Qualcuno bussa alla porta della camera.

«Devono essere i granchi. Lenny, ti abbiamo ordinato i granchi».

Uno di loro si alza per pagare l’uomo della consegne. Si siede di nuovo sul divano, apre le sporte e incomincia a passare le confezioni agli altri. Len prende il granchio e ne stacca una chela che incomincia subito a succhiare.

«Hai sentito cos’ha detto il vecchio Auerbach?»

Len scuote la testa.

«Beh, ha detto che il nostro caro amico Len Bias, i Boston Celtics lo volevano da tempo e che Larry Bird, ripeto Larry B I R D, verrà a lavorare con voi rookies l’anno prossimo». «Mi sa che ti tocca sgobbare Lenny».

Len sta lottando con una chela.

«Io ho anche sentito che Auerbach ha detto che nei loro piani partirai subito come sesto uomo. Non male, cazzo».
«Len abbiamo sentito che hai firmato un contratto con la Reebok».

Len annuisce.

«D’ora in avanti ti vestirai solo Reebook?»

Len si guarda la tuta blu.

«Non lo so, credo di sì, la roba me la danno gratis».
«E quanto ti hanno dato?»
«Cazzo, pure questo volete sapere?»

Silenzio.

Nessuno parla per un po’ di tempo, poi uno di loro gioca con il granchio facendo finta che sia ancora vivo. Lo fa parlare e con voce acuta dice: «Com’è il Madison Lenny?»
«Grande»,

Ricominciano.

«Hai visto qualcuno di famoso?»

Len scuote la testa.

«Ma chi ti fa più paura, Sampson o Barkley?»
«Cosa?»
«Chi ti fa più paura, Sampson, Barkley o chi altro?»
Len si è stancato. «Ma che cazzo ne so! Benji Wilson», dice.

Len fa canestro con il granchio nel pattume: «Devo andarmene da qui».
«Len dove vai?», chiedono invano prima che lui chiuda la porta.
«Si dovrà vedere con una», dissero.

Lob per Bias che schizza in mezzo all’area e schiaccia la palla a canestro, portandosi pure a casa il fallo. E sono trentacinque punti per lui questa sera. 

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Ha appena guidato fuori dall’area est del campus quando frena di colpo facendo saltare qualche piccolo sasso formatosi dal catrame consumato, accosta e scende dalla macchina. C’è un telefono a gettoni, Len inserisce un quarto di dollaro e compone un numero.

«Brian, sono Len», dice.

Ascolta la risposta.

«Senti, non è che puoi aiutarmi? Non ce la faccio più», dice Len.

Ascolta la riposta.

«Okay, perfetto. Grazie».

Non ho ancora un anello da campione Nba, ma sarei felice di indossarne uno presto.

Len risale in macchina e giunge a casa di uno dove c’è una festa. Gli avevano detto che c’erano molte ragazze, ma non è così. Beve una birra e una ragazza prova a parlargli, ma lui la manda via bruscamente. Scambia due parole di rito con David, un suo amico con cui fa due tiri a basket ogni tanto, ma il ragazzo è già molto ubriaco e non riesce a mettere in fila due parole sensate. La musica è talmente triste che lo innervosisce ancora di più. Saluta David e se ne esce. Il cielo è ancora stellato, c’è solo qualche nuvola grigia. Guida con la radio spenta, pensando a se stesso e non a molto altro. Arriva davanti a una piccola casa con la vernice scrostata.  Suona il clacson una volta. Guarda dalla parte opposta rispetto alla casa e vede una vecchia povera donna che spinge un carrello della spesa con tanti cartoni e parla da sola o al peluche di una tartaruga che tiene in mano. Len prova a capire cosa dice, ma proprio in quel momento un ragazzo apre la portiera della macchina. «Ciao Brian», gli dice.

È il giocatore più vicino a Michael Jordan che si è visto da molto tempo. Non sto dicendo che è forte come Michael Jordan, ma è quel tipo di giocatore: esplosivo ed eccitante.

È il 1985. Bias gioca per Maryland. Ha il numero 34

Len e Brian entrano nel salotto comune, con loro hanno due sportine. Greg e David sono gli unici rimasti, tutti gli altri se ne sono già andati. Brian si siede sul divano e tira fuori le birre dalle sporte e le passa agli altri. Len va in camera sua e torna con uno specchio; lo passa a Brian. I ragazzi aprono le birre e incominciano a berle. Brian prende dalla tasca della giacca una busta e versa un po’ di cocaina sul vetro. Con una carta plastificata la stende per tutti formando quattro strisce.

«Lenny passami una banconota», dice Brian.

Len tira fuori il portafoglio e gliene passa una da cinquanta dollari.

«D’ora in avanti ti ci pulirai il culo con queste», dice Brian. La arrotola e dà il primo tiro. Allunga il collo e urla eccitato: «E come ala grande con il numero trenta, dall’Università di Maryland… Len Bias!»

Si passano lo specchio, da Brian a Greg, da Greg a David, da David a Len e danno tutti una prima botta.

Bevono molte birre e si passano lo specchio diverse volte. Parlano del più e del meno: di quanto sia bella Sally, quella del corso di matematica I, di quanto vada forte la Nissan di Len, degli Stati Uniti d’America, del Presidente degli Stati Uniti d’America, Ronald Reagan, di quanto i suoi film a loro facciano schifo, parlano di cinema, parlano di Top Gun, di Tom Cruise, dello stile di Top Gun, parlano di Ritorno al Futuro, di quanto sia un film figo e che potendo se lo guarderebbero tutti in quel momento e di quando uscirà il sequel. Parlano della colonna sonora di Ritorno al Futuro e ascoltano Raising Hell dei Run-DMC, mettono su Raising Hell dei Run-DMC, cantano tutte le canzoni, analizzano tutte le canzoni:

Now there’s a backseat/lover
That’s always under/cover
And I talk til my daddy say
Said you ain’t seen/nuthin
Til you’re down on her/muffin
And there’s sure to be a change in ways.

Ma anche e soprattutto:

Kings from Queens from Queens come Kings
We’re raisin hell like a class when the lunchbell rings
The king will be praised, and hell will be raised

Ascoltano King Tim III della Fatback Band e Rapper’s Delight della Sugarhill Gang, parlano del futuro dell’hip hop, di dove andrà, di chi lo ascolterà, ma anche dell’R&B, e qualcosa di jazz, uno nomina Miles Davis e parlano degli afroamericani, parlano dei canti degli schiavi afroamericani nelle piantagioni, poi parlano di chi sono i grandi afroamericani della storia e uno di loro dice che comunque, a tutti quelli, se ne aggiungerà un altro: Len Bias.

È meglio che ti prepari, è arrivato il tuo momento.

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Delle uova stanno friggendo in una padella, alzano un leggero fumo. A quell’ora del mattino, poco dopo le sette, in una casa nella periferia di Washington una giovane donna sta preparando la colazione. Vicino a lei, al tavolo, a leggere le notizie sportive c’è suo marito. Il telefono suona.

«James puoi andare tu?», chiede Lonise.
«Sto leggendo un articolo che parla di Frosty», dice James.
«Dio mio. Controlla le uova, che non si brucino».
«Okay».

Lonise si dirige in salotto e alza la cornetta.

«Pronto? Chi parla?»

Ascolta la risposta.

«Cosa? Cosa stai dicendo? È uno scherzo?», la voce spezzata.

Ascolta la risposta.

«Chi è al telefono? È successo qualcosa?», chiede James dalla cucina.
«Len è stato portato all’ospedale».
«Porca puttana!»

Brian raccoglie la cocaina, la dà a David e gli dice di andarla a buttare nel water. Deve ripeterglielo urlando. Si fa dire da Greg dove sia il telefono e chiama il numero di emergenza.

«P.G. County Emergency», rispondono all’altro capo.
«Ho bisogno di un ambulanza alla stanza… che stanza?», dice Bryan.
«Undici-tre, Washington Hall», dice Greg.
«Undici-tre Washington Hall. È un emergenza, è per Len Bias, è stato appena scelto da Boston e ha bisogno di aiuto».
«Cosa stai dicendo?»
«Eh?»
«Cosa stai dicendo?»
«Ho bisogno di aiuto, Len Bias ha bisogno di aiuto».
«Non importa quale sia il nome. Qual è il problema?»
«Non sta respirando!»
«Qual è il tuo nome?»
«Brian».
«Brian cosa?»
«Tribble».
«Tribble?»
«Sì, signore. C’è Len Bias qui. Dovete riportarlo in vita. Non può morire. Seriamente. Vi prego, fate in fretta».

È un sogno nel sogno. Il mio primo sogno era quello di giocare nella Nba. Essere scelto dai campioni in carica è un extra.

Non c’è una parola per definire chi perde un figlio.

Ero seduto proprio là vicino alla panchina e li guardavo scaldarsi, Bird, McHale e tutti gli altri ed era semplicemente un sogno. Ho pensato che magari ci sarei potuto essere io là un giorno.

Giungono le sei del mattino. Il sole sta cominciando a salire. La luce entra a fatica tra le tende della sala comune. I ragazzi sono ancora lì, a parlare. Il vetro torna da Len. Lui guarda la cocaina e poi sniffa la striscia. Si sente il cuore battergli forte e veloce, preciso. Poi si calma. A Len si chiudono gli occhi, le braccia gli cadono ai lati della poltrona. Il suo corpo incomincia a tremare forte prima e a irrigidirsi poi. Gli occhi spariscono in alto e la bocca gli si spalanca. Esce della bava.

Non mi sono mai visto come una stella. Voi l’avete fatto.