Rule Britannia?

Sei giocatori britannici del passato recente che abbiamo amato, ora che l'Inghilterra è fuori dall'Europeo e la Gran Bretagna ai ferri corti con la Ue.

HDopo la Brexit (quella politica) e l’eliminazione dall’Europeo francese a opera dell’Islanda, cosa rimane dell’Inghilterra/Gran Bretagna calcistica? Abbiamo chiesto a sei firme di Undici di ricordare un calciatore britannico a cui sono affezionati. I prescelti: Michael Owen, Gary McAllister, Bobby Zamora, Joe Cole, Dennis Wise, David Platt.

Michael Owen

In terza elementare, credo, ci venne chiesto di fare un tema sul nostro supereroe preferito. I miei compagni scrissero di Batman, di Spiderman, di qualche protagonista dei cartoni animati giapponesi. Io, invece, in quello che ora, col senno di poi, posso definire come il primo pezzo calcistico della mia vita, buttai giù tre colonne in una grafia che non avrò mai più su Micheal Owen. Quando poi lessi, nel commento di correzione della maestra, che non avevo capito del tutto la consegna, perché Micheal Owen non era un supereroe, la mia reazione fu istantanea: «E allora come fa a correre così veloce?». Mi innamorai di lui in una delle prime partite di cui ho un ricordo, seppur vago: Inghilterra-Argentina, Mondiali 1998. Avevo cinque anni e mezzo, e del calcio sapevo giusto due cose: quale era la squadra da tifare e che dalle sorti di questa squadra dipendeva l’umore di mio padre la domenica sera. Nonostante questo, mi sembrò subito naturale affibbiare lo status di supereroe ad un essere umano capace di correre a quella velocità palla al piede per quaranta metri senza perdere la lucidità necessaria per segnare un gol difficile da fare anche da fermo. Pochi mesi dopo, quando mi venne regalato il primo videogioco della mia vita, scoprii che Owen – rinominato Oren – era davvero uno dei giocatori più forti del mondo, e senza dubbio uno dei più veloci. La mia divenne una fissazione: mi feci regalare la maglia di Owen, il poster di Owen, il portafoglio di Owen (a poco più di sei anni, senza avere neanche una lira da metterci dentro), imparai a memoria la sua data di nascita (che ricordo tuttora: 14 dicembre 1979. È più facile che mi scordi quella della mia fidanzata), iniziai a professarmi tifoso del Liverpool. Quando nel 2001 vinse il Pallone d’Oro decretai un giorno di festa per tutta la famiglia, e insistei per andare a scuola indossando la sua maglia sotto il grembiule. Più tardi, i suoi infortuni e i suoi fallimenti furono i primi bocconi agrodolci di un calcio che, crescendo, diventava sempre meno terreno di scontro tra supereroi e sempre più palcoscenico drammatico. Io, nel frattempo, mi sono innamorato di tanti altri calciatori, di un amore ancora più grande e ancora più doloroso. Per rispetto, però, non sono mai più riuscito ad amare altri attaccanti così veloci da sembrare supereroi. (Simone Donati)

Gary McAllister

Leggenda vuole che la causa dell’unico errore dal dischetto di Gary McAllister, a Euro 96 in Inghilterra-Scozia, sia stato il sensitivo Uri Geller, che con la forza della mente spostò leggermente la palla un attimo prima del calcio. Piegare le leggi della fisica al proprio volere: siamo nell’ambito del paranormale e ci fermiamo qui. McAllister però, in carriera, è riuscito a piegare la legge del tempo alle sue qualità, diventando un idolo del Liverpool a dispetto delle breve militanza (due stagioni) e dell’età avanzata (35 anni) al momento del suo ingaggio. Accolto da perplessità e battutine, non per dubbi sulle sue qualità, ma in quanto considerato giocatore da club di provincia, bravo ad accendere la luce quando si trattava di salvarsi, anche se a metà anni ’90 un campionato con il Leeds lo aveva pure vinto. Soprattutto, preoccupava la data di scadenza. «Se McAllister gioca più di 10 partite mi calo le braghe da Woolworths», scrisse il direttore di un quotidiano locale. Non è dato sapere cosa fece quell’uomo quando, a fine stagione, il Liverpool mise in bacheca tre trofei (Coppa di Lega, FA Cup, Coppa Uefa), tutti griffati (anche) dallo scozzese. La Uefa soprattutto, con il professor McAllister salito in cattedra nella semifinale contro il Barcellona zeppo di futuri allenatori (Guardiola, Frank de Boer, Luis Enrique, Cocu, Kluivert), eliminato proprio da un rigore del nostro. Nella pazza finale con l’Alavés, McAllister entra in quattro delle cinque reti dei Reds: assist a Babbel per l’1-0, rigore del 3-1, assist a Fowler per il 4-3, punizione decisiva deviata da Geli nella propria porta per il definitivo 5-4. È facile scegliere l’Mvp a fine partita. Houllier, che lo volle a Liverpool, lo chiamava The Enforcerer. Faro nella mediana Reds, tutor per la crescita dei giovani di casa (Gerrard, Owen, Carragher, Murphy), specialista nei calci piazzati – nella storia del derby del Merseyside la punizione da 40 metri che nell’aprile 2001 decise al 95’ la 164esima sfida tra Liverpool e Everton. Ha salutato la Kop nel 2002, a 37 anni, dopo 87 partite, da secondo Macca più famoso – il primo rimane quel Paul – della città di Liverpool. (Alec Cordolcini)

CARDIFF, UNITED KINGDOM: Liverpool's Gary McAllister sends Manchester United's French goalkeeper Fabien Barthez the wrong way to score the first goal 12 August 2001, during their FA Charity Shield match at the Millennium Stadium in Cardiff. The Charity Shield is contested by the Premiership Champions (Manchester United) and the FA Cup winners (Liverpool). The Premiership starts next week on 18 August 2001. AFP PHOTO/Gerry PENNY (Photo credit should read GERRY PENNY/AFP/Getty Images)
Gary McAllister spiazza Fabien Barthez durante la FA Charity Shield a Cardiffn nel 2001, vinta dal Liverpool (Gerry Penny/Afp/Getty Images)

 

Bobby Zamora

Ragionando per contrappassi e scenari potenziali, l’Inghilterra degli anni Zero si lega a filo doppio alle prestazioni dei propri coloni trinidadiani. Nulla che abbia a che vedere con questioni spiccatamente geopolitiche come l’assegnazione delle Malvinas, né si tratta della tipica opposizione dominion–madrepatria: è più che altro un what if, un “come sarebbe andata se” alla luce di come è andata davvero. Il Mondiale tedesco del 2006 ha conosciuto la conquista del primo storico punto da parte di Trinidad e Tobago, a oggi la nazione più piccola ad aver mai preso parte a una fase finale. Il capitano Dwight Yorke, per l’occasione, si auto-schierava libero per aiutare i suoi in fase di manovra, come il migliore Weah di Coppa d’Africa; la vittima dello 0-0, al match inaugurale, fu una spaesata Svezia. All’incontro seguente, proprio contro gli inglesi, la selezione di Beenhakker si arrese alle stoccate di Crouch e Gerrard, ma solo al minuto 83; l’uscita dal girone fu sancita dallo 0-2 con il Paraguay. Per quanto la parabola dei Soca Warriors sia rimasta nella storia rinnovando l’epopea di Cool Runnings, pesa sul bilancio dell’impresa lo score di zero marcature. Questo perché il più forte trinidadiano della storia – un Bobby che non è un guardiano cittadino né il Charlton sollevatore di Rimet – si era dichiarato ineleggibile per i colori caraibici. Robert Lester Zamora era, ai tempi, solo all’inizio della sua consacrazione a oggetto di culto delle tifoserie inglesi: stava giusto perdendo una finale di FA Cup in maglia West Ham, squadra che più di ogni altra rappresentava il sogno della sua infanzia. Del resto per The Bobfather, atipico tra gli atipici, è valso un curioso bacino di azione tutto londinese: o almeno così pare leggendo dei passaggi tra Tottenham, West Ham, Fulham e Qpr, per un totale di dodici stagioni. Considerando poi che le esperienze più lontane dalla City sono il Bristol e il Bath, agli esordi, e che è esploso a Brighton, ovvero dove i londinesi vanno al mare, il cerchio si chiude in senso letterale: al Brighton & Hove Zamora è esploso nel 2000, in Third Division; ai Seagulls è arrivato terzo giusto in primavera, sfiorando l’ennesima promozione in Premier della carriera.

La chiosa è che nel 2009, finalmente aggregatosi alla squadra del paese paterno, si ruppe poco prima del match con El Salvador. Nel 2010, dopo la finale che il suo Fulham regalò all’Atletico Madrid in overtime, Capello lo premiò con il primo gettone inglese, contro l’Ungheria. L’anno dopo, a novembre, giocò più di settanta minuti, contribuendo a battere proprio la Svezia. L’apposito coro, modulato su Dean Martin, si basa su tre varianti. Quando era giovane e forte: «When the ball hits the goal / it’s not Shearer or Cole / it’s Zamora»; quando non rendeva: «When you’re stuck in row Z / and the ball hits your head / that’s Zamora»; quando conquistava i cuori della curva: «When the ball hits the net / who’s the scorer I bet / it’s Zamora». In tempi di “uscite” dall’Ue, quello di Zamora resta il ritratto di un “al di fuori” per eccellenza. (Alessandro Fabi)

Tributo del Brighton & Hove: that’s Zamora

Joe Cole

I primi anni di università sono stati gli anni, seguendo uno schema poco originale, dei flirt con le sottoculture britanniche. Anche la passione calcistica ne era naturalmente influenzata, ma l’Inghilterra, pure nella realtà ludica, non era una squadra di primo livello. Nei pomeriggi passati a giocare a Pro Evolution Soccer toccava sfidare amici anticipatori del tiqui taca già nel 2006 con centrocampi muscolari ma lenti, capaci di forti tiri dalla distanza e poco altro. L’eleganza e l’istrionismo e l’eccentricità che pure attraversavano le canzoni di Small Faces, Yardbirds, Who, non vedevano parallelismi sul campo verde, se non in un singolo giocatore, Joe Cole, con i suoi valori “arancioni”, talvolta “rossi” (ovvero: oltre i 90 punti su una scala di 100) alle voci precisione dribblingvelocità dribbling. Poi c’era il campo vero, e Cole era comunque uno dei pochi giocatori britannici in grado di offrire spettacolari giocate con la palla tra i piedi, momenti di originalità nella noiosa Premier League dei cambi di gioco e dei gol da 35 metri. C’era il fascino romantico delle carriere tramontate a 27 anni, quello delle occasioni sprecate, del destino e degli infortuni, dei “se”, delle ucronie, dei tentativi di risollevarsi in Francia. I lampi di classe di Cole mi ricordavano Kaká. I ricordi che rimarranno sono pochi, sono già oggi pochi su Youtube, ovvero sull’archivio della memoria visiva del mondo. Del suo gol più bello, per esempio, non rimane che un video sgranato, quando meriterebbe di più. Per la difesa del pallone, la velocità dei piedi, soprattutto la velocità della mente. Eppure decise la Premier League, un 3-0 al Manchester United, il secondo titolo consecutivo per il Chelsea, il 29 aprile di dieci anni fa. Questo nella descrizione del video non è riportato, e c’è soltanto un commento. Dice: «Take a bow son». (Davide Coppo)

Dennis Wise

Stavo per avere una cameretta tutta mia. Dovevo resistere soltanto un mese, giusto il tempo che trapani e piccozze riassettassero casa nostra, trasformando la sala da pranzo nella nuova stanza dei miei due fratelli minori. Loro erano cresciuti, io reclamavo spazio per me. Era l’aprile del 1998. Senza il mini-canestro di casa, sepolto sotto un cellophane e due dita di polvere, le sere di quell’inizio primavera erano consacrate alla tv e al divano in velluto blu del salotto di casa di nonna, dove ci eravamo momentaneamente trasferiti. Una sera finii su Rete 4. Vi trovai Sandro Piccinini che commentava Chelsea-Vicenza, semifinale di ritorno di Coppa delle Coppe. Facevo la prima media e di calcio sapevo pochino, ma mi colpirono subito due cose: che la squadra italiana per cui il telecronista urlava non fosse la Juve, e che nel Chelsea – in maglia gialla – giocassero più italiani che inglesi. Con il numero 11, tuttavia, c’era un londinese che valeva doppio, forse triplo, e che a fine partita (e per molti anni a venire) avrei identificato con l’idea stessa di “calcio inglese”. Dennis Frank Wise era un centrocampista compatto, energico, incredibilmente completo. Conteneva in 168 centimetri tutte le caratteristiche che Lampard e Gerrard avrebbero sublimato, e che Dele Alli sembra avere ereditato. Mi stregò. Dennis Wise correva e suggeriva, si inseriva e menava. Menava per davvero, finendo spesso e volentieri per rivelarsi non troppo wise. Vialli, giocatore-allenatore di quel Chelsea, disse di lui che sarebbe stato in grado di scatenare una rissa in una stanza vuota; qualche anno dopo, si sarebbe fatto cacciare dal Leicester per aver spaccato la mascella a un compagno di squadra. Quella sera Zola e compagni eliminarono il Vicenza, spezzando di forza la favola di Zauli e Luiso. Tre settimane dopo, mentre il Chelsea vinceva la sua seconda Coppa delle Coppe, io pensavo che un poster di Dennis Wise ci sarebbe stato benissimo nella mia nuova cameretta, di fronte al canestro. (Leonardo Piccione)

4 Mar 1999: Chelsea captain Dennis Wise celebrates after scoring against Valerenga in the European Cup Winners Cup quarter-final first leg match at Stamford Bridge in London. Chelsea won 3-0. Mandatory Credit: Ross Kinnaird /Allsport
Dennis Wise esulta nel 1999, dopo un gol segnato contro il Valerenga in Coppa delle coppe (Ross Kinnaird /Allsport)

 

David Platt

Era il tempo in cui in Italia arrivavano solo i migliori e per essere i migliori bisognava venire a dimostrarlo da noi. Persino gli inglesi. Soprattutto gli inglesi. La Brexit di allora, ironia della sorte, l’aveva imposta l’Europa a loro sotto forma di un provvedimento che li bandiva per cinque anni dalle coppe europee dopo l’Heysel , e anche se nel ’90 la pena era estinta, a quel punto l’Inghilterra non era più il centro del mondo e i suoi scolari più applicati facevano la fila per venire in Erasmus da questa parte delle Alpi. David Platt approdò in Serie A la stessa estate, quella di venticinque anni fa, in cui sbarcavano nel nostro campionato Boban e Scifo, Kohler e Stojkovic, Bierhoff e Batistuta. Gli altri – gli olandesi del Milan, i tedeschi dell’Inter – erano già tutti qui, e se non erano qui – Maradona – evidentemente non erano più il top. Famiglia borghese della periferia bene di Manchester, una stravagante (per un calciatore) passione per il latino, Platt era stato tra i pochi a rendere davvero magiche le notti di Italia ’90: una leggiadra volée al tramonto del secondo supplementare contro il Belgio, l’ouverture del dramma in cinque atti contro il Camerun (3-2) ai quarti di finale, il momentaneo pareggio nella finalina contro di noi. Di quell’Inghilterra (l’ultima, escluso l’Europeo giocato in casa, a raggiungere una semifinale di qualcosa) Lineker era l’indiscussa stella, lui l’homo novus chiamato a marcare il nuovo decennio. Le cose non andarono esattamente come previsto, però in Italia “Guglielmo il dentone” (così lo ribattezzò la Gialappa’s) lasciò buoni ricordi ovunque: a Bari, malgrado un’inattesa retrocessione; a Torino, nonostante un poverissimo bottino di gol e presenze; a Genova, pur in un ciclo declinante. Il meglio lo aveva già dato all’Aston Villa, ma a noi bastarono i suoi sorrisi, la sua disponibilità e il suo eccellente italiano, quasi un miracolo per un britannico. E poi, in fondo, ce l’eravamo già goduti nelle Notti Magiche: almeno lui. (Andrea De Benedetti)

Rovesciata in semifinale di Coppa Italia 1993/94. Una Samp con, tra gli altri, Mancini e Gullit

 

Nell’immagine in testata, Walcott e Cole nel 2010, alla presentazione del Mondiale in Sud Africa (Jasper Juinen/Getty Images)