Loughinisland
Sulla strada per Belfast, verso nord, ci incamminiamo su strade rurali e tortuose, un ottovolante di asfalto che costeggia colline verdi e che lascia dietro di sé piccoli villaggi, case isolate, pecore, cavalli e aste con bandiere: alcune con il rosso, il blu e il bianco dell’Union Jack, altre con il verde, il bianco e l’arancione dell’Eire. Siamo nel profondo dell’Irlanda del Nord. La strada termina in un piccolo paese chiamato Loughinisland, una città che sarebbe totalmente marginale se non fosse per il suo legame con i fatti tragici, i Troubles, che visse l’Irlanda del Nord nella seconda metà del Ventesimo secolo, scatenata dalla divisione dell’isola in due parti. Il 18 giugno del 1994, 24 persone si erano radunate nell’Heights Bar, l’unico pub di Loughinisland, pronti a festeggiare. Quella sera, la Repubblica d’Irlanda giocava al Giants Stadium, nel New Jersey (Usa), contro l’Italia, la sua prima partita dei Mondiali del 1994. I clienti abituali del pub erano iscritti della comunità cattolica e nazionalista del nord, e la loro Nazionale era quella che rappresentava il Paese del sud, quella allenata da Jack Charlton e che annoverava in squadra tanti giocatori provenienti da oltre le frontiere irlandesi, figli e nipoti di quella diaspora che per decenni ha dipinto il mondo di verde.
Uno di quegli irlandesi che arrivarono in Nazionale avvalendosi di agganci genealogici (Grandfather Rule), Ray Houghton, nato a Glasgow, segnò il gol che sancì la vittoria della Repubblica d’Irlanda contro l’Italia. «Sarebbe dovuta essere una grande notte. Ma non lo fu», ricorda Andy Loughran, giornalista del quotidiano Irish News di Belfast. Non lo fu perché i paramilitari lealisti dell’UVF (Ulster Volunteer Force) irruppero nell’Heights Bar, armati di fucili d’assalto, e uccisero a sangue freddo cinque persone che erano lì e ne ferirono altre sei, per poi fuggire «ridendo», secondo il racconto di alcuni testimoni. Quel blitz cruento fu la risposta all’omicidio di tre membri dell’UVF da parte dell’Irish National Liberation Army (INLA), un gruppo scissionista dell’IRA (Irish Republican Army). Poche settimane dopo, l’IRA avrebbe ucciso tre membri di un altro gruppo paramilitare, l’UDA (Ulster Defence Association). La violenza in Irlanda sembrava non dovesse mai finire: una tragedia seguiva l’altra, e le gioie, come quel gol di Houghton, cozzavano sempre con l’amarezza della realtà.
Belfast
Belfast (Béal Feirste in lingua irlandese) è la capitale dell’Irlanda del Nord, una città di medie dimensioni attorniata da un’area metropolitana di oltre mezzo milione di abitanti. Come specchio del Paese di cui è capitale, Belfast riflette i tic che si estendono attorno al dominio britannico della nazione. Graffiti e murales e, soprattutto, ancora una volta, le bandiere che identificano a quale comunità appartiene ogni quartiere. Oggi la convivenza è possibile. Dopo l’Accordo di Pace del Venerdì Santo del 1998, l’escalation di violenza che sembrava inarrestabile ha lasciato il posto a un periodo di calma e tranquillità che solo la crisi economica ha impedito essere completamente felice. Anche se le comunità cattoliche e protestanti — repubblicana e unionista — continuano a vivere separate, la cooperazione e la convivenza non solo sono possibili, ma già reali. La collaborazione nel governo autonomo dell’Irlanda del Nord tra gli unionisti del Democratic Unionist Party (DUP) e il Sinn Féin, braccio politico storico dell’IRA, ne è una prova evidente.
Anche nel calcio ci si è accorti della nuova situazione di pace. Il settarismo che per decenni ha preoccupato le autorità, i canti minacciosi e xenofobi e la violenta politicizzazione del pallone non infestano più Windsor Park — la casa della Nazionale dell’Irlanda del Nord e del Linfield — come negli anni dei Troubles. «Sono stati compiuti numerosi sforzi per sradicare il settarismo e le cose sono cambiate. Oggi, Windsor Park è un posto diverso, dove tutti possono andare a vedere una partita della Nazionale senza sentirsi minacciati. L’Ifa (Irish Football Association, la Federazione dell’Irlanda del Nord) sta ammodernando lo stadio: vuole che diventi un campo per tutti, non solo per una parte della comunità», dice Steven Beacom, giornalista del Belfast Telegraph. In un Paese in cui ogni cosa si scontra con il peso della politica, è impossibile non chiedersi fino a che punto il processo di pace abbia avuto a che fare con le fortune calcistiche.
«Questo è un trionfo sportivo, non politico. La spiegazione del successo dell’Irlanda del Nord è Michael O’Neill, l’allenatore. Ha un piano, e i giocatori lo seguono. Lo stesso vale per Martin O’Neill per l’Eire», dice Beacom, poche ore prima di un’amichevole dell’Irlanda del Nord contro la Slovenia in vista degli Europei. Neil Loughran, dell’Irish News, conferma la tesi di Beacom: «C’entra molto la mano del tecnico. E anche con la decisione di allargare il numero dei partecipanti all’Europeo. Soprattutto nel caso dell’Irlanda del Nord, che da 30 anni non giocava un grande torneo». Loughran non crede, però, che il problema settarismo sia completamente superato: «È una situazione non del tutto risolta, ma molto migliorata. Ricordo quando andavo allo stadio con mio padre negli anni Ottanta e Novanta. Eravamo abituati ad ascoltare cori contro i cattolici. Oggi non accade più».
Inaugurato nel 1905, Windsor Park è uno stadio grazioso ma robusto che avrà una capienza di 20.000 spettatori dopo la ristrutturazione di una delle sue curve. Un’ora prima che giochi l’Irlanda del Nord, le strade circostanti ribollono. La prima prova di come sia cambiata la tipologia del tifoso nell’ultimo decennio è il colore verde – quello di cui si vestono i giocatori – diventato dominante a scapito del rosso e del blu, i colori unionisti che nel passato monopolizzavano gli spalti. Nonostante la nuova aria di pace che si respira tutt’intorno, l’aspetto generale rievoca il vecchio calcio britannico. Pochi bambini, non molte donne, gruppi di giovani e qualche pancia oversize. L’alcol nelle strade e molti ubriachi già da parecchio. Solo un disegno su uno degli ingressi che recita «Hello, we are the Billy Boys», il testo di una violenta canzone lealista, rompe l’armonia. È l’eccezione che conferma la regola generale che invita all’ottimismo.
All’interno dello stadio l’atmosfera è tranquilla e festosa. Naturalmente, nessuna violenza, nessun coro controverso e nessun riferimento politico. Fino a quando arriva il momento degli inni. E l’Irlanda del Nord è parte del Regno Unito: God Save The Queen. «Credo che la maggior parte delle persone non voglia cambiare l’inno. È qualcosa con cui molti tifosi si identificano: rappresenta il far parte della corona britannica», dice Loughran, che riconosce però che quell’inno «non aiuta ad avvicinare i nazionalisti alla squadra».
Ci sono state alcune proposte per cambiare l’inno, come la tradizionale canzone Danny Boy, ma nemmeno per Beacom sostituire God Save The Queen sembra possibile: «In Europa non capiscono perché Scozia e Galles hanno i loro inni e noi no. Ma, come per tante altre cose in questo Paese, è la storia che decide». L’inno viene suonato senza inconvenienti. Solo il canto unionista No Surrender, intonata da uno sparuto gruppetto, rompe gli schemi. Ma pochi minuti dopo si leva potente il Qué será, será con cui i tifosi festeggiano l’avvicinamento agli Europei. La festa inizia con Conor Washington che segna il gol che decide la partita e finisce con il veterano Roy Carroll che para un rigore. Stavolta non ha segnato la stella della squadra, Kyle Lafferty, un giocatore che si è trascinato dietro una fama di ingestibile ma che, a 28 anni, arriva in Francia a un livello di maturità ottimale per guidare l’attacco della sua squadra. Dopo la partita, ci si aspetterebbe che Lafferty si comporti come un qualsiasi idolo calcistico di un Paese europeo del Ventunesimo secolo: autografi, un’auto di lusso, una certa protervia… Ma il calcio, in Irlanda del Nord, è ancora legato agli anni Ottanta.
«Avete vinto?
«Sì, 1-0».
«Hai segnato tu?»
«No, Conor. Conor Washington».
Lafferty sta parlando con il fattorino di una pizzeria d’asporto, un’ora dopo la partita. Ci sorprende vederlo lì, ancora vestito con la tuta di rappresentanza della Nazionale, mentre fuori dal locale alcuni compagni di squadra lo aspettano in auto per andare a cenare. Lo salutiamo, ci congratuliamo con lui per la vittoria e gli chiediamo cosa si aspetta dall’Europeo in Francia: «Non so bene cosa aspettarmi, davvero», risponde, un po’ imbarazzato.
Il meglio di Kyle Lafferty in azione
La storia del match winner della partita contro la Slovenia, Conor Washington, spiega molto del successo dell’Irlanda del Nord. Il tecnico Michael O’Neill ha scommesso sulla fortunata formula dei vicini del sud, la “Grandfather Rule”. «Quello che è successo negli ultimi sei mesi è stato incredibile. Però ora voglio dimostrare che ne è valsa la pena», ci dice l’attaccante del Qpr, nato in Inghilterra. Questa situazione incredibile di cui parla Washington è la convocazione per la Nazionale che rappresenta il Paese di sua nonna: fino al suo recente debutto, a marzo, non era mai stato a Belfast. Poco meno di un anno fa, non avrebbe mai immaginato di poter partecipare agli Europei.
È il modo con cui l’Irlanda del Nord si difende dal continuo travaso di giocatori dal suo Paese alla Nazionale dell’Eire. Dopo gli accordi di pace, i nordirlandesi hanno ottenuto il diritto di scegliere il passaporto. Perciò, è totalmente legale il fatto che la FAI (Football Association of Ireland, la Federazione della Repubblica d’Irlanda) convochi calciatori che in condizioni normali giocherebbero per l’IFA. Un’abitudine che logora il rapporto tra le due Federazioni. «Anche se i due tecnici non hanno un cattivo rapporto per questo, è una situazione che provoca polemiche», ammette Beacom. «Se un giocatore è cresciuto nel sistema calcistico dell’Irlanda del Nord, credo che la Repubblica d’Irlanda non dovrebbe avere mire su di lui, perché si arroga tutto il frutto di quel lavoro e degli investimenti precedenti». Kie Carew, della rivista dublinese Póg Mo Goal, la pensa in modo diverso: «Non credo che lo si possa negare ai giocatori. D’accordo, la Repubblica d’Irlanda lo ha fatto più volte negli ultimi anni, ma queste sono le regole».
Uno dei casi più noti che ha inaugurato il flusso di giocatori da nord a sud è James McClean. Nonostante la sua militanza nelle categorie minori in Irlanda del Nord, non ha esitato quando ha dovuto prendere una decisione definitiva. Nato in una delle zone più nazionaliste dell’Irlanda del Nord, Creggan, nella contea di Derry, McClean non si sentiva a suo agio nel rappresentare una squadra britannica. È famoso il suo rifiuto di esibire sul petto il papavero con cui i club di Premier League inglese omaggiavano i combattenti della Prima guerra mondiale. Fu il suo modo di protestare contro l’intervento dell’esercito britannico durante i Troubles. Un modo per manifestare contro i responsabili della Bloody Sunday, uno degli episodi più tristi, nonché più conosciuto, di quel periodo turbolento. Accadde nella città di McClean, il 30 gennaio 1972. Quel giorno, i soldati britannici aprirono il fuoco contro una manifestazione pacifica che protestava contro la violazione dei loro diritti civili. Morirono 14 persone.
James McClean volta le spalle durante l’inno inglese
Derry
«Ti piacerebbe vedere una Nazionale irlandese unita?»
«Sì, certo. Ma è difficile. Prima deve cambiare il quadro politico».
«Credi che potrà esistere un’Irlanda unita?»
«Penso di no… e, personalmente, penso sia la cosa migliore».
«No?»
«No… Qui stiamo bene. Nel sud pagano più tasse».
È la nostra conversazione con Patrick, il tassista che ci porta al campo di allenamento del Derry City, club di cui è tifoso e di cui ogni settimana parla in radio. Siamo sorpresi che questa risposta arrivi da un cattolico, per giunta tifoso di un club che nel 1985, pur esistendo all’interno dei confini del Regno Unito, abbandonò il campionato dell’Irlanda del Nord e si unì a quello dell’Eire per sfuggire alla violenza del conflitto: il calcio, sempre carico di simbolismo, era ideale per esternare sugli spalti il peggio di ogni realtà.
Patrick, un irlandese di mezza età, bassino, come scolpito in un unico pezzo, è un prodotto degli ultimi 18 anni di pace. La calma sta accentuando la separazione. Tanto che, inclusi alcuni nazionalisti, si abbracciano posizioni conservatrici. È qualcosa che emerge a maggior ragione visto che questa conservazione avviene a Derry (Doire in lingua irlandese), una città di confine tra i due Stati, forse la più rappresentativa del periodo dei Troubles con l’episodio del Bloody Sunday. «Derry è dove tutto è cominciato. La comunità nazionalista di Derry è stata completamente trascurata per decenni. Negli anni ‘60, la gente si è ribellata a questa situazione ed è scesa in strada per protestare», racconta Adrian Kerr, direttore del Museo di Free Derry, uno spazio che omaggia la memoria e che si trova nella zona di Bogside, teatro della Bloody Sunday.
A Bogside arriviamo attraversando una zona piena di verde circondata da diversi murales enormi che richiamano scene di lotta per i diritti civili. Una frase scritta in lettere nere su una parete bianca saluta l’entrata nel quartiere: “You are now entering Free Derry”. È come se nel cuore della città il conflitto continuasse a esistere. Le sue comunità vivono ancora separate, anche se non ci sono tensioni. È la vicinanza di un tempo di violenza che si annida ancora nelle scritte, nei murales, nelle bandiere. Una testimonianza che sopravvive inesorabile.
Bloody Sunday, 1972, Derry
Un’altra prova della nuova aria di calma e tolleranza reciproca che si respira a Derry è la sua squadra di calcio. Anche se disputa ancora il campionato della Repubblica irlandese, oggi è allenata da Kenny Shiels, un tecnico protestante che ha vissuto sulla propria pelle il dramma del conflitto: suo fratello, David Shiels, fu ucciso dall’IRA nel 1990 dopo essere stato scambiato con un membro di un gruppo paramilitare lealista. L’allenatore del Derry City si è sempre distinto per la sua feroce battaglia contro il settarismo sugli spalti: quando allenava il Kilmarnock in Scozia (2011-2013), difese l’allora tecnico del Celtic Glasgow, Neil Lennon, nordirlandese cattolico che aveva ricevuto diverse minacce di morte.
Shiels applaude la scomparsa della violenza negli stadi dell’Irlanda del Nord. «Non ci sono più grossi problemi. Per esempio, se si accende un bengala durante una partita scoppia un caso mediatico. In confronto a quello che accadeva prima, è una sciocchezza. Fa capire quanta strada è stata fatta da allora», dice l’allenatore, che però non vuole essere etichettato come un simbolo del processo di pace. «Io appartengo al calcio, non mi metto in mezzo a questioni politiche o religiose. Non so di quale confessione religiosa siano i miei giocatori, non mi serve né lo voglio sapere».
Fa capire in modo chiaro come il suo campo sia quello sportivo: non si nasconde nel dichiarare che un campionato irlandese unito aiuterebbe molto la crescita del calcio. «Ho sempre sostenuto una lega che accorpi tutta l’isola. Sarebbe una cosa molto positiva per il nostro calcio. Dovrebbe accadere il prima possibile». Allora perché non si fa? «L’unico motivo è il denaro», dice Beacom, a Belfast. «Ora ogni campionato porta tre squadre in Europa. Questo permette ai club migliai di euro che perderebbero in un campionato unificato». La domanda sorge spontanea. Vedremo mai una Nazionale irlandese unita, come nel rugby? «Il calcio è diverso, è lo sport della classe operaia. Nel conflitto, la classe operaia aveva un peso importante», spiega Shiels. A Dublino, la capitale del sud, il columnist dell’Irish Times Ken Early scarta l’ipotesi di vedere una Nazionale unita nel giro di poco tempo: «Nel rugby non ci sono mai state due squadre diverse. Invece l’IFA, la prima federazione di calcio, fu fondata a Belfast, e la FAI nacque come reazione. Da allora ci sono sempre state due federazioni». Una spiegazione in linea con la tesi comune: senza un cambio politico, è impossibile che si possa vedere una Nazionale irlandese unita.
Dublino
È sorprendente verificare che una delle zone più calde dell’Europa di fine Ventesimo secolo ospiti oggi uno dei confini più tranquilli del pianeta. Nessun controllo militare o di polizia, nemmeno una casa abbandonata o uno sbarramento. Nulla. Quando si attraversa la strada che unisce Derry alla Repubblica d’Irlanda, ci si rende conto di aver varcato i confini statali soltanto per il cambio del sistema metrico, per la variazione dei limiti di velocità e per l’utilizzo della lingua irlandese come complemento a ognuno dei segnali scritti in inglese. Siamo nella Repubblica. Proclamata senza successo il Lunedì di Pasqua di un secolo fa, nel 1916, lo divenne definitivamente nel 1949, con il territorio diviso in due.
Dublino (Baile Átha Cliath in irlandese), con con più di mezzo milione di abitanti, si mostra come una città moderna ed europea. Lasciandoci alle spalle l’Irlanda del Nord, dove il conflitto appena spento ancora rilascia fumo, ci addentriamo in un Paese il cui nazionalismo, ancora palese, si è rilassato fino a raggiungere la normalità degli Stati liberi e sovrani. Il peso della storia e della cultura, immortalato in statue e monumenti, convive oggi con un’architettura fresca e attraente.
All’interno di questa modernità si staglia la costruzione dello stadio Aviva, inaugurato nel 2010 dopo la demolizione dello storico Landsdowne Road. La sua impressionante struttura, sinuosa e lucida, accoglie i tifosi arrivati per un’amichevole contro la Slovacchia. L’atmosfera si distingue subito da quella di Windsor Park. Se a Belfast siamo stati trasportati nella Football League prima dell’esplosione del calcio come attività finanziaria, a Dublino tutto assomiglia di più alla Premier League, la lega più seguita del paese. Bambini, classe media, merchandising ad ogni angolo e, come dentro uno stadio che non si riempirà mai del tutto, meno canti che a Windsor. Una zona mista con calciatori difficilmente raggiungibile e servizi di lusso completano il ritratto del calcio moderno all’irlandese, tipico di una Nazionale per cui l’Europeo non è un premio ma un’esigenza. Neanche la coincidenza di un viaggio insieme ai vicini nordirlandesi in Francia rende il torneo più speciale.
Il cammino dell’Irlanda verso Euro ’16
«La maggior parte dei tifosi dell’Eire ignora l’Irlanda del Nord. È come se non esistesse. Quelli che ricordano le partite cariche di tensione negli anni ’90 vogliono vederli perdere, ma il sentimento dominante è l’indifferenza», commenta Ken Early. Anche Kie Carew non crede che l’inedita partecipazione di entrambe le squadre sia rilevante. «Può essere speciale per i giocatori, ma non per i tifosi», dice, e ricorda che l’ultima volta che le due squadre si sono affrontate all’Aviva – in un’amichevole del 2011 conclusasi 5-0 – «non si spostarono neanche troppi tifosi dal nord». A questo proposito, il capitano dell’Eire, John O’Shea, ha confessato a Panenka di augurare «tutto il meglio all’Irlanda del Nord… dopo la fine del torneo». Ufficialmente, il sud evita riferimenti al nord.
La divisione dopo la rivolta, la pace dopo guerra, la normalità che si impone come motore di una sopravvivenza imperfetta ma tranquilla. L’Irlanda è già due posti diversi? «Negli ultimi anni, la gente della Repubblica si è abituata a pensare all’Irlanda del Nord come a un Paese distinto», spiega Early, che trova una nuova chiave nella sua ultima riflessione: «La divisione dell’isola è già divenuta reale nella testa di molte persone». Nel Paese delle barriere invisibili, tracciate con una linea discontinua, gli unici confini sono nella mente delle persone. E sono forse i più potenti.