«Unbelievable from Kevin Durant».
«Man, do you mean LeBron?»
«No, I said Kevin Durant».
Cleveland, inner city. Uno di quei posti dove l’asfalto si affastella su altro asfalto. Un ragazzino gioca su un playground, da solo, il sudore gli cola sulla fronte. Sta provando a emulare i movimenti e le giocate del suo idolo. Palleggio, step back, tiro. «Unbelievable», urla per farsi forza ogni volta che la palla centra il canestro e scivola lungo la retina malridotta. «Man, I don’t like LeBron. I hate LeBron».
You can hate me now, but I won’t stop now
Cause I can’t stop now, you can hate me now
Tutti odiano LeBron James. Compreso quel ragazzino che imitava Kevin Durant. Compreso Dan Gilbert, il proprietario dei Cavs: «I PERSONALLY GUARANTEE THAT THE CLEVELAND CAVALIERS WILL WIN AN NBA CHAMPIONSHIP BEFORE THE SELF-TITLED FORMER “KING” WINS ONE». È l’unica parte del testo scritta completamente in maiuscolo, una lettera destinata alla città con una chiusa melliflua (“Sleep well, Cleveland”) ma disseminata ovunque di riferimenti pregni di risentimento verso LeBron, additato come «traditore» e «codardo». Tutta la città trae ossigeno da un unico sentimento: l’odio. Le magliette con il suo nome vengono bruciate, e quelle che vengono risparmiate hanno tutt’altro intento: quelle che recitano “Kiss my a$$ LeBron” vanno per la maggiore, con varianti sul tema in una scala dal cattivo al pessimo gusto. Nasce un sito apposito per il merchandising e per diffondere il messaggio, quasi fosse una confessione religiosa. Non restano nemmeno più le vestigia di quella campagna, oggetto fin nei minimi particolari di una damnatio memoriae. Non è detto, però, che quell’odio sia stato completamente sopito.
“Se devono odiarmi, che mi odino per davvero. Mi odino al punto da non poter pronunciare il mio nome. Al punto da dover spegnere la televisione, o accartocciare il giornale, ogni volta che si parla di me. Al punto da dover odiare se stessi per avermi odiato”, pensa LeBron, mentre guida attraverso le vie di Akron. Ne conosce le forme, i significati, il battito cardiaco. «Ero un ragazzo di strada. Ho visto la droga, le armi, gli omicidi». Percorre la West Market Street. Lì vicino c’è la scuola elementare che ha frequentato, la South Portage Path. Il football, poi il basket. Frank Walker è il primo allenatore che abbia mai avuto. Allora LeBron era il più magrolino, il più introverso, il più problematico. Forza ragazzo, tira quel pallone. Accetta la sfida. «I’m ready to accept the challenge. I’m coming home».
And the prophecy read that
One day like the phoenix rose from the ashes
That a boy will be born unto a family in the slums
This boy will go on and use the knowledge that he gains
While fighting for survival in the streets
To become a great leader
And in time that boy will grow to become King
Cleveland non ha assolutamente nulla della magnificenza di certe città americane. Anziché crescere su un simbolo, innestarsi sulla sua identità, Cleveland sembra sia nata dall’accostamento di cose, come una fila di scatole durante un trasloco, una dietro l’altra, una sopra l’altra, di continuo. Non ha riconoscibilità; non ha vanti; non ha miti. È neutra. Forse per questo è stata scelta per ospitare la convention repubblicana, dal 18 al 21 luglio prossimi. Scenario: la Quicken Loans Arena, ossia la casa dei Cleveland Cavaliers. L’annuncio della location venne dato l’8 luglio 2014: location perfetta, e poi senza nessuna squadra di basket a intralciare i preparativi. Non ci giocano gli Heat o gli Spurs. Nessuno immaginava che, appena tre giorni dopo, la storia dello sport, a Cleveland, sarebbe stata scossa da un annuncio ancora più importante.
Ora siamo a Montrose, da queste parti – Fairlawn – LeBron ha casa. Sobborgo residenziale, villette a schiera graziose ma dalle dimensioni contenute, facciate bianche, giardini curati. L’idea della tranquillità. Ma in questo giorno di luglio la confusione agita le fondamenta di strade ed edifici. «I’m not even supposed to be here». No, non l’hai detto ora. Quando l’hai detto, LeBron? No, non eri qui. Non eri a Montrose, nemmeno nell’Ohio. Era Miami. Era la Florida, ma tu l’hai ricordato lo stesso: «I’m LeBron James from Akron, Ohio, from the inner city». Cosa voleva dire? Sì, è chiaro: non dovrebbe essere campione NBA un ragazzino che viene da un posto dove, proprio come nel suo caso, il 57% dei bambini neri cresce senza padre, il 47% dei neri non si diploma e uno su tre rischia di andare in carcere.
«I-am-LeBron-James». Dal minuto 4.18
Quella lettera su Sports Illustrated cominciava così: «Prima che qualcuno si fosse mai interessato a dove avrei giocato a basket, ero un ragazzino che veniva dal nord dell’Ohio. È lì che ho camminato. È lì che ho corso. È lì che ho pianto. È lì che ho sanguinato. Occupa un posto speciale nel mio cuore. Il mio legame con il nord dell’Ohio è più grande del basket. Quattro anni fa non me ne accorgevo. Ora sì». A-kron, O-hio. Due parole che lo avranno scosso, lì a Miami, con il cappello di NBA Champion in testa. Non dovrei nemmeno essere qui.
Dovrei essere a Cleveland, magari.
I’m not afraid
To take a stand
Everybody
Come take my hand
We’ll walk this road together, through the storm
Whatever weather, cold or warm
Just letting you know that you’re not alone
Holler if you feel like you’ve been down the same road
Quelli di là hanno scritto Strength in Numbers. Ce l’hanno scritto ovunque, Strength in Numbers, Strength in Numbers. Non puoi voltarti da nessuna parte senza che il tuo sguardo incroci quella maledetta scritta. È il loro mantra, serve a stordirti. Prima che lo faccia Curry con una tripla in faccia. Tutto contribuisce a farlo: entri nell’Oracle Arena e hai già il respiro corto. Sono i più forti? Il pensiero entra sottotraccia, nella mente, nei polmoni e nelle gambe.
“The Most Cursed Sports Cities in America”. Si intitola così un pezzo del New York Times di 12 mesi fa, più o meno in contemporanea con le NBA Finals 2015, perse da Cleveland contro Golden State. Insomma: la città con la più grande maledizione sportiva d’America. Dalla vittoria dei Browns del football, nel 1964, nessuna squadra di Cleveland in una delle maggiori leghe professionistiche statunitensi è riuscita a vincere un titolo. 147 campionati senza lo straccio di un trofeo. Di là hanno la forza, di qua anche la storia si mette d’intralcio. Golden State vince gara 1 e gara 2: uno scarto di 15 punti nella prima partita, 33 nella seconda. Strength in Numbers. Come fai a non esserne convinto.
Poche cose sono state visibili nelle ultime settimane a Cleveland come quel gigantesco manifesto di LeBron: è di spalle, le braccia spalancate, il volto leggermente inarcato verso l’alto, come se tendesse a qualcosa di più grande, la scritta Cleveland che campeggia sul numero 23. Assomiglia, nella posa, nell’effetto che tende a ricreare, al Cristo sul Corcovado di Rio de Janeiro. È speranza, non certezza. È aggrapparsi alle spalle del 23, e di tutti gli altri. È chiudere gli occhi e provare a vedere oltre la realtà, oltre i numbers, verrebbe da dire. Ed è per questo che la Quicken Loans Arena è tappezzata di believe: Believe in LeBron James. Believe in Kyrie Irving. Believe in Kevin Love. Believe in Timofey Mozgov – sì, serve anche lui. Cleveland si trasforma in Believe City. Questo spot Nike fa trasparire il sentimento dei tifosi dei Cavs lungo tutte le Finals: attesa, sofferenza, commozione. E cosa ha detto LeBron dopo gara 7? «Abbiamo creduto in noi quando nessun altro ci credeva».
We only just began
Yeah I’m here for the Long Run, la la long run
We only just began
Gara 6. Perché ci troviamo qui? Come ci siamo arrivati? Erano le Finals peggiori della storia, a sentire qualcuno. Poco spettacolo, poco equilibrio, poca incertezza. I Cavaliers hanno vinto gara 3 – diciamo pure stravinto – ma poi hanno perso, in casa, gara 4. E da 3-1 mai nessuna squadra, nella storia delle Finals NBA, ha rimontato fino a vincere l’anello. Eppure siamo qui, “abbiamo appena iniziato”, quando, nell’ultimo quarto, Cleveland è avanti, con poco meno di cinque minuti da giocare. Curry palleggia, sfida LeBron, va al ferro per due punti veloci. Salta, ma, dietro di lui, una sagoma ne travolge le intenzioni e, in qualche modo, fa calare il sipario sulla partita – poco dopo Curry verrà espulso. La palla vola via lontano dal canestro. LeBron fissa il 30 di Golden State. «I AM THE KING», scandisce.
I’m so high, I can touch the sky
I know it’s my time
And it’s now or never
Shine so bright, I light the night
And it feels so right, ain’t nothing better
Quanto è durato quell’89 pari in gara 7? Chi ha guardato il cronometro in quegli istanti? Dentro LeBron, un altro cronometro scandiva quei momenti. Quello della storia. Dentro o fuori, senza appello. Ora o mai più, senza indugi. In quella lettera di Sports Illustrated, dichiarava apertamente: «Non prometto che vinceremo l’anello. So quanto sia complicato riuscirci. Ora non siamo pronti: voglio vincere l’anno prossimo, ma sono realista. Sarà un lungo percorso, molto di più di quanto non lo fosse nel 2010. La mia pazienza verrà messa a dura prova». Quanto dovrà aspettare? Anni, decenni, l’eternità?
Clic. Buio ovunque. Silenzio ovunque. Dura un attimo, forse meno di un secondo. LeBron è per terra, faccia in giù, dopo una collisione titanica con Draymond Green. Lo stesso Green che era stato estromesso da gara 5 dopo uno scontro con LeBron, ma anche il primo dei Warriors che si è congratulato con lui dopo la vittoria, abbracciandosi. LeBron è disteso sul parquet, ma in un modo diverso rispetto a qualche minuto dopo. Si rialza dolorante, guarda cronometro e punteggio. Tre sopra Cleveland, dieci secondi e spiccioli alla fine. Si ricompone, va in lunetta. Il pallone pulsa, ma forse sono le sue vene. Primo libero: non va. Non è ammissibile lasciare un margine di tre punti, non con quegli avversari lì. Il secondo libero è quello buono. L’ultimo canestro della partita lo mette a segno proprio lui, e non può essere un caso.
Di nuovo, clic. Silenzio, ma non buio. Tutto è illuminato attorno a LeBron. «I promise to never forget where I came from». La passione può essere «overwhelming» da queste parti, aveva detto. L’emozione, di più. Poi, le lacrime. Clic.
Le 7 partite delle Finals di LBJ, condensate. Media di 29,7 punti, 11,3 rimbalzi, 8,9 assist